INVERNO 1970
INISHOWEN CO. DONEGAL
In senso stretto, fu il suo cane Liadh a trovare il corpo.
Durante la notte arrivò una tempesta dall’Atlantico. Ululava intorno alla casa, facendo rimbalzare ramoscelli dalle liste del tetto e spezzando i rami del noce in giardino. Con esuberanza metallica la serra fatiscente crollò su se stessa. Il mattino seguente portò una brillantezza che abbellì i campi di un calore fuori stagione. In lontananza Lough Swilly, di uno scontroso color peltro, era diventata silenziosa.
Il cane si era agitato per tutta la notte e aveva ringhiato nel sonno. Appena fece chiaro, Tom Mundy la portò fuori per una passeggiata. Ora che era vecchio gli succedeva che, una volta svegliatosi, non riuscisse a tornare a dormire, per quanto si sforzasse. Si alzò dal letto e preparò una tazza di tè prima di mettere il cane nel bagagliaio della macchina e guidare in direzione della foresta. Con lei al suo fianco camminava lungo il sentiero a lunghi passi regolari. Ovunque c’erano segni dei danni provocati dal temporale: gli stivali affondavano nel terreno impregnato d’acqua; un recinto si era rotto; un albero caduto era steso attraverso il sentiero con le radici capovolte in modo vagamente osceno. Ci si arrampicò sopra con cura. Liadh balzò fuori dal sottobosco, dimenticò le preoccupazioni notturne e, quando lui si fu raddrizzato, gli saltò intorno.
«Cane cattivo!» la respinse, «sciò, sciò…», eppure era contento della sua compagnia. Era anche grato del fatto che ci fosse abbastanza vita nelle sue vecchie ossa da permettergli di uscire a piedi nell’aria del mattino presto. Gonfiatosi per la pioggia, il fiume tuonava oltre gli alberi. La sua canzone lo accompagnava come un commento sconnesso mentre camminava per la strada che serpeggiava su per la collina. Quando era bambino gli era stato raccontato di un uomo e di un ragazzo che avevano tentato di attraversare quel fiume mentre era in piena. I loro corpi erano stati ritrovati alla foce, dove il fiume si svuota in mare. Successivamente, gli uomini della forestale avevano costruito un ponte e, da allora, la popolazione locale aveva potuto attraversare in sicurezza. Era un ponte di legno ben costruito che aveva resistito alle peggiori intemperie. In ogni modo, era stata una tempesta terribile, abbastanza potente da distruggere qualunque ponte; pensò che fosse meglio accertarsene…
Sotto il berretto di tweed il suo volto ossuto sembrava indistruttibile. Quando la foresta scomparve dietro di lui, camminò in un paesaggio di roccia raschiata e basalto.
Il suo istinto era stato corretto.
Sotto di lui, il ponte se ne stava sbilanciato verso un lato del fiume. Si era spezzato come una scheggia di legno. Le travi lunghe sporgevano fuori dall’acqua e le traverse erano state distrutte. Alcune travi si erano impigliate tra le rocce, altre erano state trascinate via dalla corrente. Un’estremità del ponte era ancora fissata saldamente alle fondazioni, mentre dall’altro lato era rimasta una cascata di rocce e pietre là dove il ponte si era svincolato durante il temporale.
Pietre smosse gli cedettero sotto i piedi quando balzò giù per guardare più da vicino. Liadh, con la coda in su, lo superò. Saltò nel fiume e scomparve tra le rocce. Lui fischiò. Non ci fu risposta.
«Cane cattivo!» brontolò mentre si aggrappava all’estremità del ponte ancora fissata a terra. Dov’era?
Liadh abbaiò: un richiamo chiaro come un fischio. Poi di nuovo, per la seconda volta, come se avesse qualcosa da dirgli. Il cane scorrazzò di nuovo saltandogli intorno mentre l’uomo guardava, dall’altra parte del fiume, il fagotto di vestiti intrappolati nel mucchio di rocce. Il cane si lanciò di nuovo in avanti. Gridando oscenità, l’uomo la tirò indietro e la colpì con il bastone.
«Fermati!» gridò. Il cane sgattaiolò e si accucciò nell’erba.
Improvvisamente esausto, il vecchio barcollò sul terreno bagnato. Dietro gli occhi chiusi, vide figure sparse muoversi in avanti in linea, come se battessero l’erica e scrutassero sotto le rocce e spingessero con dei bastoni entro pozze di palude. La natura era riuscita, pensò, dove la polizia e la gente del luogo avevano fallito. Il pensiero lo spezzò. Le ginocchia si accasciarono quando una marea disgustosa e acida gli affluì dallo stomaco e vomitò sull’erba.
«Sciò, sciò…» piagnucolò l’uomo più a se stesso che al cane. Con la testa tra le mani si inginocchiò e, da qualche parte nel profondo, emerse un lungo lamento.
«O Sacro Cuore di Gesù, dammi la forza», pregava. «O perdonami, Maria, Madre di Cristo».
Si benedisse e lottò per rimanere sulla riva. Poi guadò l’acqua, finché non si trovò abbastanza vicino per vederle la mano gonfia, mezzo mangiata dai pesci, il polsino di un cardigan rosso e, dove una volta c’era il viso, una massa spugnosa di carne già strappata via dal cranio. Capì subito che era la ragazza della sua fotografia. Inconfondibile.
La sua giovane vicina di casa, Rosaleen McAvady.
© dell’Autore
Traduzione di Anna Anzani