«Tagliatele la testa!». Una strana figura in gorgiera esce da sotto un arco e marcia determinata verso di me. Grida l’ordine e le porte di legno massiccio ai lati della torre si aprono con un rumore secco, stridente, come se fossero chiuse da secoli. Ne escono soldati armati, piccoli di statura, con i volti smunti. La sigaretta mi cade di mano. Il cortile in cui mi sono seduta per fumare a un tratto è invaso da un esercito di uomini in calzamaglia di ferro. Stanno percorrendo con foga ordinata la strada di erba e pietrisco che li porta a me. Condannata a morte, io? Cerco di alzarmi, ma è come se le mie gambe fossero incollate al gradino di pietra su cui mi ero accomodata per evitare le spiegazioni della guida, che vorrebbe farmi interessare a storie ormai sepolte. Il fatto è che, adesso, sono io quella che vogliono seppellire.
Agito gli arti per cercare di alzarmi e darmela a gambe, ma rimangono inerti. Sono prigioniera del mio stesso terrore. La donna in gorgiera e mantello è composta e furente, continua ad avanzare con la testa perfettamente dritta mentre fili di capelli color ruggine le percuotono le guance arrossate dall’ira. Ha gli occhi pieni di nebbia. Le mie braccia ondeggiano in un tremore violento che non posso controllare. I soldati hanno già attraversato la metà del cortile e alzano all’unisono le loro spade, tagliando in trasversale l’aria umida da destra a sinistra, come se volessero squarciare un telo. La donna indossa una corona che luccica sotto i raggi flebili del sole: riesco a vederla rifulgere sotto la stoppa dei capelli che si agitano nell’incedere. È la regina. Mi vuole morta.
In un momento di incredulità ho un accesso di riso, mentre penso che verrò giustiziata. Non so cosa diavolo sia successo in quel posto, ho abbandonato già da un pezzo il gruppo di persone sudate e puzzolenti nel bel mezzo della sala del museo, dove un uomo anziano con il ventre cadente mi ha toccato il sedere mentre fingeva di recuperare la sua Canon da turista all’avanguardia. La sua mano ha indugiato più del dovuto: mi sono accorta che l’ha fatto di proposito. Mi sono girata e gli ho sorriso. Ha finto di ascoltare le storie di Corti regali e uomini e donne che da secoli continuano a marcire sottoterra. Poi, per un attimo, ha mosso la coda dell’occhio nella mia direzione, indeciso tra la possibilità della mia pubblica denuncia o una sveltina in bagno con una ragazza sfrontata. La seconda ipotesi gli ha provocato un’erezione che ha disperatamente tentato di nascondere, e io ho ripensato a tutti quei ragazzi che hanno cercato di toccarmi, convinti che mi sarebbe piaciuto. Che li avrei ringraziati, che avrei urlato in preda alle convulsioni del piacere.
Quel che invece vogliono farmi provare adesso sono le convulsioni della morte. Mi appoggeranno il collo sopra un ceppo sistemato sull’erba mentre i soldati continueranno ad acclamare la loro regina. La testa rotolerà sporcandosi di terra e sporcando la terra di sangue. Da quella prospettiva vedrò le suole delle mie scarpe e le zampe sottili delle formiche che si preparano per divorarmi gli occhi.
Mi riscuoto. Sono ancora viva, bloccata sul gradino. Guardo la regina che punta gli occhi sui miei e ride come una pazza sadica. Una vena ingrossata le pulsa proprio in mezzo alla fronte.
I soldati sono ormai vicini. Sento l’odore acre della loro eccitazione mentre sventolano la mia decapitazione all’aria agitando le lame verso il mio collo bianco.
«A morte!» continua a gridare la regina, vestita come un manichino del Louvre. Gli occhi le brillano nella visione della fine, il compimento di una pièce de théâtre di cui godrà gli applausi, mentre io assisterò alla mia fine come una spettatrice, con timore e curiosità. La folle mi è davanti, digrigna i denti, che producono il rumore di ceramica che cozza, come quando mia madre lascia scivolare i piatti nello scolapiatti senza reggerli e quelli battono l’uno contro l’altro.
La regina grida e i soldati con lei, vedo i suoi denti gialli e la lingua appuntita. Mi piscio addosso. Tremo con violenza, non riesco a fermarmi. Mi sento urlare «Pietà», singhiozzando come un moccioso al primo giorno di scuola. La regina allunga un braccio e mi prende per la scapola, mi scuote. Cerco di alzare la testa verso il cielo per respirare, ma non ci riesco. La gola mi si stringe e penso solo che sto per morire. Non vedo fotogrammi di vita, non ho la percezione della grandiosità dei misteri del cosmo. Penso al panino al prosciutto, incartato quella mattina nella carta stagnola, che marcirà nella tasca esterna dello zaino, con il pane su cui erutteranno i fiori grigi della muffa. La mia colazione morirà con me, saremo entrambi marci prima di sera.
Adesso mi ha raggiunta e inizia a scuotermi mentre parla, ma non capisco che cosa dice. Sento la testa andare in pezzi e penso che la lama mi abbia già inciso la base del collo. Forse sta per cadere a terra, schizzando sangue a destra e a sinistra come in una pellicola di Sam Raimi. Vomito sul suo vestito con ondate calde che le macchiano il tessuto prezioso, ma non sono più tanto sicura che sia un vestito da regina. Con le ultime energie mi sforzo di metterlo a fuoco: sembra più un completo maschile giacca e cravatta. Attorno a me sento vociare la gente, soldati? Sembra una calca disordinata e ansiosa in pantaloni color cachi e Birkenstock con calzini. Non capisco più niente, urlo come un animale selvatico e quella mandria di persone si allontana, zittendosi. Rimane solo un brusio leggero che mi entra nelle orecchie e mi sbatte tra le pareti del cranio.
Una mano mi prende per le spalle e riesce ad alzarmi. Vengo spostata all’interno del museo, mi mettono a sedere, mi portano da bere. Qualcuno pulisce il mio vomito con lo straccio. Il vecchio pervertito non mi fissa più con desiderio, ora. È terrorizzato al solo pensiero di aver sprecato per me una delle sue ultime erezioni.
Mi sistemo meglio sulla panca, mi tocco la fronte ancora umida. Sono fredda, un pezzo da arredo. Alzo gli occhi: davanti a me, il dipinto di una Tudor spacca la parete del museo coi suoi ori e i velluti damascati. La guardo in faccia. Mi sta osservando, ne sono certa. Dalle croste del quadro, nella sua tremenda bellezza, la regina mi guarda e sorride. Quella grandissima stronza. Mi alzo per spaccarle il cellulare in testa, ma l’uomo che mi ha soccorsa mi prende con dolcezza e mi trascina via dalla sala, verso l’infermeria. Provo a spiegargli qualcosa ma mi fa cenno di stare calma. «Stia tranquilla, succede alle persone molto sensibili al cospetto di opere d’arte, sa? Non deve vergognarsi, è sintomo di grande sensibilità».
Mentre attraverso la sala incespicando, mi volto un’ultima volta verso il quadro. La regina mi fa l’occhiolino. Alzo il dito medio. Un’anziana turista mi vede, strabuzza gli occhi. «È sconvolta», le spiega a voce bassa il direttore.