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Editoriale

Frontiera

il lavoro del traduttore

Crossing the border: varcare la frontiera, attraversare il confine.
Un interprete, come un traduttore, è sempre un simbolico confine: si pone  tra due individui e due mondi, tra due culture che si stanno incontrando. Spesso chi parla non se ne accorge, come chi attraversa una frontiera non necessariamente vede linee tracciate sul terreno. Ma è proprio lui la linea che permette a due mondi di differenziarsi e di comunicare.

Non esiste un’interpretazione letterale, altrimenti non si chiamerebbe interpretazioneInterpretare invece è una parola che parla di prodigi: significa raggiungere la comprensione di qualcosa che è oscuro, decifrarlo e farlo comprendere agli altri, attraverso la conoscenza e affidabilità della persona che deve eseguire il compito  .

Si interpretano i sogni, le opere teatrali, i fenomeni misteriosi, i presagi e le profezie, così come si interpretano le lingue sconosciute. Non esiste un’interpretazione testuale: esiste solo un’interpretazione fedele; sapendo che, comunque, chi traduce tradisce, perché in ogni caso sceglie un significato e un senso abbandonandone altri possibili. Ma inevitabilmente il passaggio da una lingua a un’altra, da un mondo di significati a un altro vuol dire fare una scelta e assumersi una responsabilità.

Il traduttore, ogni volta, costruisce con le proprie parole un ponte che permette a individui a volte molto, molto lontani di incontrarsi a metà, o almeno in un punto più vicino; perché tradurre comporta, come è nella sua origine latina, trasportare, trasferire, portare al di là, e così far muovere significati e vite su questo ponte simbolico per arrivare da un luogo ad un altro, per essere ugualmente espressi e compresi.

Per questo motivo non sono necessarie soltanto doti linguistiche per essere in grado di affrontare questo compito, ma anche doti, direi, piuttosto magiche. Un buon interprete è necessariamente ricco di  sensibilità, sa leggere i silenzi e le espressioni, possiede  cultura ma forse, in maggior misura, tutta la curiosità che gli permette di mettersi in gioco, di scoprire e ricredersi su ciò che già sapeva, senza temere il dubbio. Sa nuotare in correnti di significato che minacciano di ribaltarlo e muoversi sul filo di un equilibrio instabile, sa respirare a fondo e aprirsi al nuovo, con la sacralità di un rito che mette in contatto l’essenza di due esseri umani.

Interpretare e tradurre in fondo sono come scrivere: tracciare linee permanenti di parole, nell’aria che le veicola o sulla carta che le imprigiona per sempre.

Perché un viaggio intorno alla circonferenza del mondo

leone l'africano

I contributi che Inkroci ha scelto di pubblicare nella rubrica “Letterature dal mondo” a partire da questo numero sono da intendere come un omaggio alla letteratura di esplorazione e, in particolare, ad alcune famose narrazioni di antichi esploratori che, con il loro racconto, hanno contribuito ad allargare la visione del mondo che allora si possedeva, influenzando persino le scoperte e i viaggi successivi.

Al tempo della stesura di alcuni di quei libri una parte dei continenti non era ancora propriamente conosciuta, mentre gli altri erano stati visitati solo in parte, e la loro conoscenza non era ancora diventata patrimonio comune. Questo, ovviamente, parlando da un punto di vista eurocentrico, cioè considerando la prospettiva da cui dal vecchio continente si osservava il mondo.

Per questa ragione, oltre a parlare di esploratori partiti dall’Europa, abbiamo scelto anche scrittori che da altri mondi (come nel caso di Ibn Battuta, nato in Marocco, o di Leone l’Africano) esplorarono il pianeta partendo dal Nord Africa, e attraversarono l’Europa e l’Asia andando quindi verso Est e verso Sud; accanto a loro ricorderemo volutamente anche Ma Huan, un narratore cinese che venne inviato dall’Imperatore ad accompagnare una spedizione navale di conoscenza diretta dell’Oceano Occidentale.

