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Iterazione e ridondanza: gli schemi semplificati della cultura contemporanea

Il fenomeno della ripetizione e dell’iterazione nei prodotti culturali moderni risponde a un’esigenza di prevedibilità e rassicurazione, caratteristica di una società sovraccarica di complessità e stimoli. La tendenza a semplificare e ridurre l’inatteso emerge sia nella musica, con l’affermarsi di hit simili tra loro all’interno del repertorio di uno stesso artista, sia nella narrativa, con la proliferazione di produzioni seriali e format ripetibili. Questa “fame di ridondanza” riflette una sorta di ricerca del familiare e del prevedibile, in grado di lenire l’ansia generata dalle continue trasformazioni del mondo moderno.

In ambito musicale, l’esigenza di ripetere schemi di successo è manifesta nella produzione di brani che variano solo leggermente dall’uno all’altro, assecondando il desiderio del pubblico di rivivere una determinata esperienza sonora ad libitum. Secondo Simon Reynolds, critico musicale britannico, la musica popolare contemporanea è “ossessionata dalla ripetizione” e si basa su un ciclo di auto-citazioni e riferimenti costanti, che si traducono in una semplificazione dell’ascolto e in una memorizzazione istantanea dei brani da parte degli ascoltatori.
Allo stesso modo, la narrativa contemporanea, in particolare quella seriale e di genere, risponde a un’esigenza simile. Come sostiene Umberto Eco in Apocalittici e integrati, le narrazioni seriali si basano su “schemi ricorrenti” che fungono da archetipi, offrendo un senso di stabilità che permette al lettore di trovarsi a proprio agio all’interno di mondi narrativi familiari. La rassicurazione che deriva dalla prevedibilità della struttura narrativa stimola l’identificazione e il senso di continuità, elementi cruciali in un’epoca in cui il lettore cerca rifugio dalla complessità e dall’imprevedibilità della vita reale.
Un altro aspetto significativo è il consumo rapido e frequente di contenuti iterativi e “a puntate” nelle piattaforme di streaming, che rende lo spettatore avvezzo a narrazioni veloci e ripetitive, spesso incentrate su eroi, mondi o situazioni ciclici. Come ha osservato Mark Fisher, l’industria culturale contemporanea tende a promuovere un “tempo senza eventi” o “tempo piatto”, nel quale si ha l’impressione che i cambiamenti effettivi siano pochi o, se presenti, reversibili. La ripetizione e il ritorno di pattern simili producono così un “presente continuo”, in cui l’esperienza del consumo culturale diviene una fuga ciclica dalle complessità del mondo reale.

La ricerca di questi contenuti semplici e ciclici riflette un bisogno di sicurezza e stabilità, e agisce come una sorta di “comfort zone” cognitiva, dove l’imprevisto è minimizzato. Il “presente continuo” offerto dai consumi ciclici e ridondanti, però, crea una sorta di stasi temporale, nella quale il passato e il futuro si appiattiscono a favore di un eterno “qui e ora” facile da gestire e digerire, il che si traduce in un distacco dalla complessità della vita contemporanea e dall’impegno per comprenderla, limitando il cambiamento e il pensiero critico.
Insomma, il consumo culturale ciclico offre un rifugio temporaneo dalle sfide quotidiane, ma rischia di inibire la capacità delle persone di affrontare, interpretare e risolvere le problematiche reali del loro tempo. E i risultati sono sotto gli occhi di tutti.
Per rimediare a questo stato, che si traduce anche in stasi creativa, sarebbe necessario un impegno congiunto da parte di educatori, istituzioni culturali, critici, creatori e pubblico. Soltanto attraverso una collaborazione a lungo termine sarebbe possibile ristabilire un equilibrio tra la prevedibilità rassicurante dei contenuti seriali e l’entusiasmo per l’originalità e l’innovazione culturale. Ma non vedo la volontà di realizzarlo, da parte di nessuno degli attori coinvolti. Per pigrizia o per interesse, si preferisce adagiarsi nel comodo abbraccio della ripetitività.
E intanto l’ombra della sera scendeva.

