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Editoriale

Social network: la grande eutanasia dell’intelligenza

Un uomo che non pensa è come un uomo che non vive.
Miguel de Unamuno

 
C’è stato un tempo in cui la parola, quell’umile tessitrice del pensiero, era lo strumento più nobile dell’intelligenza umana. Un tempo in cui il confronto delle idee nasceva dall’argomentazione, dall’approfondimento e dalla riflessione. Ma ecco sorgere, come una nube tossica sopra il panorama intellettuale, i social network: piattaforme che hanno decretato la morte lenta e dolorosa dell’intelligenza collettiva.
I cosiddetti social non sono una semplice evoluzione tecnologica, ma una mutazione antropologica: hanno trasfigurato il dialogo in un’arena di scontri inutili, in cui l’unico obiettivo è urlare più forte degli altri. Il principio fondante dell’intelligenza – il dubbio – è stato soppiantato dal dogma del “like”, dalla dittatura sbrilluccicante dell’apparire. Qui non si cerca la verità, ma la visibilità.
Su queste piattaforme il pensiero critico muore, strangolato da una spirale di superficialità e approssimazione. Perché leggere un libro, quando un meme di dieci parole può regalarti l’illusione di sapere tutto su qualsiasi argomento? Perché ascoltare un’opinione diversa dalla propria, contrastante i propri pregiudizi, quando un algoritmo ben tarato mostra solo ciò che conferma le proprie idee preconfezionate?
I social network sono un gigantesco esperimento di lobotomia di massa. Hanno ridotto la capacità di attenzione umana al livello di un pesce rosso, trasformato il dibattito in una fiera del sarcasmo e reso virale ogni forma di idiozia. La semplificazione estrema, lo slogan ad effetto, il pensiero ridotto a poltiglia sono le nuove valute del nostro tempo. L’intelligenza è lenta, faticosa, richiede tempo: i social network sono rapidi, immediati e, soprattutto, premiano per il nulla. La nullificazione dell’esistenza.
Un tempo si diceva che l’ignoranza fosse una condizione da superare con lo studio e la conoscenza. Oggi, grazie ai social, l’ignoranza è diventata una medaglia al valore, da esibire con orgoglio con viso tronfio e aria di superiorità, come dei parvenu dell’autoreferenzialità coatta. Chi urla di più è il più popolare. Ogni argomento complesso viene ridotto a una manciata di caratteri, ogni discussione profonda sommersa da battibecchi insulsi e offese gratuite.
E attenzione: questa eutanasia dell’intelligenza non è un incidente, ma una strategia deliberata. I social, con i loro algoritmi, non cercano di educare l’utente, ma di tenerlo incollato allo schermo, in un circolo vizioso di indignazione, superficialità e conferme continue dei propri preconcetti. Perché un utente intelligente non è un buon cliente. Un cliente intelligente si stanca, si annoia, cerca altro. Un cliente stupido invece scrolla, clicca, gracida, compra.
Siamo di fronte a una civiltà che sta bruciando la propria intelligenza sull’altare dell’intrattenimento istantaneo. E mentre il mondo reale brucia, ci preoccupiamo solo di quale foto riceverà più cuoricini. È questa la grandezza cui dovremmo aspirare? È questo il futuro che sognavano i filosofi, gli scienziati, gli artisti? Un mondo in cui tutto è opinabile, in cui il sapere vale quanto un commento qualunque scritto da un maleducato arrogante in preda all’ira?
I social network non sono solo un problema tecnologico, ma un problema morale. Hanno trasformato l’intelligenza in un peso e l’ignoranza in un vantaggio. Ci stanno consegnando un mondo nel quale pensare è un difetto, in cui la riflessione è lenta e inutile e chi parla troppo a lungo non viene ascoltato.
Allora chiediamoci: vogliamo davvero accettare questa eutanasia dell’intelligenza? O vogliamo riprenderci il diritto di pensare, di dubitare, di discutere con lentezza, profondità e rispetto? Di dare un senso a tutto questo bailamme che ci sfarfalla in preda all’epilessia dinnanzi agli occhi?
L’intelligenza è ancora lì, sepolta sotto montagne di post inutili e tweet rabbiosi. Tocca a noi dissotterrarla, darle ossigeno, ridarle il posto che merita. Altrimenti saremo i becchini del nostro tempo, del nostro stesso pensiero. E non avremo nemmeno la dignità di versare una lacrima.
Risorgiamo, prima che sia troppo tardi. Ritorniamo a pensare, prima che smettano di farcelo fare. Perché manca tanto così a un abisso senza ritorno.

 

La cultura del “carino”: il trionfo del dimenticabile

Viviamo in un’epoca in cui la cultura del “carino” sembra dominare. Film, serie TV, libri, musica e perfino opere d’arte sono spesso definiti con questo aggettivo, che non è certo sinonimo di capolavoro, ma nemmeno di mediocrità totale. Il “carino” si colloca in una zona di comfort: piacevole, gradevole, ma tutt’altro che memorabile. Questa categoria del “nulla” è diventata un rifugio sicuro sia per i produttori che per i consumatori di cultura. Ma quali sono le implicazioni di questa tendenza? E perché è importante distinguere tra intrattenimento fugace e valore artistico duraturo? 

