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Editoriale

Velocità, disperazione, consumo e romanzi epistolari

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Carissimi lettori,
d’improvviso è come se mi fossi risvegliato da un sogno, è come se fossi rinato al mondo dopo un lungo soggiorno nel passato. Soltanto in questi ultimi giorni ho preso coscienza. La mia mente, un tempo rinchiusa nella torre d’avorio della letteratura, è finalmente uscita dal torpore. Il mio buon senso, che i libri stampati sulla carta avevano corrotto, ha ritrovato l’equilibrio. Ora, che posseggo uno smartphone, un tablet, e leggo gli e-book, dopo tanto tempo posso vedere. Anzi, posso vedere come se fosse la prima volta.
Vedo la velocità. Il mondo gira vorticosamente nel mio smartphone, e consuma in un millisecondo tutto ciò che senza speranza vive fra la terra e il cielo. Tutto accade istantaneamente, nel mio smartphone. Vedo, inestricabili, la velocità, la disperazione e il consumo.
Io non sono uno da massimi sistemi. Non vi dirò, carissimi lettori, che ciò che vedo non mi piace. Mi limiterò a portare un solo, piccolo esempio di come la velocità, la disperazione e il consumo abbiano influito sulla condanna di uno dei generi di romanzo che amo di più. Cercherò anzi di difendere e di segnalare i pregi di quel genere. Conscio però che la grande marea degli ebook fra pochi anni lo sommergerà.
Mi sorprende, carissimi lettori, che la maggioranza delle persone con cui parlo di libri, dunque anche qualcuno fra voi, ritenga il romanzo epistolare un genere ormai inavvicinabile. Eppure capolavori come Clarissa, Le relazioni pericolose, il Werther, l’Ortis, Frankenstein e Dracula sono stati scritti in forma epistolare. E se questi vi paiono romanzi del passato, in pieno Novecento sono usciti, fra gli altri, Lettere di una novizia di Guido Piovene, Caro Michele di Natalia Ginzburg, Che tu sia per me il coltello di David Grossman. Tutti romanzi epistolari, come pure Un giorno, altrove di Federico Roncoroni, pubblicato nel 2013 ove, allo scambio di lettere su carta, è stato sostituito quello delle e-mail.
Dunque, il romanzo epistolare è davvero da respingere? Per quanto mi sforzi, davvero non riesco a comprendere i motivi di un verdetto così definitivo.
Vi annoia forse leggere una sequenza di lettere senza nemmeno una descrizione o un dialogo? Siete affamati di azione e non di riflessione? Di pura velocità e non di pause meditative? Eppure in Dracula e in Le Relazioni Pericolose azione e riflessione si alternano a ogni pagina.
Vi sentite forse come voyeur costretti a seguire vicende narrate quasi esclusivamente in prima persona? Vi pare che lo studio psicologico connaturato alla lettera non sia più attuale? O che non porti da nessuna parte? Ciò credo dipenda dall’epoca in cui quei libri sono stati scritti, quando l’analisi minuziosa delle personalità risultava più importante di oggi. Ma anche lo studio psicologico può essere interessante.
O è forse la logorrea della lettera a indisporvi? Si sa che oggi ogni comunicazione che superi le cinque righe (dunque anche questo editoriale) viene classificata come faticosa, polverosa, illeggibile. In realtà una lettera ben scritta, anche se lunga, può essere avvincente e fulminea come una breve scena.
O forse il romanzo epistolare vi appare come un genere ormai inesorabilmente superato? Probabilmente questa è la risposta, ma dire che non si leggono più i romanzi epistolari perché contengono delle lettere è come dire che non si guardano i film in bianco e nero perché mancano i colori.
Mi auguro che, prima di respingere i romanzi epistolari, ci si accosti a essi, almeno ai migliori di essi, senza pregiudizi. E che, in loro compagnia, si lascino da parte per un po’ la disperazione, la velocità e il consumo.
In questo numero di Inkroci appare, nella rubrica Parole di celluloide, una recensione di Le relazioni pericolose, cui si affianca una rassegna dei film che hanno portato sullo schermo la storia narrata nel romanzo.