Ci pare importante evidenziare la fatica e la lunghezza di viaggi che, nei tempi antichi, si realizzavano nel volgere anni, se non di vite intere, sulla strada, percorrendo, attraversando, camminando passo dopo passo lungo quella che era la circonferenza del mondo. A volte a prezzo della propria stessa vita.

Ci si apriva un varco, sia di conoscenza che di attraversamento culturale, un passo dopo l’altro, a differenza di ciò che accade al giorno d’oggi, in cui la velocità degli spostamenti non favorisce un transito e un progresso graduali all’interno di un universo sconosciuto.

Il viaggio comportava un avanzare a fatica, il cogliere una molteplicità di sguardi, lo stupirsi e l’essere partecipi di una cultura nomadica che oramai la nostra cultura ha messo al bando ed ostracizzato.

Eppure l’universo antico era molto più variegato e complesso di quanto tendiamo a pensare: era estremamente faticoso e pericoloso spostarsi, ma le commistioni, le mescolanze e le ibridazioni erano più frequenti e diffuse, e la vita si compiva e si conquistava sulla strada.

Pensiamo solo al fatto che Marco Polo era un mercante che divenne anche ambasciatore. Non parlava molto bene l’italiano, mentre probabilmente conosceva il persiano e il cinese. Le sue memorie furono scritte da un compilatore che redasse “Il Milione” in antico francese, non in italiano.

E Leone l’Africano non era un africano, ma un arabo nato a Granada, nel sud della Spagna, al tempo della Reconquista Cristiana della penisola iberica.

Questi viaggi, e ancor più la vita stessa degli esploratori, sono una testimonianza di quanto l’identità possa essere un dato variabile e una cultura possa essere una costruzione permeabile, impregnandosi di un altrove conquistato a fatica. E arricchendosi dell’altro da sé con la calma dell’osservatore, non sfiorandolo con la fretta di un giudice distratto.

Se l’abuso della parola distrugge il pensiero

Editoriale di Cataldo Russo

Da sempre le parole hanno il potere di creare mondi, universi, mode, sensibilità e nello stesso tempo di distruggerli. La parola accende speranze, slarga i cuori, genera fiducia e ottimismo, ma determina anche rancore e odio. Quando più diventa ridondante, inutilmente forbita, avulsa dai contesti e incomprensibile ai più, tanto più palesa la sua forza ingannatrice e si fa devastante.

Oggi si parla, si parla, ma il più delle volte si ha l’impressione di parlare in un deserto di salsedine. È come se la nostra voce non avesse eco.

Mai come in quest’epoca c’è una disproporzione fra la quantità di parole usate e quelle realmente ascoltate o semplicemente percepite.

Troppe volte ci si vomita addosso fiumi di parole e frasi nell’illusione di riuscire a comunicare il nostro pensiero o il nostro ego e non ci rendiamo conto che più parliamo e più rischiamo di inibire la comunicazione e di isolarci dagli altri, costruendoci un mondo fittizio, fatto di finte risposte e di finte relazioni. Ciò avviene soprattutto con la rete[1]. Oggi le parole non sono più pietre. Anzi, il più delle volte non hanno peso e sembrano scivolare via con la leggerezza delle cose inutili.

Schopenhauer, già due secoli fa, affermava che “I pensieri muoiono nel momento in cui prendono forma le parole”. Il grande filosofo prussiano aveva intuito molto bene quanto l’abuso di parole può inaridire il pensiero, fino a spegnerlo.

La crisi del nostro tempo è legata a due fattori principali dal mio punto di vista: alla disabitudine a saper ascoltare gli altri, ma anche e soprattutto noi stessi; alla assenza di un pensiero forte, in grado di indicare vie, percorsi da fare fino in fondo, anziché mostrare piccole e pericolose scorciatoie.

