Nadia si alzò dal letto alle sei e trenta,
quattro minuti prima che la sveglia emettesse lo squillo quotidiano. Entrò nel bagno di ceramica bianca, aprì l’acqua della doccia, si spogliò del pigiama e si buttò sotto il getto bollente, sfregando con energia ogni centimetro di pelle. Avvolse il corpo bagnato in un leggero accappatoio e si appoggiò al termosifone caldo per qualche minuto.
Quando fu asciutta, lo tolse e lo appese al gancio cromato della porta. Completamente nuda, salì sulla bilancia elettronica, osservò i numeri che si andavano componendo sul piccolo schermo ed emise un sospiro che suonava più come uno sbuffo.
Si mise di profilo davanti al grande specchio che sovrastava il lavandino smaltato, scrutò la curva appena accennata del seno e il ventre concavo che scendeva verso l’inguine totalmente depilato.
Si rivestì con lentezza: la biancheria, una camicia di seta, i pantaloni color sabbia e una maglia di lana. Scalza andò in cucina. I piedi lasciavano impronte umide sul pavimento di marmo lucido. Nadia rabbrividì. Si accostò ai fornelli in acciaio e studiò il proprio volto riflesso nella superficie satinata e perfettamente pulita: il caschetto di capelli corvini, gli zigomi sporgenti, il taglio allungato degli occhi scuri.
Da un barattolo di alluminio prese una cialda odorosa e la inserì nella macchina del caffè, nera e lucente, in contrasto con il bianco immacolato della cucina e del pavimento. Si appoggiò per un istante a una delle sedie in plastica trasparente che attorniavano il tavolo laccato e sorseggiò il caffè amaro. Accese il televisore ultrapiatto che occupava un angolo della libreria, popolata di volumi mai letti, ma dotati di straordinaria armonia cromatica.
La sigla del Tg rimbombò fra le pareti nude. La donna afferrò da sotto il lavandino i guanti di gomma, uno straccio e il disinfettante e iniziò, come ogni mattina, la pulizia meticolosa del bilocale. I gesti erano meccanici, lo sguardo concentrato sulle superfici, che venivano sottoposte a una minuziosa detersione.
Solo dopo un’ora di lavoro indossò calze e scarpe, preparò la borsa della palestra, dove avrebbe trascorso la pausa del pranzo, afferrò la borsetta, si mise il cappotto e uscì di casa.
Era buio quando rientrò nell’appartamento. Vi aleggiava ancora l’odore pungente del disinfettante. Lo aspirò profondamente. Premette l’interruttore e i faretti in acciaio diffusero una luce livida che si riverberò come ogni sera sulle superfici perfettamente bianche e lucide.
Si tolse le scarpe,
le ripose nel mobile accanto alla porta d’ingresso e rimase scalza. In camera da letto posò le borse, appese il cappotto e tornò in cucina. Si accostò al frigorifero d’acciaio che si ergeva in un angolo, agguantò una presina e aprì l’anta, attenta a non lasciare impronte sulla superficie.
Ne estrasse una confezione di insalata. La condì con sale e succo di limone. Accese la Tv, la sintonizzò su un gioco a premi e si sedette al tavolo, dove consumò la cena. Mentre riponeva l’unico piatto nella lavastoviglie, suonò il campanello. Aprì la serratura e tornò al tavolo, da cui tolse il bicchiere e la bottiglia di acqua naturale.
Armando si chiuse l’uscio alle spalle, si levò le scarpe e la raggiunse. Le diede un bacio leggero sulla guancia.
«Tutto a posto, amore? Come è andata la giornata oggi?» le domandò.
«Bene, sono solo un po’ stanca. E tu?».
«Solito. Come mai stanca? Sei stata in palestra anche oggi?».
«Naturale. Lo sai che mi rilassa».
«Se lo dici tu…».
Si accomodarono sul divano in pelle, davanti a un telefilm poliziesco appena iniziato. Armando accarezzava i capelli sottili della fidanzata che gli si stava appisolando sulla spalla.
«Nadia, dove sono le chiavi della cantina?» le chiese, svegliandola.
«Quale cantina?».
«La cantina dell’appartamento. Quando ti ho aiutata a traslocare, ricordo di aver visto una cantina».
«Non so, non credo di esserci mai entrata. Comunque tutte le chiavi sono in quel cassetto», disse indicando la libreria. «A che ti servono?».
«Se non ti spiace, volevo metterci il mio vecchio computer. In casa mia non c’è più spazio», le comunicò l’uomo alzandosi dal divano e avvicinandosi al cassetto del mobile. «Eccole! Guarda: c’è anche scritto cantina. Ti spiace se le tengo per qualche giorno?».
«Fa’ pure» gli rispose la donna sbadigliando.
«Sei proprio stanca. Forse è meglio che vada. Ma… domani, che facciamo?».
«Domani? È solo giovedì».
«Su, non far finta di essertene dimenticata: è il tuo compleanno! Ti va se usciamo a cena?».