Buone letture,

Michele Curatolo

Parola alla Parola

Gli uomini creano opposizioni che non esistono, e le mettono in nuovi termini, fissati in maniera che, mentre il significato dovrebbe governare il termine, il termine in effetti governa il significato.

(Francesco Bacone, Saggi, cap. III).

La manipolazione del linguaggio a uso e consumo del potere abita l’uomo da che l’uomo esiste. Già nella Bibbia si assume Dio a Verbum, cioè a parola: Dio è Parola, designata nelle sacre scritture come saggezza e declinata poi, dai grammatici latini, come ciò che denota l’azione in tutti i suoi accidenti. Etimologicamente è curioso, inoltre, evidenziare come si trovi traccia di questo termine nelle lingue orientali (antico persiano e zendo) con l’attribuzione dell’ulteriore significato di insegnare, annunziare.
Non è dunque problema di quest’epoca la corruzione del linguaggio come pericolo per la coscienza individuale e, ancor più, collettiva, ma appartiene all’esistenza stessa della società. Non a caso, in tempi recenti (e, soprattutto, più che mai contemporanei), la Germania nazista organizzò uno dei più grandi Bücherverbrennungen  nell’Opernplatz berlinese: era il 10 maggio del 1933 e non fu, e non è, l’unico esempio di biblioclastia.
Quel che sconcerta, invece, in questa odiernità è l’assenza di dibattito nelle aule della vita, l’assenza di intellettuali che facciano il loro mestiere; l’assenza o la carenza di una controcultura organizzata che agisca la propria indignazione e, soprattutto, allerti dal pericolo insito nell’impoverimento del linguaggio: un nuovo regime di schiavitù per l’uomo in una società assoggettata alla dittatura di una cultura neoliberista, nascosta nell’apparente vessillo della democrazia come baluardo di libertà.
Siamo mirabilmente liberi di avere tutte le informazioni che vogliamo, di accedere, comprare e consumare tutto lo scibile, di sentirci esperti tuttologi aggiornati grazie a cinque righe di un post su un social network. Cinque, perché la sesta riga sarebbe un approfondimento non compatibile con la velocità e la flessibilità delle competenze richieste dal mercato.
Nell’era digitale possiamo traversare ogni confine. Ed essere ritrovati in ogni istante, perché, caso mai ci dessimo da fare per reperire informazioni che ci indichino nuove strade, il potere possa, in tempo di bit, recuperarci e farci scegliere – liberamente, ovvio – se tornare all’ovile della distrazione mediatica oppure essere tagliuzzati dalle forbici della censura, nelle forme che preferiamo. È semplicemente questo quello che accade: annientando la parola si annienta la coscienza.
Paradossalmente la controcultura che combatteva il potere, quando viaggiava di villaggio in villaggio sulle carte ciclostilate, era riuscita a creare coscienza, a creare rivoluzione, a vincere battaglie sociali. Ora è talmente fitta e tecnologicamente avanzata la rete della censura (il progresso non è nato per l’uomo, perlomeno non prioritariamente) che la società vegeta in un perenne stato allucinatorio, vagando nella visione morganica di essere libera e padrona del proprio essere cosciente e conoscente. Orwell ha predetto ciò che noi stiamo vivendo perché Orwell ha semplicemente fatto il suo mestiere: dato alla parola il suo significato.
Qualcuno sostiene che la nostra epoca digitale stia coniando nuovi termini, nuove forme di comunicazione che narrano la realtà, aderendovi e riconoscendola anche nella sua evoluzione linguistica. Una nuova scrittura per nuovi scrittori, dell’adesso, che sappiano raccontare il proprio tempo con il suo linguaggio. E tacciano di conservatorismo chi inorridisce ai “ke”, alla scomparsa dei congiuntivi, ai “piuttosto che” usati impropriamente; a un vocabolario sempre più povero, nello spettro sempre meno rarefatto di un’involuzione linguistica e umana che sta perdendo il senso della parola come creatrice di sapienza e di coscienza. Della parola che annuncia e insegna.
Lo scrittore non è un conservatore della parola; lo scrittore, quando è tale, ne riconosce la potenza, la vitalità, la dinamicità e la possibilità di cambiamento continuo. La parola è parte stessa del futuro perché lo contempla: ha in sé la memoria della storia, la forma del presente e, per il connubio di queste due attitudini, la possibilità di divenire altro, di provare a dire oltre il presente nel dire del presente. La parola stessa ce lo insegna, in quei libri che riconosciamo attuali, che tutti sappiamo indicare come esempio di letteratura senza saper dire che cosa sia letteratura.
Uno scrittore, quando è tale, non confonde l’attualità del tempo con l’uso del linguaggio imposto, ma al linguaggio si inchina, gli rende onore, rispetto, rigore e lo propone al lettore con onestà e significato.
I pochi che ci riescono non solo ci affascinano, ma ci lasciano dentro una perla da coltivare. Ci rendono vita.