Il concetto di “carino” è strettamente legato al consumo rapido e superficiale. In un mondo nel quale l’attenzione è frammentata e dominata dall’iperproduzione, ci troviamo sommersi da contenuti progettati per essere facilmente digeribili. Questi prodotti non richiedono impegno intellettuale o emotivo: non provocano riflessione profonda, si limitano a offrirci un’esperienza piacevole e momentanea.
Un esempio emblematico è rappresentato dalle piattaforme di streaming, che promuovono serie “carine”, spesso confezionate con dialoghi brillanti, colpi di scena calibrati e trame che seguono schemi collaudati. Sono prodotti che non mirano a rimanere nella memoria collettiva, ma a soddisfare il desiderio immediato di distrazione.

L’attrazione verso il “carino” è radicata in due fattori principali: la saturazione culturale e il desiderio di evasione. L’iperproduzione di contenuti rende impossibile dedicare il tempo e l’energia necessari a discernere tra opere che meritano o non meritano attenzione. Al contempo la vita moderna, con le sue pressioni e le sue complicazioni, ci spinge a cercare forme d’intrattenimento che ci diano un conforto senza sfidarci troppo. Anche affrontare ciò che provoca pensiero è percepito come stressante: sarebbe un momento impegnativo in una giornata già abbastanza impegnativa.
Come ha rilevato il critico culturale Neil Postman, viviamo in un’epoca in cui ci “divertiamo fino alla morte”: il bisogno incessante di distrazione ha trasformato il consumo culturale in un rito passivo. I prodotti “carini” rispondono a questa domanda, poiché forniscono un’esperienza che è, per definizione, priva di profondità e di significato duraturo.

Non c’è nulla di sbagliato nel cercare intrattenimento. In fondo, il divertimento è una componente essenziale della vita. Tuttavia, pretendere che il “carino” venga elevato a qualcosa di più è non solo irrealistico, ma anche ridicolo. Un romanzo, un film o una serie televisiva che si limiti a intrattenere non dovrebbe essere messo sullo stesso piano di un’opera che sfida le convenzioni, esplora temi universali o resiste alla prova del tempo.
Consideriamo, per esempio, la differenza tra un romanzo come Orgoglio e pregiudizio di Jane Austen e un qualsiasi bestseller contemporaneo progettato per il consumo rapido. Mentre il primo continua a essere studiato e apprezzato secoli dopo la sua pubblicazione, il secondo è destinato a scomparire dalla memoria collettiva una volta esaurita la sua spinta commerciale. Non è una questione di snobismo, ma di riconoscere che alcune opere sono progettate per avere un impatto duraturo, altre no.

È cruciale che, come consumatori di cultura, impariamo a distinguere tra ciò che è semplicemente piacevole e ciò che ha un valore artistico intrinseco. Questo non significa rinunciare al piacere dell’intrattenimento, ma sviluppare una maggiore consapevolezza critica.
In un mondo nel quale il “carino” regna sovrano, il rischio è di perdere il contatto con le opere che realmente hanno significato e possono aggiungere qualcosa alla nostra vita, ispirandoci e arricchendoci. Come scriveva Italo Calvino, “Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quello che ha da dire”. Forse è tempo di tornare a cercare quei classici, vecchi o nuovi, che possano farci uscire dalla comfort zone e ci invitino a sfidare la comune abulia.

Lo scrittore come prodotto: il rischio della mercificazione nell’era contemporanea

Nella contemporaneità, caratterizzata dall’iperconnessione e dall’imperativo della visibilità, si afferma con sempre maggiore forza l’idea che lo scrittore non sia più solo un autore, ma un prodotto da commercializzare. Questo fenomeno è il riflesso di una logica di mercato che permea ogni aspetto della produzione culturale e che riduce l’atto creativo a una prestazione misurabile e vendibile. Scrivere non è più concepito come un’espressione autentica, ma come un processo che deve rispondere a dinamiche di marketing, algoritmi e metriche di successo. Non a caso c’è già chi scrive romanzi e racconti con l’intelligenza artificiale.

L’idea di essere “appetibili”, “visibili” e “notati” alimenta una forma di ansia culturale che trasforma lo scrittore in un agente del proprio brand personale. I social media e le piattaforme digitali incentivano questa dinamica, offrendo agli autori strumenti per promuoversi, al prezzo di una costante esposizione. Lo scrittore si trova così a inseguire un’idea di successo basata su parametri quantitativi: follower, copie vendute, like, recensioni reali e prezzolate. Il valore dell’opera è subordinato al suo rendimento, e il processo creativo rischia di essere snaturato dalla ricerca di approvazione.
Questo meccanismo ha implicazioni profonde. L’autorità dello scrittore non si misura più attraverso la qualità della sua voce o l’originalità del suo pensiero, ma attraverso la sua capacità di aderire a modelli di consumo. La scrittura diventa una performance calibrata su ciò che “funziona”: il linguaggio si piega alle mode, i temi si appiattiscono su ciò che è già noto e rassicurante per il pubblico. Si perde, così, l’autenticità dell’esperienza artistica.

