Ma non ha allentato la presa il freddo umido che mi tormentava fino a poco fa. Semplicemente la forma del mio corpo s’è foggiata sulla sua stretta. Ora, quel gelo discrepante lo ricordo appena. Ma se ci penso, lo posso sentire. È passato, in me. Tutto qua. È quasi buio, ora. Buio, il futuro, quant’è vero che il tempo avanza. Nessuna sagoma nell’alito di vento. Nessuna striatura d’odore veleggia. Chiudo gli occhi e un’oscurità sanguigna, carne semi-trasparente, colora la luce. Punti scuri, vibranti, e, intorno ad essi, quasi impercettibili, sfuggenti orbitanti corpuscoli. I passi di lui, che s’allontana. Era prima. S’allontanava. Li so sentire ancora, se ci penso. Li ricordo: è passato.
Vedo il viso d’uno sconosciuto, da qualche parte, una persona abbandonata contro allo stipite d’una porta: attende. Qualcuno. O d’uscire. Oppure d’entrare. Sembra intimidito, fuori luogo. Lentamente viene spostato da un’onda luminosa che è apparsa improvvisa dietro alle sue spalle. Sembrava non esservi preparato. Poco alla volta avanza, trascinandolo via da lì, via dalla soglia, dal passaggio: dall’attesa. Lui non muta espressione. Ma se ci penso, credo lo faccia. E immagino di trovare in lui sgomento, ma anche sollievo. L’onda non è fatta d’acqua, sembra qualcosa di molto solido che, paradossalmente, avvolgendosi s’espande.
Non riesco a soffrire più per l’umidità, ora, nemmeno se lo voglio. Non la ricordo.
Viene spinto fin sul ciglio d’un baratro, ma non precipita: s’arresta. Il suo sguardo rimane fisso davanti a sé, inarticolato. L’onda ruota su se stessa, apparentemente arresa. Le loro immagini scivolano l’una verso l’altra, aderiscono e si sovrappongono facendo forza sui pochi punti in comune e quelli, insieme, poi assimilano tutto tratteggiando una nuova immagine. E infine svaporano, uniti, nel buio spirale.
Una macchia nera, ora, che sfugge al mio sguardo precedendo i miei occhi: sempre passato è l’istante in cui la vista si posa lì dove stava la cosa. È sempre nel futuro, la macchia nera. Oh, esser come lei, sempre un passo avanti sfuggendo al ricordo, liberi dal presente che consuma. Non essere, dunque. E forse, non sono. Se lo ricordassi, però… no, non voglio: preferisco dubitare. I suoi passi, dicevo: s’allontanava. Passato, da qua, andato, laggiù, nello spazio, avanti. Non importa: cosa c’è, di tutto questo, nuovo o vecchio o a venire che qui, immobile ed estesa e oscura, io già non ricordi? Quest’ora, questo giorno tutto ricordo. E il giorno che segue. Ma non vedo, quella cosa. Accorrete, venite a cogliere l’avvenire che maturo pende dai miei capelli! Intricatissimi, purpurei rami rincorrendosi s’intrecciano. Graffiando l’ombra fuggono verso il sole.
Dentro me, stanno, dentro me, loro accidentale origine e scopo. Io, il sole e la terra. Marea e luna. Tutto. Sono tutto. Sento tutto, se lo voglio. Tutto, compatto dominio lacerato da un suono. Un suono, sì, è così. Il mio nome. Forse la sua voce. Ma ancora mi permetto, ancora posso decidere che ricada poco lontana, inoffensiva e addirittura inascoltata, forse. La mia mano accarezza fili d’erba. Lo fa senza che io voglia, senza che io lo chieda. Io. E la mano, e l’erba. Non io-la mano-l’erba: è iniziato, ormai, l’inesorabile distacco.