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1Roghi di libri

La Contraddizione

Oggi non sei nessuno se non appari in tivù. Questo assunto, che a prima vista sembra figlio soltanto di veline, grandi fratelli e pseudo-amici della De Filippi, è un concetto invero estendibile agli scrittori, agli artisti. E non è la televisione in sé, ma la vetrina che essa costituisce, il pubblico riconoscimento che essa sembra regalare.
Intervistati, coccolati, vezzeggiati o ignorati, disdegnati, esclusi, ormai troppi scrittori sono figli del credo degli ultimi trent’anni: il successo ad ogni costo. E aspirano ad affidarsi proprio al medium che è fautore della più estrema e sistematica distruzione del linguaggio. Disposti a perdere se stessi per guadagnarne in esposizione, trasformandosi in macchiette, in personaggi dati in pasto al pubblico come, nell’arena di un tempo, i nemici ai leoni.
Si fanno, così, schiavi volontari di un mezzo di comunicazione che, nel momento stesso in cui li mitizza, li smitizza costringendoli a una degradante mediazione con la cosa (“res”) dominante, a venire a patti con la propaganda dei valori positivi ufficiali, con un veicolo comunicativo nel quale proprio la comunicazione è l’eterna assente, se non per proporre modelli da cui chi non aderisce si sente escluso. Un compromesso che forza lo scrittore ad un adeguamento verso le pretese esigenze dello spettatore, esigenze peraltro create artificiosamente dal medium stesso in una logica commerciale nella quale è l’offerta a determinare la domanda, e non il contrario; un compromesso in cui lo scrittore si consegna integralmente al consenso massmediatico, per sua stessa natura reazionario e anticulturale.
La necessità ultima del medium televisivo è quella di far dimenticare che la persona sullo schermo è un autore di libri, di trasformarlo in un personaggio, gradevole o sgradevole a seconda delle esigenze; di reprimere quindi la sua natura di scrittore per assoldarlo alle esigenze del palcoscenico.
L’autore, dal canto suo, risulta il più delle volte ridicolo e inadeguato al medium; oppure altero, distante al limite dell’impresentabilità; al peggio, compiaciuto del proprio passaggio televisivo e infine asservito alla cultura dello spettacolo. Comunque privato del proprio ruolo di scrittore: invece di comunicare attraverso le proprie opere con i lettori, si trasforma in attore, in un commediante teso a comunicare la propria rappresentazione di sé agli spettatori, come un qualsiasi banditore di televendite che per raggiungere un più ampio numero di clienti rinuncia alla propria dignità e al proprio ruolo. E, in questa deriva, si integra perfettamente con il sistema neocapitalista, asservendo la propria arte e il proprio intelletto a una cultura dell’immagine dominata da un adeguamento verso il basso per incontrare un pubblico di telespettatori disorientati, di cui in quel momento egli stesso entra a far parte. Ma di quel suo disorientamento non si troverà traccia nelle sue opere, perché ormai avrà raggiunto la certezza che il libro è solo una merce, un prodotto da vendere ad un pubblico di non-lettori. Rinunciando per sempre alla propria originalità, alla possibile unicità della propria voce, alla propria individualità. Rinunciando, cioè, ad essere uno scrittore.

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