Da sempre le parole hanno il potere di creare mondi, universi, mode, sensibilità e nello stesso tempo di distruggerli. La parola accende speranze, slarga i cuori, genera fiducia e ottimismo, ma determina anche rancore e odio. Quando più diventa ridondante, inutilmente forbita, avulsa dai contesti e incomprensibile ai più, tanto più palesa la sua forza ingannatrice e si fa devastante.
Oggi si parla, si parla, ma il più delle volte si ha l’impressione di parlare in un deserto di salsedine. È come se la nostra voce non avesse eco.
Mai come in quest’epoca c’è una disproporzione fra la quantità di parole usate e quelle realmente ascoltate o semplicemente percepite.
Troppe volte ci si vomita addosso fiumi di parole e frasi nell’illusione di riuscire a comunicare il nostro pensiero o il nostro ego e non ci rendiamo conto che più parliamo e più rischiamo di inibire la comunicazione e di isolarci dagli altri, costruendoci un mondo fittizio, fatto di finte risposte e di finte relazioni. Ciò avviene soprattutto con la rete[1]. Oggi le parole non sono più pietre. Anzi, il più delle volte non hanno peso e sembrano scivolare via con la leggerezza delle cose inutili.
Schopenhauer, già due secoli fa, affermava che “I pensieri muoiono nel momento in cui prendono forma le parole”. Il grande filosofo prussiano aveva intuito molto bene quanto l’abuso di parole può inaridire il pensiero, fino a spegnerlo.
La crisi del nostro tempo è legata a due fattori principali dal mio punto di vista: alla disabitudine a saper ascoltare gli altri, ma anche e soprattutto noi stessi; alla assenza di un pensiero forte, in grado di indicare vie, percorsi da fare fino in fondo, anziché mostrare piccole e pericolose scorciatoie.
Con le parole si possono aprire finestre e costruire ponti, ma si possono anche innalzare muri e scavare voragini per dilatare l’incomprensione, l’incomunicabilità e la paura, soprattutto del diverso. Credo che questo concetto l’abbia espresso molto bene Papa Francesco: “Costruire ponti, non muri”. Oggi sta accadendo esattamente l’opposto. Anziché costruire ponti, si costruiscono muri, che non sono solo di cemento armato e filo spinato, ma principalmente di pregiudizi e incomprensione.
Il diverso non si ascolta, si demonizza e si annichilisce.
Oggi è in atto una pericolosa guerra combattuta con slogan, falsi miti e certezze. Anche i tempi della politica sono diventati eccessivamente rapidi. Da tutte le parti si urla al cambiamento. Quale? Come? Con quali metodi e per quali fini? Questo sembra che nessuno sappia dirlo.
L’uomo del nostro tempo non ha certezze, ma rincorre certezze che spesso trova nelle pieghe dell’odio politico e religioso. In queste condizioni appare evidente che la mala pianta del terrorismo e del fanatismo religioso, sia destinata a progredire perché punta sulle certezze sancite dai testi sacri usati e reinterpretati a proprio uso e consumo.
Nel mondo greco e romano si dava molta importanza alla parola. I sofisti crearono vere e proprie scuole allo scopo di formare l’oratore politico, perché si era compreso che un buon oratore valeva quanto e più di un valoroso combattente.
Troppo spesso mi capita di notare quanto la parola sia usata per nascondere l’assenza di un pensiero e zittire gli altri. Oggi i mezzi di comunicazione sono letteralmente occupati da untori della parola il cui scopo non è far comprendere un fenomeno, un accadimento, un processo, ma confondere le menti e lasciarle il più possibile nell’ignoranza e nella paura.
Vi sono trasmissioni televisive, dove falsi esperti e tuttologi non fanno altro che urlare, usare epiteti e slogan o proporre ricette che hanno tutto il sapore di essere minestre riscaldate. Trasmissioni che per settimane, mesi, propongono le stesse immagini, gli stessi argomenti, dove la parola viene logorata fino a diventare una pallida ombra senza forma e vigore.
Oggi sembra non esserci tempo per il pensiero ricco, compiuto, che sa far sorgere dubbi e interrogativi. Oggi vince il demagogo, non la persona colta. Naturalmente tutto questo ha anche un risvolto per quel che concerne la letteratura e l’arte.
Sempre più assistiamo a opere costruite allo stesso modo di come si prepara un dolce. Opere finalizzate alla vendita e a non varcare la soglia dell’oggi. Non deve sorprenderci che i libri più venduti siano le pubblicazioni di cucina e le biografie di personaggi dello sport, dello spettacolo o della politica.
Charles Peguy diceva che “Una parola non è la stessa cosa in uno scrittore e in un altro. Uno se la strappa dalla viscere, l’altro la tira fuori dalla tasca del soprabito” . Mi auguro che Peguy si riferisse allo scrittore che si macera nel tentativo di dar forma ai suoi personaggi e alle sue atmosfere, non a quelli abituati a costruire i romanzi a tavolino facendo uso sapiente di dizionari, libri e interviste rubacchiate qua e là.
Cataldo Russo
[1] Qui intesa come luogo di distorsione o di messa in mostra della parola manipolata e/o analfabeta (intrisa, cioè, di pregiudizi) in cui la rete serve da grancassa; nella convinzione che la rete sia – al giorno d’oggi – uno strumento irrinunciabile e potente, anche per la trasmissione di bellezza. Proprio per questo crediamo valga la pena fare e agire dei distinguo (ndR).