Un fruscio da sotto i polpastrelli. E un ronzio: è il mio pensiero. La mia mente come un’ape. Un’ape. Atterrata qui dentro, sugge il polline che un mio dolcissimo desiderio le ha apparecchiato e va. Vento, ancora. Il vento travolge e cancella le orme della strada per il ritorno. Un passato che non è più. Ecco: la mia mente, l’ape, si perdono, senza forze precipitano dentro a un fiore e muoiono. E lì, insieme, sciolte stanno nella fusione dei loro esseri, dimentiche di quanto prima fosse caratteristico, particolare. Vivono il presente, la loro nuova vita. Non sanno più delle esistenze precedenti. E lì resteranno. Lì è ciò che saranno finché altro vento non trasporterà il loro luogo altrove.
Ma ancora, ancora una voce. È dell’uomo che s’è allontanato frusciando i suoi passi fra l’erba. Prima. La sua voce emette un suono plasmato a forma del mio nome. Precipitato nel cuore delle mie fondamenta, gonfiatosi a dismisura, ancor più smuove e minaccia quanto di me ostinatamente resisteva devoto sul tutto. Ostinarsi, volere è già come smarrirsi. Ancora. Ancora la voce. Il distacco è compiuto. Si fermi, la mano.
Si fermi perché è così che voglio. Marciscono il fiore e l’ape, si disperdono. Il vento si posa. Ma posso pure rallentare quest’odioso processo. Lo voglio. Spalancata la bocca, tutta l’aria che riesco inspiro. E poi, lentamente richiudendo, mi compiaccio del soffice contatto tra un labbro e l’altro che morbidamente sigillano la luce della mia bocca al mondo. E che ancora dispettosamente dischiudo, a poco a poco, godendo dell’estenuante distacco, del dolcissimo smarrirsi del loro aderire. Lentamente. Invece gli occhi si spalancano all’improvviso, in faccia al cielo, e si rivela il corpo nudo e si riaprono le porte al freddo. Lembi d’abiti abbandonati sul grembo. È necessario, ora, rivestirsi. Sono nuda. Mentre li indosso m’assale inatteso il gelo. Non lo capisco. Non posso più capirlo.
Poi all’improvviso i vestiti addosso mi piacciono, mi consolano, mi fanno sentir d’essere cosa contenuta, compresa e ricordata. Verso la voce che mi reclama vado. Riportata dal suono del mio nome a ciò che sono, da chi l’ha pronunciato. Da chi frusciava nell’erba allontanando i propri strascicati, smarriti passi. Verso quale futuro. Il mio nome m’ha mossa, sollevata. Non un qualsiasi suono. Il mio nome m’ha strappata da dove m’ero illusa d’essere sprofondata per sempre. Un’estrusione. Un parto. Il richiamo della luce, un tunnel, nel tunnel l’aria. Da lui vado come fa il labbro che s’avvicina all’altro per richiudere il passaggio a tale luce, a tale aria. Strozziamo il mondo e ci eleggiamo suoi fedeli, leali cani da guardia.
Una cagnetta. Una cagnetta che lungo il corso dell’intera vita porta un collare con un campanello dall’inconfondibile suono, unico. E sempre, ogni qualvolta essa si muova, da quel suono è dolcemente circonfusa. Dolcemente, sì, perché l’accompagna nel gioco, nelle corse. Serve ai suoi padroni quella campanella, per sapere sempre dove si trovi.
Alzarsi, ora. Andare da chi quella voce ha scolpito nel mio nome. M’avvicino a lui, verso la sua schiena nuda. Sta in piedi davanti all’ingresso d’una grotta. Sembra sorpreso. Indica qualcosa. Vuole mostrarmelo. Quanto tempo è passato dall’ultima volta in cui trovò qualcosa che ritenne degno d’essermi esibito? Da troppo tempo.
Diventa vecchia e malata, quella cagnetta. Per un certo periodo si muove meno, poco, senza riuscire ad allontanarsi più, e infine s’immobilizza completamente. Accarezzandola le sfilano, allora, quell’inutile collare, mentendole: Ti togliamo un peso. E l’affibbiano a un altro cane, più giovane, nuovo arrivato, dove sarà necessario: è così vivace! Quello corre in lungo e in largo, non si stanca mai, gioca e va. E lei rimane stesa su un fianco, troppo stanca persino per aver la forza di tenere gli occhi aperti, immersa in un mondo che già l’introduce verso una nuova vita. Ma ogni volta che ode quel tintinnare è felice perché è lei che corre, che gioca, che va. Non sa dubitarne un attimo, non può: il suo nome sarà pure passato altrove, ma in quel luogo c’è sempre lei.