Un mondo di storie sterilizzate: verso l’imposizione di una narrativa asettica

Illustrazione di Andreas Decker

Immaginatevi un mondo in cui le storie sono lisce, come la carta patinata di una rivista per famiglie, nella quale nessuna riga osa sporcare la morale collettiva e ogni frase è passata al setaccio per assicurarsi che non vi sia nulla di irritante, scomodo o, Dio ce ne scampi, provocatorio. Ecco il paradiso immaginato dai fanatici del politicamente corretto: un circo di narrazioni insipide, pettinate e prive di un vero scopo, perché l’unico scopo che costoro concepiscono è non urtare nessuno, mai.
Negli ultimi anni, sempre più voci si alzano per chiedere agli scrittori non soltanto di scrivere “come si deve”, come “autori ammodo”, ovvero aderendo a manifesti di moralità e correttezza politica di una rigidità quasi clericale. Gli scrittori, dicono, devono dare l’esempio e plasmare il mondo con le loro storie: e per farlo, non devono osare oltrepassare i confini stabiliti. Basta un personaggio “scomodo” o un linguaggio più crudo per fare il salto dalla letteratura alla “scandalo”. E questo, secondo loro, va evitato a tutti i costi. Ma che tipo di letteratura potrà mai nascere sotto questi vincoli? La risposta è semplice: una letteratura timorosa, tremebonda, priva di ardimento e di libertà, senza punte e senza spine, senza ombre e senza ambiguità.
Questi “giustizieri della sensibilità” vorrebbero che gli autori stessi si autocensurassero, imponendo loro di seguire “manifesti” preconfezionati, come dovessero trasformarsi in maestrini intenti a costruire opere rigorosamente conformi ai dettami di una morale collettiva. In altre parole, la letteratura dovrebbe essere come una linea di prodotti: omologata, controllata e pronta per la distribuzione “sicura” ai consumatori, dove nulla, davvero nulla, dovrebbe causare “disturbo”. Ma dove finisce l’arte, in questo processo? Dove si nasconde la libertà, se non è permesso sbagliare, disturbare, fare provocazioni, creare ambiguità?
Se un libro turba, disturba o addirittura irrita, ebbene, questo è proprio quel che dovrebbe fare, perché è ciò che permette al lettore di riflettere, di crescere, di conoscere il mondo per com’è, anche nei suoi aspetti più scomodi e scabrosi. Siamo davvero sicuri di preferire personaggi somiglianti a marionette, a educande allineate nelle loro divise tutte uguali per compiacere un pubblico di anime “delicate”? Se così fosse, dovremmo abbandonare molti grandi capolavori del passato. Dovremmo riscrivere Dostoevskij, eliminare Kafka, sgonfiare Dante di ogni infernale crudezza, ripulire Wilde da ogni ironia pungente, bruciare Bukowski sulla pubblica piazza e, per la carità, non pensare neanche di pubblicare Orwell. Dovremmo svuotare le biblioteche, lasciandoci dietro solo manuali di buon comportamento travestiti da romanzi.
In questo regime della sensibilità estrema, perfino le parole vengono messe sotto processo, quasi fossero dei criminali. I “termini inappropriati” devono sparire, i “temi delicati” vanno annacquati, e ogni autore che osi sgarrare sarà tacciato di lesa morale, colpevole senza processo. Perché loro sono “i migliori”, e tutto ciò che propugnano è sacro e incontestabile.
Siamo finiti in un’epoca grottesca in cui le parole diventano sorvegliate speciali, strumenti che, se non pesati con il bilancino, rischiano di scatenare condanne, campagne d’odio e, peggio ancora, autocensure da parte di chi, per paura del linciaggio, preferisce ammorbidire le proprie idee.
Ma davvero qualcuno può credere che basti un filtro linguistico per proteggere il mondo dalla complessità? Forse è ora di ricordarci che l’arte non nasce per rassicurare, ma per sfidare, per rivelare e per creare. Non per addolcire la realtà, ma per mostrarla nuda e cruda, come sanno fare i grandi narratori, quelli che si rifiutano di scrivere storie asettiche e illusorie e che insistono invece a presentare personaggi e situazioni che vivono, sbagliano e gridano le proprie contraddizioni.
D’altronde, è davvero così difficile capire che nessuno è obbligato a leggere ciò che lo disturba? Non ti piace un libro? Basta non aprirlo, invece di scagliare inutili quanto becere crociate contro autori ed editori. Un atto di libertà sarebbe proprio quello di lasciar libera anche la letteratura. Sì, perché i veri bigotti sono coloro che si ergono a difensori di una “letteratura pulita” e senza eccessi, priva di rischi e di sorprese.
Allora, lasciamo la letteratura libera di essere quello che è sempre stata: un territorio selvaggio, e per certi versi pericoloso, in cui ogni lettore sa che non troverà soltanto conferme e conforto, rassicurazioni e liete fini, ma anche domande scomode, risposte non richieste e, talvolta, profonde inquietudini. È qui che la letteratura diventa più vera e, soprattutto, più umana: nel raccontare il bello e il brutto, il giusto e l’ingiusto, senza doversi scusare con nessuno. Perché non nasce per compiacere, ma per far riflettere. E chi preferisce fiabe asettiche, innocue e conformi, può sempre leggere le etichette dei prodotti sugli scaffali: quelle, di certo, non urtano nessuno.

La vita in diretta è come la morte

La vita in diretta è la morte di un autore, ché qualcuno deve pur scriverli quei testi abominevoli: telenovele a base di sentimenti, giocare sulla pelle delle persone, dispensando musica, lacrime e abbracci. Ed eccoci qui anche oggi tra figli dispersi e madri abbandonate, santoni che soggiogano povere menti abbindolate, abbracci disperati, angosciosi lamenti. Verrebbe da piangere anche a me davanti a questo spettacolo impietoso che guardo con un occhio solo mentre provo a leggere L’assassinio del commendatore, ma mia madre non vuol spegnere quel fastidioso sottofondo, preferisce sprofondare tra il dolore in diretta e la morte annunciata. La mia tristezza è solo per gli autori – meglio la banca, mio Dio, meglio la banca! – che magari vorrebbero fare gli scrittori e son costretti a scrivere certe sceneggiature, persino a inventare quando la realtà non è abbastanza tragica.

Ecco il melenso presentatore che s’indigna, finge dolore e compassione a caccia di audience per le sue vite che si sgretolano in diretta. Pare un barboncino, il triste imbonitore che intervista e lancia collegamenti in diretta verso la tristezza. Tito Stagno del dolore che fa partire un razzo verso il cuore e lo perfora tra lacrime e rancore; lacrima movie del Duemila dove ogni giorno muoiono bambini, scompaiono ragazzi, si uccidono ragazzine. E il nostro barboncino, tutto sdegno, sconforto e preoccupazione, si getta a capofitto nel marasma, scava a mani nude, ti consegna il dolore, te lo fa palpare. Sorrisi melliflui, lacrime finte, cercando sguardi tristi, allampanati, per fare ascolti con lacrime vere di chi cade nella trappola di questa televisione a base di dolore.