La riduzione della scrittura a merce comporta una ridefinizione del rapporto tra autore e opera. Non è più l’opera a definire l’autore, ma il contrario: l’autore diventa un veicolo per la vendibilità dell’opera. La scrittura viene deprivata della sua dimensione simbolica, ridotta a un insieme di parole pesate, confezionate e messe in vendita come un prodotto da scaffale. Questo processo genera un cortocircuito: l’autore, ossessionato dal riscontro esterno, finisce per non scrivere più per comunicare un’idea o esplorare una verità interiore, per provocare e per mettere in discussione, ma solo per soddisfare aspettative altrui: estranee e imprigionanti.
A complicare ulteriormente questo scenario, si aggiunge l’uso crescente dell’intelligenza artificiale nella scrittura non solo di testi tecnici, ma di narrativa. Algoritmi addestrati su enormi volumi di testi sono in grado di generare racconti, poesie e persino romanzi in pochi secondi. Sebbene queste tecnologie siano strumenti potenti, il loro impiego per produrre letteratura solleva interrogativi etici e artistici: può un testo generato da una macchina avere lo stesso peso di un’opera nata dall’esperienza e dalla riflessione umana? L’uso dell’intelligenza artificiale rischia di spingere ulteriormente verso una standardizzazione della scrittura, annullando la voce unica dell’autore e rafforzando l’idea che i testi siano meri prodotti replicabili, piuttosto che espressioni irripetibili di un’identità.
La conseguenza più grave di questa dinamica è la perdita di profondità. La scrittura, anziché essere un mezzo per interrogare il mondo e noi stessi, diventa una superficie levigata, priva di spigoli o asperità. L’opera si conforma a ciò che il mercato richiede: ritmo incalzante, temi accattivanti, strutture prevedibili. Il rischio è che la letteratura si svuoti, riducendosi a un intrattenimento fugace e dimenticabile. E lo scrittore si riduca a un pigro, triste esecutore.

Eppure, proprio in questo contesto emerge la necessità di resistere a questa mercificazione. Scrivere non può essere solo un atto di vendita: deve tornare a essere un gesto di autenticità, un’esplorazione del linguaggio e delle possibilità umane. Questo non significa rifiutare ogni forma di visibilità o promozione, ovviamente, ma riconoscere i limiti di questa logica e sfidare l’idea che il valore di un’opera sia determinato esclusivamente dal suo successo commerciale e dalla nostra personale abilità nel marketing.
La resistenza passa anche per una riscoperta della scrittura come atto di libertà. Lo scrittore deve rivendicare il diritto di essere complesso, contraddittorio, autentico. Deve accettare che il valore del suo lavoro non sia sempre immediatamente riconoscibile, che il vero impatto di un’opera non si misura in copie vendute, ma nel suo potere di trasformare chi la fa propria.

Nel panorama attuale, la sfida per la letteratura è dunque quella di sfuggire alla gabbia del prodotto. Gli scrittori devono resistere alla tentazione di adeguarsi alle logiche di mercato e riscoprire la scrittura come spazio di libertà e di verità. Solo così potranno continuare a creare opere che non siano semplicemente consumate, ma vissute, interrogate e amate. In un mondo che vuole tutto immediatamente comprensibile e vendibile, l’atto più rivoluzionario è scrivere per il piacere di cercare ciò che non può essere ridotto a un prezzo.

I libri cartacei non distruggono le foreste: una falsa convinzione da sfatare

In un’epoca in cui la sostenibilità ambientale è una priorità globale, il ruolo dei libri cartacei nel consumo di risorse naturali è spesso frainteso. Alcuni ecologisti sostengono che la produzione di libri sia la principale causa di deforestazione, arrivando a proporne l’abolizione in favore di soluzioni digitali. Tuttavia, questa convinzione si basa su dati incompleti e spesso fuorvianti.
Il settore editoriale, che include libri, giornali e riviste, utilizza infatti solo il 10-15% della produzione globale di carta, e i libri rappresentano appena il 2-5% di questa quota. La gran parte della carta, infatti, è destinata ad altri settori:[1]    
– imballaggi e cartoni: oltre il 50% della carta prodotta a livello globale è usata per scatole, sacchetti e confezioni;
– prodotti igienici e monouso: circa il 10% è utilizzato per fazzoletti, carta igienica, asciugatutto e tovaglioli;
– carta per ufficio e stampa: circa il 25-30%, che include carta per stampanti, quaderni e materiali pubblicitari.

La deforestazione, dunque, non è colpa della carta utilizzata per stampare i libri: fondamentale è considerare il fatto che la maggior parte della carta utilizzata per libri proviene da foreste gestite in modo sostenibile. Secondo il Forest Stewardship Council (FSC), le piantagioni per la produzione di carta seguono quasi sempre rigorosi standard ambientali che prevedono il ripristino delle foreste abbattute.
Inoltre solo il 13% della deforestazione globale è attribuibile alla produzione di carta, mentre le principali cause sono:
– agricoltura commerciale (es. coltivazioni di soia, palma da olio, cacao e altre piantagioni intensive destinate all’esportazione): 73%;
– allevamenti di bestiame (quota è principalmente legata alla conversione di foreste in pascoli per bovini, con un impatto particolarmente rilevante in regioni come l’Amazzonia): 14%;
– urbanizzazione e infrastrutture (espansione urbana, costruzione di strade, dighe e altre infrastrutture): 3-5%;
– altri fattori (inclusi disboscamenti illegali e conversioni minori, estrazione mineraria, costruzione di impianti industriali): circa il 10%.

Chi propone di abolire i libri cartacei a favore di e-book spesso ignora l’impatto ambientale dell’industria digitale. La produzione di un e-reader, infatti, richiede minerali rari come litio e cobalto, estratti con metodi ad alto impatto ambientale. L’utilizzo di dispositivi elettronici, inoltre, implica consumi energetici significativi, alimentati in gran parte da fonti non rinnovabili.
La carta dei libri è riciclabile e biodegradabile, il che contribuisce a un ciclo virtuoso che minimizza i rifiuti. Inoltre, i libri non sono propriamente prodotti monouso: vengono letti, conservati, prestati, venduti di seconda mano e tramandati nel tempo, riducendo ulteriormente il loro impatto ambientale.