Con le parole si possono aprire finestre e costruire ponti, ma si possono anche innalzare muri e scavare voragini per dilatare l’incomprensione, l’incomunicabilità e la paura, soprattutto del diverso. Credo che questo concetto l’abbia espresso molto bene Papa Francesco: “Costruire ponti, non muri”.  Oggi sta accadendo esattamente l’opposto. Anziché costruire ponti, si costruiscono muri, che non sono solo di cemento armato e filo spinato, ma principalmente di pregiudizi e incomprensione.

Il diverso non si ascolta, si demonizza e si annichilisce.

Oggi è in atto una pericolosa guerra combattuta con slogan, falsi miti e certezze. Anche i tempi della politica sono diventati eccessivamente rapidi. Da tutte le parti si urla al cambiamento. Quale? Come? Con quali metodi e per quali fini? Questo sembra che nessuno sappia dirlo.

L’uomo del nostro tempo non ha certezze, ma rincorre certezze che spesso trova nelle pieghe dell’odio politico e religioso. In queste condizioni appare evidente che la mala pianta del terrorismo e del fanatismo religioso, sia destinata a progredire perché punta sulle certezze sancite dai testi sacri usati e reinterpretati a proprio uso e consumo.

Nel mondo greco e romano si dava molta importanza alla parola. I sofisti crearono vere e proprie scuole allo scopo di formare l’oratore politico, perché si era compreso che un buon oratore valeva quanto e più di un valoroso combattente.

Troppo spesso mi capita di notare quanto la parola sia usata per nascondere l’assenza di un pensiero e zittire gli altri. Oggi i mezzi di comunicazione sono letteralmente occupati da untori della parola il cui scopo non è far comprendere un fenomeno, un accadimento, un processo, ma confondere le menti e lasciarle il più possibile nell’ignoranza e nella paura.

Vi sono trasmissioni televisive, dove falsi esperti e tuttologi non fanno altro che urlare, usare epiteti e slogan o proporre ricette che hanno tutto il sapore di essere minestre riscaldate. Trasmissioni che per settimane, mesi, propongono le stesse immagini, gli stessi argomenti, dove la parola viene logorata fino a diventare una pallida ombra senza forma e vigore.

Oggi sembra non esserci tempo per il pensiero ricco, compiuto, che sa far sorgere dubbi e interrogativi. Oggi vince il demagogo, non la persona colta. Naturalmente tutto questo ha anche un risvolto per quel che concerne la letteratura e l’arte.

Sempre più assistiamo a opere costruite allo stesso modo di come si prepara un dolce. Opere finalizzate alla vendita e a non varcare la soglia dell’oggi. Non deve sorprenderci che i libri più venduti siano le pubblicazioni di cucina e le biografie di personaggi dello sport, dello spettacolo o della politica.

Charles Peguy diceva che “Una parola non è la stessa cosa in uno scrittore e in un altro. Uno se la strappa dalla viscere, l’altro la tira fuori dalla tasca del soprabito” . Mi auguro che Peguy si riferisse allo scrittore che si macera nel tentativo di dar forma ai suoi personaggi e alle sue atmosfere, non a quelli abituati a costruire i romanzi a tavolino facendo uso sapiente di dizionari, libri e interviste rubacchiate qua e là.

 

Cataldo Russo

[1] Qui intesa come luogo di distorsione o di messa in mostra della parola manipolata e/o analfabeta (intrisa, cioè, di pregiudizi) in cui la rete serve da grancassa; nella convinzione che la rete sia – al giorno d’oggi – uno strumento irrinunciabile e potente, anche per la trasmissione di bellezza. Proprio per questo crediamo valga la pena fare e agire dei distinguo (ndR).