E nel finale il sangue di San Gennaro si scioglie in pettegolezzi da rotocalco anni Duemila, la sola stampa che si vende ancora, continuando la meraviglia di quel che siamo diventati, cercando di capire il perché di quel che ci è accaduto. Non eravamo così, almeno non ricordo, ma ci sta che sia tutto un triste dipanarsi di realtà secondo meccanismi consueti, forse solo ricordando il passato restano cose da salvare. Lo spero proprio.

 

Scrivere senza leggere: l’audace impresa del vuoto creativo

C’è una nuova categoria di “geni” tra di noi: quella degli scrittori che, con straordinaria presunzione, vantano il fatto di non leggere una riga di altri autori. Alcuni si spingono oltre, affermando addirittura di non aver mai sfogliato un libro in vita loro (forse hanno dimenticato le letture della scuola dell’obbligo), come se questo li rendesse puri, incontaminati, quasi mistici creatori di parole mai influenzate dall’ingombrante peso della letteratura, quella nostrana come quella mondiale.
Questi autori sono, evidentemente, dotati di un innato dono divino, capace di plasmare storie dal nulla, senza doversi sporcare le mani con quella fastidiosa attività chiamata “leggere”. Perché mai dovrebbero farlo? In fondo, chi ha davvero bisogno di confrontarsi con la maestria di un Dostoevskij o la poesia di una Dickinson? Che utilità potrebbe mai avere cogliere i mille modi diversi in cui si può costruire una trama, caratterizzare un personaggio o dare ritmo a una narrazione? No, no. Meglio ignorare tutto questo e scrivere liberamente, come si dice, “di pancia”. Buona la prima, avanti con un nuovo capitolo!

Poi c’è una sottocategoria ancora più raffinata: quella di chi teme di contaminare la propria “purezza artistica” leggendo altri autori. Il rischio, a sentir loro, sarebbe quello di smarrire l’originalità, di inquinare la propria inconfondibile e originalissima “voce”, come se bastasse aprire un libro di Calvino e puf, ecco che il loro genio creativo si dissolve in un’eco di imitazione. Certo questo presuppone una fragilità artistica di una delicatezza quasi commovente: basta una riga di Saramago, e la loro “voce” si perde nel mare delle influenze altrui. Poveretti!
Naturalmente, questa fobia della contaminazione ignora secoli di storia dell’arte e della scrittura, dove i più grandi non solo leggevano avidamente, ma si contaminavano ben volentieri: si arricchivano e creavano capolavori proprio attraverso le influenze reciproche. Immaginiamo Picasso, nella sua fase cubista, che teme di “contaminarsi” studiando le maschere africane. O Joyce, che decide di non leggere l’Odissea per evitare che il suo Ulisse venga influenzato da quel tale Omero.

La verità è che scrivere senza leggere è come voler diventare chef senza mai assaggiare un piatto. Lontano dall’essere un atto di coraggio o di originalità, è un percorso sicuro verso la mediocrità, nel quale l’unica contaminazione possibile è quella del proprio vuoto creativo. E la prossima volta che questi aspiranti letterati sentono il richiamo della penna, forse sarebbe meglio si dessero a un’attività più soddisfacente, in cui la penna non serve proprio. Il lancio delle freccette, per esempio.

Ma, per rimanere nei cliché più vieti, solitamente molto cari a questo genere di autori, potrebbero darsi all’agricoltura, o fare gli impiegati alle poste. Con buona pace di queste categorie, naturalmente, visto che tra loro sono nati autori come John Steinbeck, che prima di diventare uno dei più grandi scrittori mondiali ha lavorato come bracciante agricolo in California, o Charles Bukowski, che ha trascorso anni nel “Post office” che ion seguito ha ispirato il suo omonimo romanzo.
Steinbeck, tra un campo e l’altro, trovava persino il tempo per leggere una vasta gamma di testi, dalla letteratura classica alla filosofia, passando per la scienza, assorbendo influenze che hanno arricchito la sua comprensione della condizione umana. Bukowski, nonostante la sua immagine da poeta maledetto, era un lettore vorace: Dostoevskij, Hemingway e altri giganti della letteratura lo ispiravano profondamente, senza mai soffocare la sua inconfondibile voce.
Ecco quindi il paradosso: la lettura non li ha “contaminati”, anzi, ha reso più forte e originale la loro visione del mondo. Ma come lo spieghi a chi è troppo pigro per leggere e troppo pieno di sé per confrontarsi con gli altri autori?

P.S. Mi verrebbe la tentazione di rititolare questo articolo: “Braccia strappate alle freccette”.

Gli editor e le scuole di scrittura: i veri nemici degli scrittori

Sul web impazza un maleolente cumulo di sciocchezze generalizzanti sugli editor e sulle scuole di scrittura: un coacervo di pregiudizi (evidentemente dovuti a scarsissima conoscenza, a sentito dire o ad un’unica e isolata esperienza negativa), fraintendimenti, supponenza e malafede. Ah, gli editor, e le scuole di scrittura poi! Carceri inutili che imprigionano il genio, mentre invece la creatività dev’essere libera da ogni costrizione, da ogni freno! Perché le regole solo a questo servono: a castrare l’estro dei grandi autori, che sarebbero bizzeffe se non ci fossero queste figure (anzi, questi figuri!) mutilanti. E, se è vero che le regole stupide non servono, c’è tutto il vasto campionario dei ferri del mestiere: solo chi è pigro e supponente può pensare che non occorrano, e che si possano infrangere le regole senza conoscerle. Le regole, dopotutto, sono come i freni in un’auto da corsa – puoi ignorarli, certo, ma non sorprenderti quando ti schianti al primo angolo.