La demonizzazione del libro rispetto ad altri prodotti cartacei può essere attribuita a una combinazione di fattori culturali, simbolici e di percezione. Molti, per esempio, lo considerano un prodotto di consumo “superfluo”, un bene non essenziale, soprattutto rispetto a prodotti cartacei come imballaggi o carta igienica, che hanno usi pratici immediati. Questo porta a una svalutazione del suo valore culturale rispetto al suo presunto impatto ambientale. Inoltre i libri, essendo oggetti fisici duraturi, sono molto visibili e vengono percepiti con ostilità, specialmente dalle nuove generazioni, come simboli di un’epoca “analogica” sorpassata e deprecabile: insomma, in un mondo sempre più digitale, sono facilmente bersagliati come icone di un sistema ritenuto obsoleto e meno “green”, ma non si considera l’impatto reale dell’alternativa elettronica, mitizzata oltre i suoi reali benefici.
Nei dibattiti ambientali, in effetti, c’è la tendenza a semplificare le questioni complesse per renderle più accessibili al pubblico, ma questo rende spesso le analisi proposte piuttosto superficiali. Il libro diventa un capro espiatorio facile, perché si può indicare come responsabile diretto del consumo di carta, mentre il sistema più ampio di produzione e consumo di altri prodotti cartacei è meno immediatamente comprensibile, anche perché, come detto, considerato indispensabile (carta igienica, quaderni, asciugatutto etc.).
Molti poi, come già detto, ignorano che la maggior parte della carta per libri proviene da foreste gestite in modo sostenibile e che proprio l’industria editoriale ha implementato politiche di riciclo e certificazione (FSC e PEFC), ma queste informazioni purtroppo non sono sempre ben divulgate. Al contrario, stereotipi insensati come “un libro = un albero abbattuto” persistono nella propaganda e nella percezione collettiva.

In genere si può rilevare una diffusa ignoranza sull’impatto degli altri prodotti cartacei come imballaggi, tovaglioli, e carta igienica, forse perché sono talmente onnipresenti da risultare spesso “invisibili”. Si evita di riflettere su quanto il loro consumo massiccio contribuisca molto di più alla deforestazione e abbia in genere un impatto ecologico molto più rilevante.
Del resto i lettori di libri sono generalmente considerati una nicchia facilmente individuabile, e spesso percepiti come un’élite culturale. Criticare i libri è anche un modo per colpire simbolicamente chi li consuma, attribuendo loro responsabilità sproporzionate.

È evidente dunque che i libri cartacei non sono affatto i principali responsabili della deforestazione e, se prodotti in modo sostenibile, rappresentano una scelta culturale e ambientale valida. E che la demonizzazione del libro deriva più da pregiudizi e semplificazioni che da dati reali. Piuttosto che attaccare un prodotto che ha un impatto ambientale piuttosto contenuto e un valore culturale immenso, dovremmo concentrarci su cambiamenti più significativi: ridurre gli sprechi, migliorare il riciclo e promuovere una produzione sostenibile a tutti i livelli. Il dibattito dovrebbe spostarsi dalla demonizzazione dei libri verso un dialogo più informato e costruttivo sulla sostenibilità globale. Il libro, in fondo, è un alleato della mente e, se ben gestito, anche del pianeta.


[1] La carta viene utilizzata in un’ampia varietà di prodotti, oltre ai libri. Ecco alcuni esempi (ma sono anche molti altri i prodotti cartacei).
Materiali di imballaggio:
  • Cartoni: scatole per spedizioni e confezioni alimentari.
  • Sacchetti: per la spesa, alimentari o usi promozionali.
  • Carta da imballo: per avvolgere oggetti o proteggere prodotti durante il trasporto.
Prodotti per ufficio:
  • Quaderni e agende
  • Blocchi per appunti e post-it
  • Carta per stampanti
Uso personale e igienico:
  • Carta igienica
  • Fazzoletti e tovaglioli di carta
  • Asciugamani di carta
Prodotti di uso quotidiano:
  • Etichette
  • Carta da regalo
  • Biglietti d’auguri e inviti
Materiali artistici e decorativi:
  • Carta da disegno
  • Carta da origami
  • Carta da parati
Settore alimentare:
  • Carta forno
  • Carta oleata: per avvolgere cibi come formaggi e salumi.
  • Cartoncini per alimenti: contenitori di latte, succhi, ecc.
Settore industriale e tecnico:
  • Carta abrasiva (carta vetrata).
  • Carta fotografica e per stampa professionale.
  • Filtri di carta: per caffè o laboratori chimici.
Valori e documenti:
  • Banconote
  • Documenti ufficiali: bollette, passaporti, certificati, assegni, valori bollati.
 