«Ah già. No, a cena proprio no. Ho tantissimo lavoro da sbrigare in ufficio e so già che la sera sarò distrutta. Facciamo un’altra volta».
«Ok, niente cena, penserò a qualcos’altro. Adesso vado. ‘Notte, amore. Vai a nanna». La abbracciò e la strinse a sé. Nadia gli offrì la guancia, lo accompagnò alla porta e la richiuse con quattro mandate. Spense la tv, andò in bagno, si versò sette gocce di sonnifero e, dopo essersi cambiata, si coricò. Si addormentò all’istante.
Erano le sei e trenta precise
quando Nadia si alzò dal letto. Entrò in bagno, si fece la doccia, si pesò e ne sorrise.
Indossò un abito grigio di maglia e si diresse in cucina. Si preparò il caffè mentre la tv trasmetteva le notizie del giorno. Infilò i guanti di plastica, prese uno straccio pulito e il disinfettante. Ripulì l’appartamento strofinando energicamente ogni angolo. Preparò la sacca per la palestra, indossò un paio di stivali dal tacco alto, il cappotto, afferrò la borsa e uscì di casa.
Fece ritorno nell’appartamento che era già sera. Da una busta di carta estrasse una bottiglia di Franciacorta dolce e la sistemò nell’apposito vano del frigorifero. Guardò l’ora: erano da poco passate le sette. Accese il televisore, pelò una carota e si accoccolò sul divano, sgranocchiando rumorosamente. Stava iniziando il Tg quando il campanello suonò. Nadia spense la tv e si alzò per aprire.
«Buon compleanno, amore». Sorridendo, Armando alzò un braccio, mostrando una scatola con impresso il nome della pasticceria più rinomata della zona. L’altra mano reggeva un pacco voluminoso di spessore sottile. «In attesa di poter cenare insieme, ho pensato di festeggiare con la famosa millefoglie di Dolci pensieri. L’hai mai assaggiata? È stre-pi-to-sa».
Nadia gli tolse il dolce dalle mani e si lasciò baciare, allontanandosi bruscamente quando lui fece per stringerla a sé con l’unica mano libera. «La metto in frigo, va bene? Io ne prenderò solo un pezzettino, perché a cena ho un po’ esagerato». E si diresse al frigorifero.
«Nessun problema: mangerò anche la tua parte!» fece lui, seguendola. «Ma le sorprese non sono finite…Vieni qua e guarda».
Armando appoggiò sul tavolo l’involucro che stringeva nella mano: un grosso rettangolo, avvolto in carta da pacco. Al centro troneggiava un fiocco rosso, cui era stata applicata in modo maldestro una busta rosa. Nadia la prese e la aprì. Ne estrasse un cartoncino. Le note di Tanti auguri a te risuonarono nella stanza.
La donna lesse il messaggio: «Alla mia bambolina per i suoi trentasette anni. Con amore, Armi». Studiò il biglietto per qualche secondo, lo ripiegò e le note si spensero. Lo ripose nella busta.
«Prima che tu lo apra, sappi che è stata una folgorazione», fece Armando, indicando il pacco che occupava tutto il tavolo. «Avevo pensato di regalarti qualcosa d’altro, ma quando questo pomeriggio l’ho visto, non ho saputo resistere. Anche perché, te lo confesso, le pareti bianche di questo appartamento mi provocano sempre un po’ di angoscia».
«Immagino si tratti di un quadro».
«Che intuito! Dai, aprilo!».
Nadia cercò in un cassetto un paio di forbici e tagliò il nastro. Proseguì incidendo la carta su di un lato, quindi sfilò il quadro.
Le ci vollero alcuni istanti per realizzare che cosa stava guardando: blu cobalto, gradazioni di verde, violente pennellate di rosso, macchie gialle, sfregi viola. «Questo quadro… l’ho dipinto io». La sua voce era un sussurro.
«Sapevo che lo avresti riconosciuto». Armando sembrava trionfante. «Nel pomeriggio sono venuto a portare il mio vecchio pc in cantina e l’ho visto. Ti ricordi? Risale al periodo in cui frequentavi l’accademia e ti eri messa in testa di fare l’artista».
«Già». Nadia continuava a fissare la tela.
«Per fortuna con l’età hai messo la testolina a posto», le disse scompigliandole affettuosamente i capelli.
«Eh sì, per fortuna». La donna non smetteva di fissare il dipinto.
«Ricordi com’eri buffa? Con quei vestiti raccattati nei mercatini dell’usato, e i capelli dai colori improbabili. Io però avevo capito che dietro quell’aria stravagante si nascondeva una brava bambina». Le si accostò e le cinse le spalle con un braccio. Uno accanto all’altra esaminavano il quadro.
Lui riprese: «Io non ci capisco molto di pittura, però mi sembra abbastanza decorativo. Ho passato tutto il pomeriggio a cercare la cornice adatta. Che dici, ti piace?».