Una messe di pseudo-autori sostiene che gli editor siano i distruttori della “vera” arte, dei sadici conformisti che costringono gli autori (come se poi li si potesse costringere!) a limare, correggere e persino (orribile a dirsi!) migliorare il loro lavoro. Come se la scrittura, anziché richiedere cura e riflessione, fosse una sorta di epifania divina che si materializza perfetta al primo tentativo.
E poi c’è la scuola di scrittura: cos’è mai questo terribile luogo dove si insegna il mestiere torturando la spontanea genialità degli aspiranti scrittori, come se uno non potesse semplicemente sedersi e produrre capolavori? Ah, certo! Perché tutti nascono sapendo esattamente come costruire una trama complessa, creare personaggi indimenticabili e padroneggiare i segreti del ritmo narrativo.
Sarebbe come sostenere che i pittori non dovrebbero imparare a mescolare i colori, i musicisti a leggere spartiti, o gli chef a non bruciare le cipolle. No, perché nella scrittura, e solo nella scrittura, si può essere geni a colpi di improvvisazione e senza nessuno che ti suggerisca che forse il protagonista non dovrebbe morire in dieci occasioni diverse o parlare a pagina dieci come un raffinato intellettuale e a pagina trenta come uno scaricatore di porto.

Per fortuna esistono gli editor, i coraggiosi guardiani che salvano i lettori da infiniti monologhi senza senso e dialoghi che suonano come quelli tra due lavatrici in sciopero. E le scuole di scrittura? Servono a ricordare a tutti che sì, l’ispirazione è importante, ma che, senza tecnica, quella scintilla di genio può facilmente spegnersi in un fiume di banalità. Come quelle che solitamente scrivono questi principianti privi di umiltà e “nati imparati”.

Agatha Christie: quando un romanzo può salvare una vita

Nel mondo della narrativa gialla, Agatha Christie è celebre per la sua capacità di architettare complessi intrecci narrativi, dove ogni dettaglio ha una sua importanza. Ma ciò che accadde nel giugno del 1977 superò le trame stesse dei suoi romanzi: un suo libro, Un cavallo per la strega [The Pale Horse, 1961], divenne uno strumento inaspettato per salvare una vita reale.

Era un giorno qualunque per l’infermiera Marsha Maitland, quando nella sua clinica arrivò una bambina di appena 19 mesi, gravemente malata. La piccola paziente manifestava sintomi strani e preoccupanti: perdita di capelli, debolezza, dolori muscolari e sintomi neurologici. I medici erano sconcertati. Nonostante numerosi esami, nessuno riusciva a capire quale fosse la causa di quel rapido deterioramento. Le condizioni peggioravano di ora in ora, e la sua vita sembrava appesa a un filo.
Fu allora che accadde qualcosa di straordinario. Mentre osservava la piccola e ascoltava i medici discutere, l’infermiera Maitland ebbe una sorta di epifania. Quei sintomi, così peculiari, le ricordarono qualcosa, qualcosa che le sfuggiva ma che, come un’investigatrice dei romanzi gialli, era sicura che albergasse nella sua mente: un dettaglio, un particolare risolutivo. Finalmente le tornò alla memoria Un cavallo per la strega, uno dei romanzi di Agatha Christie che aveva letto di recente. Nel libro, Agatha Christie descriveva in modo preciso e dettagliato un avvelenamento da tallio, un raro metallo pesante che nel passato era stato spesso usato come veleno.
Il tallio è estremamente tossico, ma i suoi sintomi non sono sempre immediatamente riconoscibili, cosa che lo rende insidioso. Nel romanzo, i personaggi avvelenati dal tallio soffrivano di perdita di capelli, dolori muscolari e problemi neurologici—esattamente come la piccola paziente di Marsha Maitland.
Senza perdere tempo, Marsha Maitland riferì la sua intuizione ai medici. Sorpresi, ma disperando di trovare una qualsiasi altra risposta, decisero di testare la bambina per avvelenamento da tallio. E, incredibilmente, l’intuizione di Maitland si rivelò corretta. Gli esami confermarono la presenza di tallio nel corpo della bambina.

Grazie all’intuizione ispirata da un romanzo di Agatha Christie, i medici poterono intervenire in tempo, somministrando alla piccola il trattamento corretto per eliminare il tallio dall’organismo. La bambina, che sembrava destinata a un esito fatale, si riprese lentamente e riuscì a guarire.
Nel frattempo si indagò sulle possibili fonti di avvelenamento, e fortunatamente si poté concludere che era stata esposta accidentalmente, con ogni probabilità attraverso un veleno per topi che conteneva tallio, ampiamente utilizzato in quegli anni. Non ci fu quindi nessun intento doloso o criminale, ma piuttosto una sfortunata esposizione involontaria che non ebbe conseguenze fatali solo grazie al riferimento cruciale trovato nel romanzo della Christie dall’infermiera Maitland.