Umanità

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Cari lettori,

come sapete, Inkroci non si è mai occupata direttamente del “fatto del giorno”, ma intende abbracciare il presente dell’Uomo con la narrazione.
Tuttavia, la mercificazione e l’escalation della morte che attraversano la nostra epoca ci impongono la responsabilità di esprimere, subito e in modo chiaro, il nostro NO, non in nostro nome, alla logica della guerra e all’egemonia finanziaria che la governa.
E vogliamo farlo a modo nostro: attraverso l’arte.  L’arte straziata e straziante di questo canto degli Area, questo grido diviso tra il desiderio di pace e la necessità della guerra all’omertà.
Perché l’Umanità ritrovi il proprio senso e il proprio essere prima e sopra ogni cosa in questo mondo.
Questo è ciò che vogliamo, in nostro nome.

Buona lettura,
La redazione

 

 

حبيبي
بالسلام حطيت ورود الحب ادّامك
بالسلام مسحت بحور الدم علشانك
سيب الغضب
سيب الالم
سيب السلاح
سيب السلاح وتعال
تعال نعيش
تعال نعيش يا حبيبي
ويكون غطانا سلام
عايزاك تغني يا عيني
ويكون غناك بالسلام
سمع العالم يا قلبي وقول
سيبوا الغضب
سيبوا الالم
سيبوا السلاح
وتعالوا نعيش
تعالوا نعيش بسلام

(Trascrizione egiziana di Ibrahim)

TRADUZIONE

Mio amato
Con la pace ho depositato i fiori dell’amore
davanti a te
Con la pace
con la pace ho cancellato i mari di sangue
per te
Lascia la rabbia
Lascia il dolore
Lascia le armi
Lascia le armi e vieni
Vieni e viviamo o mio amato
e la nostra coperta sarà la pace
Voglio che canti o mio caro ” occhio mio ” [luce dei miei occhi] E il tuo canto sarà per la pace
fai sentire al mondo,
o cuore mio e di’ (a questo mondo)
Lascia la rabbia
Lascia il dolore
Lascia le armi
Lascia le armi e vieni
a vivere con la pace.

(Traduzione di Ammar)

 

Giocare col mondo facendolo a pezzi
bambini che il sole ha ridotto già vecchi

Non è colpa mia se la tua realtà
mi costringe a fare guerra all’omertà.
Forse un dì sapremo quello che vuol dire
affogare nel sangue con l’umanità.

Gente scolorata quasi tutta uguale
la mia rabbia legge sopra i quotidiani.
Legge nella storia tutto il mio dolore
canta la mia gente che non vuol morire.

Quando guardi il mondo senza aver problemi
cerca nelle cose l’essenzialità
Non è colpa mia se la tua realtà
mi costringe a fare guerra all’umanità.

 

NOTA

Il testo in egiziano è ispirato a una canzone popolare greca della Macedonia.
Il testo della canzone degli Area è di Gianni Sassi ed è tratta dall’album “Arbeit macht frei”, del 1973.
Per la trascrizione e la traduzione dall’arabo dobbiamo ringraziare Gianni Costa e Ammar.
Ringraziamo anche Lorenzo e i gestori del sito www.antiwarsongs.org per averci permesso di utilizzare la loro trascrizione e la loro traduzione, nonché Ale Fernandez e il sito www.guerrillatranslation.es per la versione in inglese, pubblicata su www.inkroci.com .
Potete ascoltare la canzone degli Area qui: https://www.youtube.com/watch?v=kj1P7S47eZQ
Potete ascoltare la cover della canzone realizzata da Ale Fernandez qui: http://soundcloud.com/alefernandez/

Calcio, bellezza e felicità

Inkroci-14-Luglio-Agosto-2015

 

Cari lettori,

Forse qualcuno si stupirà apprendendo che questo numero di Inkroci è dedicato al calcio. Non è stata un’impresa facile convincere tutta la redazione ad accettare un argomento che la maggior parte di essa guardava con disinteresse, sospetto o pura e semplice incompetenza.