«Sì, molto».
«So che non dovrei dirlo, ma vale più la cornice del quadro! E allora: dove lo appendiamo questo peccato di gioventù?».
«Non so, ci devo pensare. Ora, però, spostalo dal tavolo e mangiamo la torta».
«Mmm…non vedo l’ora! Abbonda pure con la mia fetta. Le chiavi della cantina te le rimetto nel cassetto, tanto non mi servono più».
Nadia prese due piattini, tagliò una generosa porzione di millefoglie per l’uomo e un angolo minuscolo per sé. Stappò la bottiglia di spumante e ne versò due bicchieri.
«Felice compleanno, amore. Sabato, però, festeggiamo sul serio. Questo è solo un anticipo», le promise con un sorriso.
Erano passate le dieci quando Nadia lo accompagnò alla porta. Lo ringraziò della serata, si lasciò baciare e girò la chiave con quattro mandate.
Si incamminò verso il centro della cucina, prese la tela e la appoggiò a terra, contro la parete. Si sedette sui talloni e fissò a lungo l’orgia di colore che aveva dinnanzi. Dopo alcuni minuti si rialzò, aprì l’anta del frigorifero e prese la scatola che conteneva la millefoglie. Ritornò accanto al quadro, mise la torta sul pavimento e vi si inginocchiò davanti. Immerse il dito indice nella densa crema gialla e lo portò alle labbra. Quindi affondò tutta la mano e si riempì la bocca di zabaione, sfoglia e cioccolata. Masticava con lentezza, senza mai distogliere lo sguardo dal dipinto. Si leccò le dita e nuovamente tuffò la mano nel dolce.
Non riuscì a terminare la torta.
Accanto al suo peccato di gioventù, scivolò nel sonno.
Erano passate le sette quando Nadia aprì gli occhi e si levò dal pavimento. La torta si era sciolta, creando una pozza densa, marrone e giallognola, sul marmo immacolato. La donna gettò uno sguardo all’orologio in acciaio sopra il frigorifero e si diresse in bagno. Lo specchio le rimandò l’immagine di un volto più pallido del solito, di occhi cerchiati, di un baffo di zabaione sulla guancia destra. Si spogliò velocemente e si infilò nella doccia.
Ne uscì dopo pochi minuti, indossò l’accappatoio e si frizionò energicamente i capelli bagnati. Raccolse in un fagotto i vestiti e li depose nel cesto dei panni sporchi. In camera da letto aprì l’armadio, ne tolse un maglione a dolcevita nero e un paio di pantaloni dello stesso colore. Preparò la borsa della palestra, agguantò la borsetta e un giaccone. Ignorando la macchia gialla che si andava allargando sul pavimento del soggiorno, uscì di casa.
Rientrò che non era ancora buio. Fu investita da un gradevole odore di vaniglia. Accese le luci e si diresse verso la libreria. Aprì il cassetto e prese la chiave della cantina. Senza guardarlo, afferrò con una mano il quadro ancora appoggiato a terra e ne aprì la cornice. Sfilò la tela e la arrotolò lasciando la parte dipinta all’interno, quindi la fermò con un elastico. Con il rotolo sotto il braccio, uscì dall’appartamento.
Vi fece ritorno dopo una diecina di minuti. Si tolse le scarpe e si diresse verso la cucina. Prese dall’armadietto sotto il lavandino i guanti e la carta assorbente e si chinò su ciò che rimaneva della millefoglie. Ripulì il pavimento della crema e delle briciole, gettando tutto nella spazzatura. Quindi afferrò uno straccio e la bottiglia del disinfettante. Ogni angolo del bilocale fu accuratamente strofinato.
Poi estrasse da un cassetto un martello e una scatolina di chiodi. Ricompose la cornice che giaceva sul tavolo e studiò per qualche secondo la parete accanto alla libreria. Con pochi colpi sicuri, piantò due chiodi e appese il telaio che aveva incorniciato per poche ore il suo peccato di gioventù.
L’orologio segnava le sette, quando si tolse i guanti di gomma e si prese un bicchiere d’acqua. La sorseggiò quietamente sul divano, contemplando il biancore della parete, che appariva ancora più livido, in contrasto con la cornice barocca che lo riquadrava.
Il campanello della porta suonò, lei continuò a bere. Il campanello trillò nuovamente e più a lungo. Udì una voce maschile da dietro la porta: «Bambolina, ci sei?».
Terminò l’acqua.
«Amore? Allora? Mi apri?».
Rimanendo seduta, appoggiò il bicchiere sul tavolino.
«Nadia?». Ci fu un’altra scampanellata, poi un rumore di passi che si allontanavano.
Nadia si mise una mano nella tasca dei pantaloni e ne estrasse una chiave, da cui pendeva l’etichetta cantina. La osservò per una frazione di secondo, poi si alzò dal divano e si avviò verso la cucina.
Gettò la chiave nella spazzatura. Si prese un altro bicchiere d’acqua.