Il trionfo del pop: benvenuti nell’epoca dell’anestesia culturale

“Non lo vedevamo? Non ce ne siamo accorti?” sono domande retoriche, quasi comiche, che ci si potrebbe porre contemplando l’attuale panorama culturale, letteratura inclusa. Il pop, con la sua implacabile strategia di massificazione e banalizzazione, ha ormai distrutto ogni angolo di autentica ricerca artistica. Era inevitabile, direte? Forse, ma dobbiamo davvero accettarlo senza colpo ferire?
Non fraintendetemi: non si tratta di un’accusa verso chi ama la leggerezza o la semplicità, ma verso un sistema che ha reso quella la sola opzione disponibile. Libri che esplorano la complessità umana? Troppo impegnativi. Trame che richiedono un minimo sforzo intellettuale? Nah, meglio un po’ di comfort food letterario: personaggi piatti, dialoghi che sembrano usciti da un algoritmo e trame che scivolano via come serie TV da binge-watching.

La letteratura di massa si è trasformata in una versione decorativa di se stessa, un’esperienza confezionata per soddisfare le aspettative immediate di chi, distratto dal bombardamento social, non vuole pensare. E che cos’è il pop, se non l’arte di appiattire, di rendere tutto omogeneo, tutto digeribile? Abbiamo trasformato i romanzi in una catena di montaggio emotiva: vuoi ridere? Ecco una battuta. Vuoi piangere? Qui c’è un cliché drammatico (drammatico, attenzione: mai tragico, che la tragedia è troppo da digerire). Vuoi sognare? Prego, il solito eroe con l’arco narrativo prefabbricato e semplificato.
E non parliamo del linguaggio! Una volta potente veicolo di idee, ora ridotto a una melassa informe, un miscuglio di frasi fatte, espressioni vuote e slogan. Dov’è finita la letteratura che sfida? Quella che disturba, che provoca? Forse è stata archiviata come troppo “demodé”, mentre i bestseller propongono storie che scorrono come acqua tiepida, lasciandoci esattamente come ci hanno trovati: addormentati, assuefatti, acquiescenti.

Si dirà: “Il pop vende, la cultura è una nicchia”. Certo, ma è davvero impossibile immaginare un modello diverso? Davvero non ci serve più una letteratura che provoca e stimola, ma solo qualcosa che “intrattiene”? E, ribadisco, il problema non è la presenza del pop, ma la sua egemonia. Non è un caso che chi prova a sfidare questo dominio venga relegato ai margini, etichettato come “elitario” o, peggio, “noioso”. Guai a parlare di profondità: il pop la aborre – preferisce la superficie, brillante e lucida come una vetrina.
Da quando, esattamente, il valore di un’opera culturale è misurato dalla sua vendibilità? La letteratura che conta, quella che spinge a pensare e sfida le convenzioni, non ha mai avuto come scopo primario il mercato. Eppure eccoci qui, in un mondo dove “se vende, vale” sembra essere il nuovo dogma. Il che presuppone il suo deleterio opposto: “se non vende, non vale”. Un ragionamento che rasenta il ridicolo: misurare la cultura con il metro delle copie vendute è come giudicare un quadro dal colore della cornice.
Il paradigma “se non vende, non vale”, rappresenta la completa inversione dei valori culturali: la quantità al posto della qualità, la logica del profitto che fagocita il senso stesso della creazione artistica. Una visione mercantile che non lascia spazio all’immaginazione, all’audacia o alla ricerca del nuovo.

Dunque che cos’è la letteratura, oggi, se non un prodotto da scaffale, un brand? Autori che diventano marchi, romanzi che si vendono più per il nome in copertina che per il contenuto. Qualcuno ricorderà quando i libri erano spazi di libertà, non semplici merci? Quei tempi sembrano così lontani, sostituiti da un’industria che se ne frega della qualità, punta soltanto alla velocità di consumo.
“Pop has eaten itself”, dicono gli anglofoni. E noi? Noi ci siamo lasciati mangiare senza opporre resistenza, sorridendo, mentre il pop digeriva tutto: idee, speranze, visioni. Ma ora, guardando il panorama letterario desertificato, dovremmo almeno avere il coraggio di ammettere che, sì, è successo sotto i nostri occhi. E non solo: abbiamo lasciato che accadesse, spettatori imbelli di questa società dello spettacolo che tutto ingloba, come ben denunciava Guy Debord nel suo celebre manifesto, in cui ci ammoniva che “tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione” e che “il mondo intero è diventato merce”. Ci aveva avvertiti, già alla fine degli anni Sessanta. E noi, per cinquant’anni, ci siamo limitati a fare spallucce. Con il nostro silenzio e la nostra indifferenza, abbiamo permesso che la cultura si trasformasse in mero intrattenimento senz’anima, scambiandola per una forma di libertà. Ma è una libertà ingannevole: quella di scegliere tra prodotti identici, svuotati di significato e piegati alla logica del consumo.
E no, non è affatto divertente.

Heiko H. Caimi

Il numero 50: un traguardo condiviso

Cari lettori,

eccoci qui, al numero 50. Pensarci fa un certo effetto: il primo editoriale, scritto con entusiasmo e un pizzico di trepidazione dal nostro direttore, ci sembra ancora vicino. Eppure sono passati anni, anni di racconti, interviste, recensioni e riflessioni.

Quando abbiamo iniziato, ci auguravamo che Inkroci potesse diventare un luogo di scambio e contaminazione, un punto d’incontro per chi ama osservare il mondo e raccontarlo. Non sapevamo allora quanta strada avremmo percorso, ma oggi possiamo dire con orgoglio che l’obiettivo è stato raggiunto. Non senza sforzi, certo, ma grazie a un impegno costante e, soprattutto, a voi lettori che ci avete accompagnato.