Quand’è stata l’ultima volta che ha sentito di dover condividere qualcosa con me? Forse dai giorni in cui eravamo indefinite macchie nere che sfuggivano verso il domani, sfocate l’una per l’altro. E allora tutto sembrava utile allo scopo d’identificare i nostri nomi, di tutto ci sobbarcavamo per zavorrarci, rallentare e infine fermarci. Per non sbagliare, tentando d’accordarci all’altrui velocità. Indicavamo qualsiasi cosa e la chiamavamo con le parole scelte per aiutare i nostri occhi a vedere con gli occhi dell’altro. Tempravamo le lenti alla giusta gradazione. Definivamo il nostro odore per poterci ritrovare, poi, quando la notte sarebbe scesa. Ora che crediamo di sapere tutto di noi non c’interessa più tanto dire ciò che pensiamo del mondo. Sarebbe inutile. Sarebbe noioso. Piuttosto preferiamo, o meglio, desideriamo, che il mondo c’indichi, ci pensi. Sarebbe questo un modo per capire meglio di cosa siamo fatti. E cosa dobbiamo fare di noi.
Ma oggi, oh, oggi lui mi vuole mostrare qualcosa. Ed ecco la sua schiena nuda, il suo torace. Lì dentro sta salvaguardato il mio nome, al caldo, al riparo dai capricci del vento. Lì sta, come in una santa teca custodita, la mia campanella.
Tanto ci siamo assestati descrivendo le nostre differenze, limandole, aggrappandoci ai dettagli in comune e allargandoli all’infinito, che quanto inizialmente d’attrito acuto strideva, ora liscio e lustro scorre e imperturbati noi abitiamo questa sfera di silenzio impeccabile. Tanto da confondere, spesso, l’attribuzione d’un pensiero. Io l’ho pensato, o lui? E nell’oscurità della notte dimenticarsi, a volte, d’esser questo o quello, e sognare i sogni dell’altro. Scambiarsi. Poi fondersi. Vivere dentro a un’altra cosa, insieme, che ha l’odore d’entrambi e di nessuno. E dir ciò che non si pensa, a volte, così, per fuggire, per sembrar altro, ancora, per minacciare una faccia nuova, per costringerci a mostrarci, godere d’essere inseguiti. Nonostante. Il tuo sguardo lì, dove la preda già è passata.
E ora ecco la sua mano indicare, nella luce del giorno, all’ombra d’una grotta.
Nel buio della notte spesso l’osservo dormire. Durante il sonno non funziona la campanella, non sa chiamare il mio nome, lo vedo. Laggiù vive chi non ho mai conosciuto, maschera d’un passato di cui lui non vuol raccontare nulla perché, dice, sarebbe come leggere il diario d’un altro individuo, privo di te, senza di sé. Ma io se ci penso – io, se lo voglio – ne posso leggere ogni parola scritta fra i silenzi della pelle. Sprofondato nel sonno l’osservo, sottovoce. Non è romantico afflato. Controllo che respiri. A che serve vegliare, altrimenti?
Ora qui corre, la mia vista, dalla sua bella rotonda spalla in faticosa salita su per l’erta del braccio puntato in alto e s’arrampica ancor piena d’entusiasmo fino ad arrivare alla punta del dito teso e da lì sporgendosi getta uno sguardo. Non era poco ciò che indicava. Non è, come sembra, soltanto un ramo. È questo momento. E questo momento io lo sento in me profondamente compiersi. Se io voglio lo sento, se voglio fin da ora lo ricordo. Non è d’altra parte già, questa fotografia che osservo come una foglia ingiallita, planata sulla soglia d’un mondo passato ma indelebile?