Questo incredibile episodio dimostra come un romanzo della scrittrice inglese, famosa per la sua precisione nei dettagli scientifici e tossicologici, abbia avuto un impatto reale e inatteso sulla vita di qualcuno. Un cavallo per la strega si dimostrò così non solo un romanzo avvincente, ma uno strumento di conoscenza che, in questo caso, fece la differenza tra la vita e la morte.
Agatha Christie non era un medico, ma il suo interesse per i veleni era alimentato da esperienze personali. Durante la Prima Guerra Mondiale aveva lavorato come assistente in una farmacia, e lì aveva acquisito familiarità con alcune sostanze tossiche e i loro effetti. Questo bagaglio di conoscenze divenne in seguito cruciale in alcuni dei suoi romanzi, ma probabilmente neanche lei avrebbe immaginato che, un giorno, uno dei suoi gialli sarebbe stato usato per un consulto medico.
L’ironia della sorte vuole che Agatha Christie, scomparsa nel gennaio del 1976, pochi mesi prima dell’avvelenamento, non seppe mai di aver salvato la bambina. La scrittrice, morta all’età di 85 anni, era già passata alla storia come la regina del giallo, ma non visse abbastanza per scoprire che uno dei suoi romanzi, pubblicato quindici anni prima, avrebbe contribuito a salvare una vita.
Senza rendersene conto, la Christie aveva lasciato un’eredità che andava oltre i suoi celebri intrecci e personaggi. Il suo amore per i dettagli e la sua meticolosa conoscenza dei veleni avevano trasformato Un cavallo per la strega in uno strumento medico, regalando una seconda possibilità a una bambina e uno straordinario aneddoto alla vita reale.

La storia della bambina e dell’infermiera Marsha Maitland è una testimonianza del potere della letteratura e dell’importanza di osservare, ricordare e agire. E per Agatha Christie, la regina del crimine, questo fu uno degli episodi più straordinari, benché indiretti, del suo lungo e glorioso contributo alla cultura e alla vita di milioni di lettori.

Caterina Mannelli

Gli ultimi giorni di Robert Finnegan: un grido di lotta dall’abisso

Olema, California, 14 agosto 1947. Robert Finnegan, il cui vero nome era Paul William Ryan, si spegneva a soli 41 anni, stroncato da un gravissimo cancro al pancreas. Per molti, Finnegan era solo un fulgido nome del noir americano, con all’attivo due romanzi[1] che erano entrati di prepotenza nella narrativa di genere e uno che sarebbe stato pubblicato postumo; ma, per chi lo conosceva davvero, era un faro di lotta e di speranza, una figura che aveva saputo intrecciare l’arte della scrittura con l’impegno politico fino ai suoi ultimi, drammatici giorni di vita.

Nato nel luglio del 1906 a San Francisco, Ryan aveva sempre camminato sul filo sottile tra la narrativa e l’attivismo. Cresciuto in una città che respirava acqua salmastra insieme ai suoi porti, era stato testimone fin da giovanissimo della dura realtà della vita proletaria, delle lotte sindacali e della disperata resistenza di chi lavorava con il sudore e con le mani. Fu questo, forse, che lo spinse verso il Partito Comunista, in un’America dilaniata dalla Grande Depressione, e verso una carriera letteraria che non si limitava a raccontare storie, ma cercava di scuotere coscienze.
Ma il 1947 fu l’anno della sua battaglia più grande, quella contro il destino. Afflitto da un dolore crescente, che si sarebbe rivelato un cancro al pancreas incurabile, si trovò faccia a faccia con la propria mortalità. La diagnosi fu spietata: pochissimi mesi di vita. Eppure, invece di abbandonarsi alla disperazione, trovò nella malattia una nuova forza. Il suo corpo si indeboliva ogni giorno, ma il suo spirito bruciava come non mai.

Il 20 maggio 1947, già fiaccato dal male che lo consumava, Robert Finnegan raccolse le sue ultime energie per lanciare un messaggio epico e potente ai lavoratori di San Francisco, che erano in sciopero nei porti, sulle banchine e nei magazzini. Era un momento critico per il movimento operaio: i marinai, i portuali e i magazzinieri avevano incrociato le braccia, rivendicando salari equi e condizioni di lavoro più umane. La polizia e i datori di lavoro stavano già preparando una dura repressione, e il governo guardava con sospetto queste manifestazioni di ribellione[2].
Paul Ryan, che da giovane aveva marciato al fianco degli stessi uomini che ora lottavano sulle banchine, non poteva restare in silenzio. Pur debilitato dal dolore, prese carta e penna e scrisse un appello che avrebbe risuonato tra le file degli scioperanti come un tamburo di guerra. Non c’è malattia, non c’è forza repressiva, non c’è ingiustizia che possa piegare lo spirito di un uomo che lotta per la giustizia, pare abbia affermato. Siamo i costruttori del nostro futuro, e se oggi ci mettiamo in ginocchio, domani i nostri figli saranno schiavi.