Tuttavia, chi oggi vi scrive ha saputo mettere in atto un’accorta tattica di persuasione. Calcisticamente parlando, la definirebbe una fulminea azione di contropiede o, se volesse usare un’espressione più moderna, una perfetta ripartenza. Per spiegarvi com’è andata a finire la questione (anzi, la partita), lasciate però che il vostro cronista continui a usare il gergo in cui fece le sue prime esperienze di lettore.

Davanti a chi, al solo sentir nominare il calcio, gli parlava in redazione della violenza dei tifosi, dello spreco inutile di denaro, dell’inclinazione verso il razzismo, l’omofobia e la corruzione di alcuni suoi esponenti, e persino del periodo negativo in cui versa la Nazionale italiana; davanti a tutto ciò, senza negare ma impercettibilmente sminuendo ogni argomento contrario, egli ha improvvisamente iniziato a citare libri e film.

Ha rapidamente ricordato la Storia critica del calcio italiano di Gianni Brera, scrittore sapido e coltissimo, che teorizza il calcio non già come un gioco, ma come l’immagine viva e autentica dello spirito del popolo da cui esso trae origine. E poi l’etologo inglese Desmond Morris, che in La tribù del calcio dà di questo sport (e della sua presunta carica di violenza) un’interpretazione sociologica, rappresentandolo come un nuovo tipo di caccia rituale, in cui il goal è la preda da catturare e il pallone l’arma per colpirla. E infine Nick Hornby e il suo romanzo autobiografico (e poi film) Febbre a 90°, ove si svela la natura della passione dei tifosi e si spiega che, per chi ama il calcio attraverso la propria squadra, esso non potrà mai, assolutamente mai, essere “solo un gioco”, ma piuttosto una posizione esistenziale o, ancor più giustamente, un destino.

Davanti all’improvviso sbandamento degli avversari, che certo non si attendevano questo dribbling, chi oggi vi scrive ha poi proseguito l’incontro definendo il calcio come fautore di bellezza, e ha infine chiuso citandolo come uno dei maggiori produttori di felicità. Per fare ciò ha chiamato a testimone Umberto Saba, il grande poeta di Trieste e della Triestina. Saba fu fra i pochissimi a intuire il segreto del calcio, il suo duplice dono di bellezza e di felicità, quella miscela preziosissima di intenso e di effimero che da esso scaturisce e che, per brevi istanti, può lenire le amarezze della vita:

Pochi momenti come questi belli,
a quanti l’odio consuma e l’amore,
è dato, sotto il cielo, di vedere.
(da Goal)

Voi sapete per esperienza, cari lettori, che quando si parla di libri e di film alla redazione di Inkroci, il vantaggio è assicurato. E sapete anche che, quando il discorso tocca la bellezza e la felicità, il vantaggio si traduce nella vittoria più schiacciante. Non ci sono che la bellezza e la felicità per vincere la partita, nella redazione di Inkroci. E la partita è stata puntualmente vinta! Ecco perché il calcio si è conquistato un posto sulla nostra rivista.

In questo numero di Inkroci, come si conviene d’estate, tratteremo di calcio con leggerezza. Di volta in volta compariranno pezzi allegri, nostalgici, un po’ comici e un po’ commossi. Parleremo di grandi e piccole partite, di onesti calciatori e di campioni. Ma soprattutto parleremo dei tifosi, non teppisti ma uomini, delle loro avventure e della loro sofferta ricerca della felicità.

Buone letture!

Testimoni

Testimoni

L’esule, colui che si allontana volontariamente o forzatamente dalla propria patria, è uno dei protagonisti del nostro tempo, specialmente se per “patria” intendiamo il mondo di appartenenza nel senso più vasto: cultura, idee e morale. É l’essere della trasformazione, colui che è diverso da ciò che avrebbe potuto essere se non avesse vissuto l’esperienza dell’allontanamento.