Giù, tornata giù dal dito, dal braccio, giù dalla spalla, sosta per un breve istante accostandosi lungo la schiena, cullata dal respiro, dalla sua vita che entra, esce e si moltiplica. Già lo vedo, se voglio, perfino parlo, se voglio, col futuro che nella nostra casa spicca sfondate le porte. Prigioniero della carne s’aggira. Per questo, per acquietarlo gli assegniamo un nome. Gli raccontiamo a cosa assomiglia e da dove viene. Lo osserviamo poi dormire per conoscerlo al di là di noi, delle nostre parole, della nostra musica, della nostra campanella. E intanto in giro per il mondo, osservando osservato, si costruisce un’esistenza. Gli occhi fanno tutto. Noi controlliamo soltanto che respiri. E così, rassegnato alle catene della carne, in cui lentamente ha imparato ad abitare per assuefazione, non di forza, finirà carcerato nella prigione dell’identità. E della forma.
Ed ecco dunque che quanto mi mostra è un ramo. Ma non solo. Certo, come si diceva, s’è sforzato tanto per mostrarmelo. Vediamo cos’ha, di così speciale. È un ramo che fuoriesce dalla roccia, attraverso la parete della grotta. Nascosta in chissà quale celata cavità è cresciuto a gocce di luce e in qualche modo spingendo per anni, per secoli, forse, ha infine penetrato la dura pietra, s’è creato un passaggio. Il ramo s’allunga, viaggia alla cieca all’interno della grotta nella vana ricerca della luce del sole e arriva, così, in alto, fino al centro della volta, dov’è imprigionato nella più nera oscurità. Tutto nasce dall’unione di più cose. Ciò che rimane solo non si evolve. Muore, inconoscibile persino a se stesso. Credeva di fuggire bucando quella parete mentre è finito invece ancor più duramente prigioniero. Noi qui uniti l’osserviamo dietro allo stesso, medesimo sguardo. Spesso sentiamo che ciò che ha creato la nostra fusione diventa un’abitazione troppo stretta, all’improvviso. Talvolta sentiamo così il bisogno d’uscire, di strabordare.
Sì, ecco: è successo. Alimentato il seme, rivestito di carne, dato il nome, imprigionato nell’identità, un giorno lo convocheremo al nostro cospetto per indagare sul suo tempo e lui dirà di sé, sicuro, con voce alta e ferma: Io so andare e stare. So parlare e ricordare. Chiedere e rispondere. Posso unire e separare il mio essere. Potrei dar nomi, se volessi, e di forza saprei toglierli. Riesco ad assomigliare pienamente a ciò che ad ogni sguardo appaio. Sì, sembro ciò che sono: ormai altro non saprei essere, e in ciò concorde sono pienamente compiuto.
Frusciando tra corpuscoli di polvere che nell’aria s’accendono, un affilatissimo raggio di luce penetra attraverso una fessura della grotta. Ed ecco che, scivolato fuori dalla serratura, l’occhio del sole tramontando risale ramo e pareti fin sulla chiave, dando vita all’invisibile. E al suo punto estremo vediamo, ora vediamo, prima dei piedi e poi delle gambe e un corpo ed ecco un uomo appeso a quel ramo lagnarsi perché ferito dalla luce. Dev’essere una scena che si ripete da millenni, tutti i giorni: stalagmiti salate di lacrime risalgono dal fondo della grotta fino a sfiorare i suoi occhi, che non han più spazio ormai per piangere. Ed ecco che lui, lui che indicava, che voleva mostrarmi, s’inerpica per questa colonna e giunto in cima libera l’uomo, lo stacca come un frutto maturo e me lo porge. Gli accarezziamo insieme i capelli, gli asciughiamo le lacrime. Cullandolo nell’ombra… lo consoliamo.
Poi lasciamo che vada libero per il mondo. Non prima, però, d’avergli dato un nome. Verrà un giorno in cui lo convocheremo e gli domanderemo del suo tempo. Un giorno poi saremo vecchi e non potremo più correre. Sentiremo i suoi passi lentamente frusciare e pestare attorno a noi, e noi, sì, noi, non dubiteremo mai d’esser quelli che corrono.