Cinquanta numeri fa parlavamo di fare cultura in un periodo che già sembrava complicato. Oggi le difficoltà non sono certo diminuite, ma resta forte il nostro desiderio di continuare a osservare, raccontare e immaginare. Inkroci, come il suo nome suggerisce, è sempre stato uno spazio per intersecazioni di idee, esperienze e linguaggi. Con questo numero vogliamo celebrare proprio il valore della contaminazione, della curiosità e della condivisione.

Quindi, grazie. Grazie a chi ci legge, a chi ci scrive, a chi ha creduto in noi e continua a farlo. Questo traguardo non è soltanto nostro, ma di achiunque, in un modo o nell’altro, abbia “inkrociato” la propria strada con la nostra.

E ora? Non vogliamo fermarci. Continueremo a camminare insieme, magari inciampando un po’, ma sempre con lo sguardo rivolto verso nuovi orizzonti. E con gli occhi aperti sul mondo.

Buona lettura,

La redazione

Umanità

Cari lettori,

come sapete, Inkroci non si è mai occupata direttamente del “fatto del giorno”, ma intende abbracciare il presente dell’Uomo con la narrazione.
Tuttavia, la mercificazione e l’escalation della morte che attraversano la nostra epoca ci impongono la responsabilità di esprimere, subito e in modo chiaro, il nostro NO, non in nostro nome, alla logica della guerra e all’egemonia finanziaria che la governa.
E vogliamo farlo a modo nostro: attraverso l’arte.  L’arte straziata e straziante di questo canto degli Area, questo grido diviso tra il desiderio di pace e la necessità della “guerra all’omertà”.
Perché l’Umanità ritrovi il proprio senso e il proprio essere prima e sopra ogni cosa in questo mondo.
Questo è ciò che vorremmo, in nostro nome.

Buona lettura,

La redazione

حبيبي
بالسلام حطيت ورود الحب ادّامك
بالسلام مسحت بحور الدم علشانك
سيب الغضب
سيب الالم
سيب السلاح
سيب السلاح وتعال
تعال نعيش
تعال نعيش يا حبيبي
ويكون غطانا سلام
عايزاك تغني يا عيني
ويكون غناك بالسلام
سمع العالم يا قلبي وقول
سيبوا الغضب
سيبوا الالم
سيبوا السلاح
وتعالوا نعيش
تعالوا نعيش بسلام

(Trascrizione egiziana di Ibrahim)

TRADUZIONE

Mio amato
Con la pace ho depositato i fiori dell’amore
davanti a te
Con la pace
con la pace ho cancellato i mari di sangue
per te
Lascia la rabbia
Lascia il dolore
Lascia le armi
Lascia le armi e vieni
Vieni e viviamo o mio amato
e la nostra coperta sarà la pace
Voglio che canti o mio caro ” occhio mio ” [luce dei miei occhi] E il tuo canto sarà per la pace
fai sentire al mondo,
o cuore mio e di’ (a questo mondo)
Lascia la rabbia
Lascia il dolore
Lascia le armi
Lascia le armi e vieni
a vivere con la pace.

(Traduzione di Ammar)

 

Giocare col mondo facendolo a pezzi
bambini che il sole ha ridotto già vecchi

Non è colpa mia se la tua realtà
mi costringe a fare guerra all’omertà.
Forse un dì sapremo quello che vuol dire
affogare nel sangue con l’umanità.

Gente scolorata quasi tutta uguale
la mia rabbia legge sopra i quotidiani.
Legge nella storia tutto il mio dolore
canta la mia gente che non vuol morire.

Quando guardi il mondo senza aver problemi
cerca nelle cose l’essenzialità
Non è colpa mia se la tua realtà
mi costringe a fare guerra all’umanità.


NOTA
Il testo in egiziano è ispirato a una canzone popolare greca della Macedonia.
Il testo della canzone degli Area è di Gianni Sassi ed è tratta dall’album “Arbeit macht frei”, del 1973.
Per la trascrizione e la traduzione dall’arabo dobbiamo ringraziare Gianni Costa e Ammar.
Ringraziamo anche Lorenzo e i gestori del sito www.antiwarsongs.org per averci permesso di utilizzare la loro trascrizione e la loro traduzione, nonché Ale Fernandez e il sito www.guerrillatranslation.es per la versione in inglese, pubblicata a suo tempo su www.inkroci.com.
Potete ascoltare la canzone degli Area qui: https://www.youtube.com/watch?v=kj1P7S47eZQ
Potete ascoltare la cover della canzone realizzata da Ale Fernandez qui: http://soundcloud.com/alefernandez/

Iterazione e ridondanza: gli schemi semplificati della cultura contemporanea

Il fenomeno della ripetizione e dell’iterazione nei prodotti culturali moderni risponde a un’esigenza di prevedibilità e rassicurazione, caratteristica di una società sovraccarica di complessità e stimoli. La tendenza a semplificare e ridurre l’inatteso emerge sia nella musica, con l’affermarsi di hit simili tra loro all’interno del repertorio di uno stesso artista, sia nella narrativa, con la proliferazione di produzioni seriali e format ripetibili. Questa “fame di ridondanza” riflette una sorta di ricerca del familiare e del prevedibile, in grado di lenire l’ansia generata dalle continue trasformazioni del mondo moderno.