Per questo il migrante è forse una delle figure centrali di definizione del XXI secolo. Milioni di uomini e donne vivono questa prova che, al di là dell’esperire l’emigrazione in un Paese diverso dal proprio, rappresenta il momento, inevitabilmente violento, del cambiamento di sé. Un emigrante soffre un molteplice sconvolgimento: perde il proprio luogo di origine e di appartenenza, entra in un altro linguaggio e si trova circondato da uomini con comportamenti sociali e codici molto diversi dai suoi. Questo è ciò che rende gli emigranti figure tanto importanti: perché le radici, la lingua e le norme sociali sono tre delle principali parti della definizione di ciò che un essere umano è. L’emigrante, una volta che le ha negate tutte e tre, è obbligato a trovare nuovi modi di descrivere se stesso e di essere uomo.

L’ingresso del nuovo nel mondo non è facile: il rischio non è solo quello della vita, ma anche quello della perdita totale di sé, e spesso si soccombe di fronte alla prova.

L’esule è colui che sperimenta la condizione drammatica dell’assenza, che si stacca da un Paese e perde il retroterra culturale che lo identifica, perché l’emigrazione è, in un primo momento, un gesto violento di privazione, e solo chi riesce a trasformarsi, e ricreare uno spazio al quale appoggiarsi, si può salvare.

La città si collega in modo ripetuto alla questione dell’immigrazione, poiché è essa stessa un luogo del passaggio ed è una meta dell’arrivo. É il luogo in cui “accadono le cose”, e può avere una valenza evocativa inquietante, perché profondamente associata al senso di confusione e di smarrimento;o, al contrario, esaltante, perché diventa il luogo reale e metaforico dell’incontro, dove acquista significato la compresenza e si concentrano in sé i concetti di molteplicità, di coesistenza di realtà incompatibili e diversità di fedi e di culture.

Le città diventano quindi luogo del tutto, perché, come le vite, sono affollate di persone, di fatti, di cose che concorrono a ricomporre un mosaico grandioso. E la città mondo è un elemento di questo nuovo creato. La metropoli diventa luogo dell’incontro, e perciò è anche luogo dell’emigrato che entra in contatto con realtà nuove e che si relativizza.

Lo spirito umano è sempre lo stesso, ma adotta, nelle sue migrazioni, forme sempre variabili. Il nuovo e più enigmatico prodotto del nostro tempo è il migrante, che ripropone il mondo attraverso un’ altra visione, quella di chi parte dall’esperienza dello sradicamento, della separazione e della metamorfosi.

Penso che il problema che si deve porre la letteratura oggi sia quello di rinnovare un linguaggio ed esplorare scritture che esprimano un tentativo di re-impossessarsi delle cose e di un mondo che è anche quello “dell’altro”, per dimostrare che la morale e la realtà sono esperienze interne ad una cultura e sono mutevoli, piuttosto che esterne e assolute.

In questo tempo noi siamo testimoni di un’epopea, vediamo scorrere davanti a noi l’epoca  della gioventù martoriata, della ricerca e  della disperazione, non tanto per ciò che chi fugge si lascia alle spalle, ma per l’ineluttabilità della spinta a muoversi.

Così come l’Iliade e l’Odissea sono i miti fondanti di una cultura e di una civiltà, ed i loro protagonisti rappresentano i campioni, eroi luminosi o al contrario oscuri di quello scontro, la nostra sarà ricordata come l’epoca delle grandi migrazioni, e ciò che ancora dobbiamo scrivere sarà la narrazione della nascita di una nuova civiltà,  la definizione di una nuova letteratura e forse di un nuovo canone letterario.

Noi possiamo solo testimoniare e combattere sul fronte di ciò che crediamo essere la nostra guerra, e  solo scegliere cosa essere tra gli uomini. Non fermeremo nessuno, non è possibile farlo. Il tempo e la storia  non si arrestano.

Un giorno saranno altri a ricordarsi di noi.

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