Questo il testo integrale della lettera:
Oléma, California, 20 maggio 1947. Ai miei fratelli, gli scaricatori di porto e i magazzinieri: quando leggerete queste righe, il mietitore mi avrà già preso. In altre parole, sarò morto. Anche se non avevo la tessera del sindacato degli scaricatori di porto o dei magazzinieri, voglio che sappiate che ero vostro fratello. Eravate i miei compagni e il mio orgoglio, e mi sentivo simile a voi come se avessi lavorato al porto con i blue jeans e un gancio in mano invece di essere un ragazzo della classe operaia che voleva fare lo scrittore. Vi racconto tutto questo perché, mentre muoio, sento un intenso bisogno di farvi sapere che ero vostro fratello. Vi lascio all’alba di una grande lotta – la prima delle vostre lotte a cui non parteciperò con tutte le mie forze. Ricordate, fratelli, ricordate sempre che ciò che avete ottenuto, lo avete ottenuto stando insieme, spalla a spalla, con la certezza che un’ingiustizia fatta a uno è un’ingiustizia fatta a tutti, indipendentemente dal colore della pelle, dalla religione, dalle idee. Per quanto riguarda il “pericolo rosso”, ricordate che qualsiasi idea che vada a beneficio della classe operaia sarà bollata come “rossa”. Persino le timide riforme con cui il presidente Roosevelt cercò di portare un po’ dell’abbondanza americana alla portata di case modeste, furono denunciate dai magnati del denaro come il comunismo più sfrenato… Quando arriverà la prossima battaglia, pensate a me come al ragazzo magro con gli occhiali di corno, la cui arma era una macchina da scrivere, che ha combattuto al vostro fianco, da un piede all’altro, e che è con voi in spirito con tutta la forza che gli è rimasta.

Parole di fuoco, che furono diffuse dai sindacati attraverso volantini e manifesti, parole che infiammarono le strade di San Francisco. I lavoratori trovarono nuova forza in quel grido di dolore e di speranza, sapendo che proveniva da un uomo che stava combattendo una guerra personale contro il tempo e che eppure era al loro fianco. Finnegan sapeva che non avrebbe visto la fine di quello sciopero, ma il suo cuore era con loro, sul fronte della lotta.

La sua vita, in fondo, era stata una battaglia continua. Non solo come attivista politico, ma anche come scrittore e giornalista. Con il suo pseudonimo, Robert Finnegan, aveva firmato romanzi noir acclamati dalla critica[3], ambientati in un’America oscura e corrotta, che riecheggiavano le sue idee di giustizia sociale, esponendo il lato marcio del potere e della società borghese, oltre alla loro protervia verso i poveri e i diseredati. Il suo detective-giornalista, Dan Banion, non è un eroe ma un uomo interessato alla giustizia, come gli altri protagonisti sono uomini logorati dalla vita, che lottano contro un sistema che li vuole schiacciare. Proprio come Banion, Finnegan trovava nei deboli, nei dimenticati, i veri protagonisti delle sue storie.

Oltre alla narrativa, Paul Ryan lavorò come giornalista, collaborando con varie testate comuniste e socialiste. Usò la sua penna come una lama affilata, per denunciare le disuguaglianze e le ingiustizie che infestavano l’America capitalista. Era un uomo di principi incrollabili, che non temeva di essere etichettato come sovversivo o “rosso” in un’epoca in cui la caccia alle streghe maccartista stava cominciando a prendere piede.
Nel 1933, con lo pseudonimo di Mike Ouin, aveva pubblicato il pamphlet And We are Millions: The Story of Homeless Young, una raccolta di testimonianze di giovani disoccupati condannati per vagabondaggio dalla giustizia americana. In The Big Strike, scritto durante il grande sciopero del 1936-1937 e pubblicato in parte sulla rivista Fortune prima dell’edizione integrale, che venne solo nel 1949, aveva raccontato lo storico sciopero generale del porto di San Francisco[4]. Inoltre, dal 1938 al 1946 aveva condotto alcuni programmi radiofonici per il sindacato CIO.

In periodi di grande ingiustizia e disuguaglianza, autori come Robert Finnegan offrono una voce ai marginalizzati e ai dimenticati, raccontando storie che mettono in luce le contraddizioni e le sofferenze della società. Finnegan, come molti scrittori impegnati, sapeva che la letteratura ha il potere di influenzare le coscienze. Nei suoi romanzi noir, la corruzione, il potere e l’oppressione non erano solo temi narrativi, ma specchi della realtà che egli osservava attorno a sé. Attraverso la fiction, riusciva a esplorare questioni profonde come la lotta di classe, i diritti dei lavoratori e la resistenza contro i sistemi oppressivi, coinvolgendo il lettore in riflessioni che andavano ben oltre la trama. La letteratura diventava così uno strumento di consapevolezza, capace di accendere il dibattito e di far emergere la necessità di cambiamento.
In un mondo in cui i mass media spesso controllano le narrazioni dominanti, figure come Finnegan sfidano queste visioni preconfezionate, raccontando la realtà da una prospettiva alternativa, spesso scomoda, ma necessaria.

Oggi, a Olema, dove si spense, non ci sono statue o targhe commemorative per Paul William Ryan. Il suo nome è stato quasi dimenticato anche dalle cronache letterarie, eppure il suo spirito ribelle e le sue parole di fuoco continuano a vivere in chi, ogni giorno, lotta per un mondo più giusto.
Non ci inginocchieremo mai, aveva scritto, e così, anche di fronte alla morte, Robert Finnegan mantenne la sua promessa.


Note

[1] Il primo dei quali, The Lying Ladies, recentemente ripubblicato da Mondadori con il titolo Capro espiatorio.
[2] Lotte abilmente raccontate da Valerio Evangelisti nel suo romanzo Noi saremo tutto.
[3] Oltre a quello già citato, The Bandaged Nude e Many a Monster.
[4] The Big Strike è un saggio storico che narra gli eventi dello storico sciopero generale del porto di San Francisco, momento cruciale nella storia dei diritti dei lavoratori negli Stati Uniti, specialmente per i portuali e i marinai. Lo sciopero, noto come San Francisco General Strike, fu una delle più grandi dimostrazioni di forza della classe lavoratrice contro i datori di lavoro, la polizia e i governi locali, e culminò in una vittoria significativa per i sindacati. Nel libro, Ryan non si limita a raccontare i fatti, ma esamina anche il contesto politico e sociale dell’epoca, mettendo in luce la brutalità della repressione statale e la solidarietà tra i lavoratori.