In ambito musicale, l’esigenza di ripetere schemi di successo è manifesta nella produzione di brani che variano solo leggermente dall’uno all’altro, assecondando il desiderio del pubblico di rivivere una determinata esperienza sonora ad libitum. Secondo Simon Reynolds, critico musicale britannico, la musica popolare contemporanea è “ossessionata dalla ripetizione” e si basa su un ciclo di auto-citazioni e riferimenti costanti, che si traducono in una semplificazione dell’ascolto e in una memorizzazione istantanea dei brani da parte degli ascoltatori.
Allo stesso modo, la narrativa contemporanea, in particolare quella seriale e di genere, risponde a un’esigenza simile. Come sostiene Umberto Eco in Apocalittici e integrati, le narrazioni seriali si basano su “schemi ricorrenti” che fungono da archetipi, offrendo un senso di stabilità che permette al lettore di trovarsi a proprio agio all’interno di mondi narrativi familiari. La rassicurazione che deriva dalla prevedibilità della struttura narrativa stimola l’identificazione e il senso di continuità, elementi cruciali in un’epoca in cui il lettore cerca rifugio dalla complessità e dall’imprevedibilità della vita reale.
Un altro aspetto significativo è il consumo rapido e frequente di contenuti iterativi e “a puntate” nelle piattaforme di streaming, che rende lo spettatore avvezzo a narrazioni veloci e ripetitive, spesso incentrate su eroi, mondi o situazioni ciclici. Come ha osservato Mark Fisher, l’industria culturale contemporanea tende a promuovere un “tempo senza eventi” o “tempo piatto”, nel quale si ha l’impressione che i cambiamenti effettivi siano pochi o, se presenti, reversibili. La ripetizione e il ritorno di pattern simili producono così un “presente continuo”, in cui l’esperienza del consumo culturale diviene una fuga ciclica dalle complessità del mondo reale.

La ricerca di questi contenuti semplici e ciclici riflette un bisogno di sicurezza e stabilità, e agisce come una sorta di “comfort zone” cognitiva, dove l’imprevisto è minimizzato. Il “presente continuo” offerto dai consumi ciclici e ridondanti, però, crea una sorta di stasi temporale, nella quale il passato e il futuro si appiattiscono a favore di un eterno “qui e ora” facile da gestire e digerire, il che si traduce in un distacco dalla complessità della vita contemporanea e dall’impegno per comprenderla, limitando il cambiamento e il pensiero critico.
Insomma, il consumo culturale ciclico offre un rifugio temporaneo dalle sfide quotidiane, ma rischia di inibire la capacità delle persone di affrontare, interpretare e risolvere le problematiche reali del loro tempo. E i risultati sono sotto gli occhi di tutti.
Per rimediare a questo stato, che si traduce anche in stasi creativa, sarebbe necessario un impegno congiunto da parte di educatori, istituzioni culturali, critici, creatori e pubblico. Soltanto attraverso una collaborazione a lungo termine sarebbe possibile ristabilire un equilibrio tra la prevedibilità rassicurante dei contenuti seriali e l’entusiasmo per l’originalità e l’innovazione culturale. Ma non vedo la volontà di realizzarlo, da parte di nessuno degli attori coinvolti. Per pigrizia o per interesse, si preferisce adagiarsi nel comodo abbraccio della ripetitività.
E intanto l’ombra della sera scendeva.