 

Il romanzo non è morto: lo prova Hugh Grant

Nel luglio del 1995, il mondo occidentale fu scosso da una notizia che fece il giro dei tabloid: l’attore britannico Hugh Grant, allora fidanzato con la modella e attrice Elizabeth Hurley, venne arrestato a Los Angeles per aver avuto un rapporto sessuale orale con una prostituta, Estella Marie Thompson, nota come Divine Brown. La cosa provocò molto scandalo e decretò quasi la fine della carriera del bell’attore, considerato sessuomane, tant’è che un giornalista statunitense gli domandò: “Adesso andrà da uno psicoterapeuta?”, e Grant gli rispose: “No. In Inghilterra leggiamo romanzi”.

Questa risposta, che suonò come una provocazione e una difesa della cultura letteraria britannica, nascondeva in realtà una verità profonda: il romanzo, come forma d’arte e di espressione, non è mai morto, né lo sarà mai. È infatti il genere letterario per eccellenza, capace di raccontare la vita, le emozioni, i sogni, le paure degli esseri umani, in tutte le loro sfumature e complessità, e con tutte le loro contraddizioni.

Il romanzo è lo specchio della società, ma anche il motore del cambiamento, il luogo dove si sperimentano nuove idee, nuovi linguaggi, nuove visioni del mondo. Inoltre è il genere letterario più amato e letto dal pubblico, che trova nei libri una fonte sia di piacere, di evasione, sia di riflessione e crescita personale. E attraverso il romanzo si può creare un legame empatico e duraturo tra lettore e libro, un legame che va oltre le mode e le tendenze.

Il romanzo è testimone della storia, ma anche precursore del futuro, veicolo di valori, di messaggi, speranze, critiche e proposte. Non a caso ha resistito a tutte le sfide che gli si sono presentate nel corso del tempo: la censura, la concorrenza di altri media, la crisi del mercato editoriale, la trasformazione dei gusti e delle abitudini dei lettori. Ha saputo adattarsi, innovarsi, diversificarsi senza perdere la propria forza. Ha dato vita a sottogeneri, correnti, scuole, movimenti che hanno arricchito il panorama letterario e culturale. Ha generato capolavori, classici che si leggono ancora adesso e che hanno segnato epoche e generazioni.

Il romanzo, contrariamente a quanto da decenni annunciano certe cassandre, è vivo e vegeto, e continua a offrire al mondo la sua inestimabile bellezza. È uno dei doni più prezioso dell’umanità, perché non è puritano né perbenista: è semplicemente il diario dell’umanità. E Hugh Grant, con la sua risposta, ha dimostrato di saperlo bene.

Parola alla Parola

Illustrazione di 愚木混株 Cdd20

Gli uomini creano opposizioni che non esistono, e le mettono in nuovi termini, fissati in maniera che, mentre il significato dovrebbe governare il termine, il termine in effetti governa il significato.

(Francesco Bacone, Saggi, cap. III).

La manipolazione del linguaggio a uso e consumo del potere abita l’uomo da che l’uomo esiste. Già nella Bibbia si assume Dio a Verbum, cioè a parola: Dio è Parola, designata nelle sacre scritture come saggezza e declinata poi, dai grammatici latini, come ciò che denota l’azione in tutti i suoi accidenti. Etimologicamente è curioso, inoltre, evidenziare come si trovi traccia di questo termine nelle lingue orientali (antico persiano e zendo) con l’attribuzione dell’ulteriore significato di insegnare, annunziare.
Non è dunque problema di quest’epoca la corruzione del linguaggio come pericolo per la coscienza individuale e, ancor più, collettiva, ma appartiene all’esistenza stessa della società. Non a caso, in tempi recenti (e, soprattutto, più che mai contemporanei), la Germania nazista organizzò uno dei più grandi Bücherverbrennungen  nell’Opernplatz berlinese: era il 10 maggio del 1933 e non fu, e non è, l’unico esempio di biblioclastia.
Quel che sconcerta, invece, in questa odiernità è l’assenza di dibattito nelle aule della vita, l’assenza di intellettuali che facciano il loro mestiere; l’assenza o la carenza di una controcultura organizzata che agisca la propria indignazione e, soprattutto, allerti dal pericolo insito nell’impoverimento del linguaggio: un nuovo regime di schiavitù per l’uomo in una società assoggettata alla dittatura di una cultura neoliberista, nascosta nell’apparente vessillo della democrazia come baluardo di libertà.
Siamo mirabilmente liberi di avere tutte le informazioni che vogliamo, di accedere, comprare e consumare tutto lo scibile, di sentirci esperti tuttologi aggiornati grazie a cinque righe di un post su un social network. Cinque, perché la sesta riga sarebbe un approfondimento non compatibile con la velocità e la flessibilità delle competenze richieste dal mercato.
Nell’era digitale possiamo traversare ogni confine. Ed essere ritrovati in ogni istante, perché, caso mai ci dessimo da fare per reperire informazioni che ci indichino nuove strade, il potere possa, in tempo di bit, recuperarci e farci scegliere – liberamente, ovvio – se tornare all’ovile della distrazione mediatica oppure essere tagliuzzati dalle forbici della censura, nelle forme che preferiamo. È semplicemente questo quello che accade: annientando la parola si annienta la coscienza.
Paradossalmente la controcultura che combatteva il potere, quando viaggiava di villaggio in villaggio sulle carte ciclostilate, era riuscita a creare coscienza, a creare rivoluzione, a vincere battaglie sociali. Ora è talmente fitta e tecnologicamente avanzata la rete della censura (il progresso non è nato per l’uomo, perlomeno non prioritariamente) che la società vegeta in un perenne stato allucinatorio, vagando nella visione morganica di essere libera e padrona del proprio essere cosciente e conoscente. Orwell ha predetto ciò che noi stiamo vivendo perché Orwell ha semplicemente fatto il suo mestiere: dato alla parola il suo significato.
Qualcuno sostiene che la nostra epoca digitale stia coniando nuovi termini, nuove forme di comunicazione che narrano la realtà, aderendovi e riconoscendola anche nella sua evoluzione linguistica. Una nuova scrittura per nuovi scrittori, dell’adesso, che sappiano raccontare il proprio tempo con il suo linguaggio. E tacciano di conservatorismo chi inorridisce ai “ke”, alla scomparsa dei congiuntivi, ai “piuttosto che” usati impropriamente; a un vocabolario sempre più povero, nello spettro sempre meno rarefatto di un’involuzione linguistica e umana che sta perdendo il senso della parola come creatrice di sapienza e di coscienza. Della parola che annuncia e insegna.
Lo scrittore non è un conservatore della parola; lo scrittore, quando è tale, ne riconosce la potenza, la vitalità, la dinamicità e la possibilità di cambiamento continuo. La parola è parte stessa del futuro perché lo contempla: ha in sé la memoria della storia, la forma del presente e, per il connubio di queste due attitudini, la possibilità di divenire altro, di provare a dire oltre il presente nel dire del presente. La parola stessa ce lo insegna, in quei libri che riconosciamo attuali, che tutti sappiamo indicare come esempio di letteratura senza saper dire che cosa sia letteratura.
Uno scrittore, quando è tale, non confonde l’attualità del tempo con l’uso del linguaggio imposto, ma al linguaggio si inchina, gli rende onore, rispetto, rigore e lo propone al lettore con onestà e significato.
I pochi che ci riescono non solo ci affascinano, ma ci lasciano dentro una perla da coltivare. Ci rendono vita.

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1Roghi di libri

 

La Contraddizione

Oggi non sei nessuno se non appari in tivù. Questo assunto, che a prima vista sembra figlio soltanto di veline, grandi fratelli e pseudo-amici della De Filippi, è un concetto invero estendibile agli scrittori, agli artisti. E non è la televisione in sé, ma la vetrina che essa costituisce, il pubblico riconoscimento che essa sembra regalare.
Intervistati, coccolati, vezzeggiati o ignorati, disdegnati, esclusi, ormai troppi scrittori sono figli del credo degli ultimi trent’anni: il successo ad ogni costo. E aspirano ad affidarsi proprio al medium che è fautore della più estrema e sistematica distruzione del linguaggio. Disposti a perdere se stessi per guadagnarne in esposizione, trasformandosi in macchiette, in personaggi dati in pasto al pubblico come, nell’arena di un tempo, i nemici ai leoni.
Si fanno, così, schiavi volontari di un mezzo di comunicazione che, nel momento stesso in cui li mitizza, li smitizza costringendoli a una degradante mediazione con la cosa (“res”) dominante, a venire a patti con la propaganda dei valori positivi ufficiali, con un veicolo comunicativo nel quale proprio la comunicazione è l’eterna assente, se non per proporre modelli da cui chi non aderisce si sente escluso. Un compromesso che forza lo scrittore ad un adeguamento verso le pretese esigenze dello spettatore, esigenze peraltro create artificiosamente dal medium stesso in una logica commerciale nella quale è l’offerta a determinare la domanda, e non il contrario; un compromesso in cui lo scrittore si consegna integralmente al consenso massmediatico, per sua stessa natura reazionario e anticulturale.
La necessità ultima del medium televisivo è quella di far dimenticare che la persona sullo schermo è un autore di libri, di trasformarlo in un personaggio, gradevole o sgradevole a seconda delle esigenze; di reprimere quindi la sua natura di scrittore per assoldarlo alle esigenze del palcoscenico.
L’autore, dal canto suo, risulta il più delle volte ridicolo e inadeguato al medium; oppure altero, distante al limite dell’impresentabilità; al peggio, compiaciuto del proprio passaggio televisivo e infine asservito alla cultura dello spettacolo. Comunque privato del proprio ruolo di scrittore: invece di comunicare attraverso le proprie opere con i lettori, si trasforma in attore, in un commediante teso a comunicare la propria rappresentazione di sé agli spettatori, come un qualsiasi banditore di televendite che per raggiungere un più ampio numero di clienti rinuncia alla propria dignità e al proprio ruolo. E, in questa deriva, si integra perfettamente con il sistema neocapitalista, asservendo la propria arte e il proprio intelletto a una cultura dell’immagine dominata da un adeguamento verso il basso per incontrare un pubblico di telespettatori disorientati, di cui in quel momento egli stesso entra a far parte. Ma di quel suo disorientamento non si troverà traccia nelle sue opere, perché ormai avrà raggiunto la certezza che il libro è solo una merce, un prodotto da vendere ad un pubblico di non-lettori. Rinunciando per sempre alla propria originalità, alla possibile unicità della propria voce, alla propria individualità. Rinunciando, cioè, ad essere uno scrittore.

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