Un mondo di storie sterilizzate: verso l’imposizione di una narrativa asettica

Illustrazione di Andreas Decker

Immaginatevi un mondo in cui le storie sono lisce, come la carta patinata di una rivista per famiglie, nella quale nessuna riga osa sporcare la morale collettiva e ogni frase è passata al setaccio per assicurarsi che non vi sia nulla di irritante, scomodo o, Dio ce ne scampi, provocatorio. Ecco il paradiso immaginato dai fanatici del politicamente corretto: un circo di narrazioni insipide, pettinate e prive di un vero scopo, perché l’unico scopo che costoro concepiscono è non urtare nessuno, mai.
Negli ultimi anni, sempre più voci si alzano per chiedere agli scrittori non soltanto di scrivere “come si deve”, come “autori ammodo”, ovvero aderendo a manifesti di moralità e correttezza politica di una rigidità quasi clericale. Gli scrittori, dicono, devono dare l’esempio e plasmare il mondo con le loro storie: e per farlo, non devono osare oltrepassare i confini stabiliti. Basta un personaggio “scomodo” o un linguaggio più crudo per fare il salto dalla letteratura alla “scandalo”. E questo, secondo loro, va evitato a tutti i costi. Ma che tipo di letteratura potrà mai nascere sotto questi vincoli? La risposta è semplice: una letteratura timorosa, tremebonda, priva di ardimento e di libertà, senza punte e senza spine, senza ombre e senza ambiguità.
Questi “giustizieri della sensibilità” vorrebbero che gli autori stessi si autocensurassero, imponendo loro di seguire “manifesti” preconfezionati, come dovessero trasformarsi in maestrini intenti a costruire opere rigorosamente conformi ai dettami di una morale collettiva. In altre parole, la letteratura dovrebbe essere come una linea di prodotti: omologata, controllata e pronta per la distribuzione “sicura” ai consumatori, dove nulla, davvero nulla, dovrebbe causare “disturbo”. Ma dove finisce l’arte, in questo processo? Dove si nasconde la libertà, se non è permesso sbagliare, disturbare, fare provocazioni, creare ambiguità?
Se un libro turba, disturba o addirittura irrita, ebbene, questo è proprio quel che dovrebbe fare, perché è ciò che permette al lettore di riflettere, di crescere, di conoscere il mondo per com’è, anche nei suoi aspetti più scomodi e scabrosi. Siamo davvero sicuri di preferire personaggi somiglianti a marionette, a educande allineate nelle loro divise tutte uguali per compiacere un pubblico di anime “delicate”? Se così fosse, dovremmo abbandonare molti grandi capolavori del passato. Dovremmo riscrivere Dostoevskij, eliminare Kafka, sgonfiare Dante di ogni infernale crudezza, ripulire Wilde da ogni ironia pungente, bruciare Bukowski sulla pubblica piazza e, per la carità, non pensare neanche di pubblicare Orwell. Dovremmo svuotare le biblioteche, lasciandoci dietro solo manuali di buon comportamento travestiti da romanzi.
In questo regime della sensibilità estrema, perfino le parole vengono messe sotto processo, quasi fossero dei criminali. I “termini inappropriati” devono sparire, i “temi delicati” vanno annacquati, e ogni autore che osi sgarrare sarà tacciato di lesa morale, colpevole senza processo. Perché loro sono “i migliori”, e tutto ciò che propugnano è sacro e incontestabile.
Siamo finiti in un’epoca grottesca in cui le parole diventano sorvegliate speciali, strumenti che, se non pesati con il bilancino, rischiano di scatenare condanne, campagne d’odio e, peggio ancora, autocensure da parte di chi, per paura del linciaggio, preferisce ammorbidire le proprie idee.
Ma davvero qualcuno può credere che basti un filtro linguistico per proteggere il mondo dalla complessità? Forse è ora di ricordarci che l’arte non nasce per rassicurare, ma per sfidare, per rivelare e per creare. Non per addolcire la realtà, ma per mostrarla nuda e cruda, come sanno fare i grandi narratori, quelli che si rifiutano di scrivere storie asettiche e illusorie e che insistono invece a presentare personaggi e situazioni che vivono, sbagliano e gridano le proprie contraddizioni.
D’altronde, è davvero così difficile capire che nessuno è obbligato a leggere ciò che lo disturba? Non ti piace un libro? Basta non aprirlo, invece di scagliare inutili quanto becere crociate contro autori ed editori. Un atto di libertà sarebbe proprio quello di lasciar libera anche la letteratura. Sì, perché i veri bigotti sono coloro che si ergono a difensori di una “letteratura pulita” e senza eccessi, priva di rischi e di sorprese.
Allora, lasciamo la letteratura libera di essere quello che è sempre stata: un territorio selvaggio, e per certi versi pericoloso, in cui ogni lettore sa che non troverà soltanto conferme e conforto, rassicurazioni e liete fini, ma anche domande scomode, risposte non richieste e, talvolta, profonde inquietudini. È qui che la letteratura diventa più vera e, soprattutto, più umana: nel raccontare il bello e il brutto, il giusto e l’ingiusto, senza doversi scusare con nessuno. Perché non nasce per compiacere, ma per far riflettere. E chi preferisce fiabe asettiche, innocue e conformi, può sempre leggere le etichette dei prodotti sugli scaffali: quelle, di certo, non urtano nessuno.

La vita in diretta è come la morte

La vita in diretta è la morte di un autore, ché qualcuno deve pur scriverli quei testi abominevoli: telenovele a base di sentimenti, giocare sulla pelle delle persone, dispensando musica, lacrime e abbracci. Ed eccoci qui anche oggi tra figli dispersi e madri abbandonate, santoni che soggiogano povere menti abbindolate, abbracci disperati, angosciosi lamenti. Verrebbe da piangere anche a me davanti a questo spettacolo impietoso che guardo con un occhio solo mentre provo a leggere L’assassinio del commendatore, ma mia madre non vuol spegnere quel fastidioso sottofondo, preferisce sprofondare tra il dolore in diretta e la morte annunciata. La mia tristezza è solo per gli autori – meglio la banca, mio Dio, meglio la banca! – che magari vorrebbero fare gli scrittori e son costretti a scrivere certe sceneggiature, persino a inventare quando la realtà non è abbastanza tragica.

Ecco il melenso presentatore che s’indigna, finge dolore e compassione a caccia di audience per le sue vite che si sgretolano in diretta. Pare un barboncino, il triste imbonitore che intervista e lancia collegamenti in diretta verso la tristezza. Tito Stagno del dolore che fa partire un razzo verso il cuore e lo perfora tra lacrime e rancore; lacrima movie del Duemila dove ogni giorno muoiono bambini, scompaiono ragazzi, si uccidono ragazzine. E il nostro barboncino, tutto sdegno, sconforto e preoccupazione, si getta a capofitto nel marasma, scava a mani nude, ti consegna il dolore, te lo fa palpare. Sorrisi melliflui, lacrime finte, cercando sguardi tristi, allampanati, per fare ascolti con lacrime vere di chi cade nella trappola di questa televisione a base di dolore.

E nel finale il sangue di San Gennaro si scioglie in pettegolezzi da rotocalco anni Duemila, la sola stampa che si vende ancora, continuando la meraviglia di quel che siamo diventati, cercando di capire il perché di quel che ci è accaduto. Non eravamo così, almeno non ricordo, ma ci sta che sia tutto un triste dipanarsi di realtà secondo meccanismi consueti, forse solo ricordando il passato restano cose da salvare. Lo spero proprio.

 

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