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Editoriale

Una rivista bilingue

Cari lettori,

nel darvi il benvenuto al nostro numero 5, cercherò di raccontarvi le ragioni di una scelta che ha reso Inkroci una rivista bilingue, cogliendo anche l’occasione per riflettere sul senso di quello che facciamo. Come tutti gli argomenti di un certo interesse, il tema si presenta complesso e può essere utile provare ad affrontarlo attraverso spunti di riflessione e sguardi differenti.
Una considerazione spontanea riguarda il legame strettissimo fra la lingua e la cultura. Secondo la definizione data da UNESCO (1970), a cui la nostra rivista si ispira, la cultura è un processo di comunicazione tra gli uomini, che esistono in quanto sono in relazione con gli altri. Osservando che l’inglese è ormai diventato una lingua franca per la comunicazione internazionale, siamo convinti che il suo uso ci permetta di raggiungere un numero maggiore di lettori e quindi ci dia la possibilità di agire con maggiore intensità e compiutezza la pratica della cultura.
Per tendere a questo obiettivo, non sarebbe bastato che la rivista uscisse solo in inglese?
Rispondiamo con le parole di Nelson Mandela: «parlare a qualcuno in una lingua che comprende consente di raggiungere il suo cervello. Parlargli nella sua lingua madre significa raggiungere il suo cuore». Inkroci si muove in campo letterario, con l’ambizione di costruire dialoghi, di condividere la rappresentazione di esperienze, di ampliare l’intersoggettività e di fare sperimentazioni sull’uso della parola. Poiché fra pensiero e linguaggio esiste un rapporto bidirezionale, riteniamo che promuovere la scrittura nella lingua dei nostri pensieri e delle nostre emozioni sostenga la qualità e la pregnanza dei nostri testi.
Inkroci non è insensibile alle sfide poste dall’internazionalizzazione, auspicata in molti ambiti dell’educazione e della ricerca, ma preferiamo attribuire a questo concetto il significato di multilinguismo e diversità culturale, declinandolo nello spazio che Inkroci dedica a una rubrica intitolata Letterature dal mondo, in cui si possono trovare anche pezzi in lingue diverse.
Questa scelta implica, di conseguenza, che Inkroci si cimenti con l’impegno di tradurre i propri testi dall’inglese o in inglese. Identificando la qualità della scrittura con la sintesi e l’asciuttezza, personalmente trovo grande soddisfazione nell’avvicinarmi alla lingua inglese. Per tradurre letteratura occorre essere appassionati. Come sappiamo, il termine passione ha in sé l’idea di patire. Ricordo lo studio dell’inglese alla scuola elementare come un’esperienza di estrema fatica. Forse proprio la fatica nel comprendere si è poi trasformata nel suo opposto, nel desiderio di chiarificare e rendere accessibile, a me stessa prima che agli altri, quindi nell’amore per la traduzione che in fondo è un amore per la parola, condiviso con tutto il gruppo di Inkroci.
La traduzione è una forma di conoscenza, un atto comunicativo e il luogo di un incontro dove si dissolvono le distanze nello spazio e nel tempo, dove si compiono la scoperta dell’altro e la coscienza di sé, rintracciando i fili della propria identità. Secondo Italo Calvino «tradurre è il vero modo di leggere un libro».
Naturalmente una lingua non è fatta solo di parole e l’atto del tradurre, come sostiene Umberto Eco, non è unicamente trasposizione da una cultura a un’altra, ma anche adattamento di contenuti preesistenti a contesti cambiati o mai esistiti prima. Questo è lo spazio della sfida, della bellezza e della libertà, un atto forzosamente imperfetto (http://cartaecalamaio.com/2012/07/09/lannosa-questione-del-tradurre-e-tradire/). In questo spazio trovano gratificazione il lavoro di cesello, l’attenzione al dettaglio, alla virgola, alla sfumatura, nella convinzione che forma e sostanza siano due polarità che richiedono di stare in perfetto equilibrio.
Milan Kundera, che ha sempre rivisto e corretto le traduzioni dei suoi libri con un accanimento ossessivo, ha scritto: «Si dice: la traduzione è come la donna: o è fedele o è bella. È l’adagio più stupido che conosca. Infatti, la traduzione è bella se è fedele».

Per concludere, mi piace citare un’intervista (sul nostro n. 2) in cui Erri De Luca descrive come l’esercizio di precisione, spinto da un sentimento di ammirazione per l’altra lingua, permetta di radicarsi nel proprio vocabolario: «Quando qualcuno mi chiede come si fa a diventare scrittore, io rispondo tranquillamente: diventando prima traduttori».

Anna Anzani

Cultura senza contesto

Fotografia di Marisa Sias

Consultando il catalogo della maggioranza delle case editrici italiane ci si rende conto che, in elenco, gli scrittori nostrani sono una minoranza. È vero che l’Italia, territorialmente piccola, è una minoranza anche geografica  ma è altrettanto vero che in ogni Paese del mondo si tende a dare ampio spazio agli autori nazionali: l’Italia, in questo senso, è in controtendenza.
Scelte editoriali imposte dall’alto? Non solo. A mio avviso, si tratta di una conformazione propria della cultura italiana: una cultura che soffre, ormai da molto tempo, di esterofilia; peggio, di una dipendenza (anche storica) dalla cultura statunitense.
In particolare, nell’ultimo ventennio l’Italia ha subito anche le conseguenze di una politica liberista che affonda le proprie radici negli anni Ottanta e nella cultura che quel periodo ha generato. Vorrei quindi soffermarmi sul concetto di “cultura”.
Il vocabolario della lingua italiana di Nicola Zingarelli ne dà innanzitutto la seguente definizione: “Complesso di cognizioni, tradizioni, procedimenti tecnici, tipi di comportamento e sim., trasmessi e usati sistematicamente, caratteristico di un dato gruppo sociale, di un popolo, di un gruppo di popoli o dell’intera umanità”.  La letteratura, quindi, non germina da sé stessa, ma è figlia dell’humus culturale in cui anche lo scrittore (che è prima di tutto un lettore, un fruitore) cresce e sviluppa il proprio pensiero.
I vocabolari stessi mutano le definizioni associate ai lemmi riportati a seconda del periodo storico e culturale che si sta attraversando, adattandosi così alla norma prevalente in quel momento. E sotto “letteratura”, adesso, troviamo questa descrizione: “Attività indirizzata alla produzione sistematica di testi scritti con finalità prevalentemente estetica e nei quali spesso l’invenzione predomina sulla descrizione della realtà” (ibidem).
Ci accorgiamo subito che questa formula si attaglia perfettamente alla letteratura italiana moderna. Sembra di leggere una descrizione sommaria ma precisa della maggioranza dei romanzi prodotti dagli autori italiani più popolari. Per questi scrittori la finalità è esclusivamente estetica e di pura invenzione, e le loro opere sono prive di contenuto, di un tema individuabile e di descrizioni della realtà viva nella quale lo scrittore dovrebbe essere immerso (non è un caso che buona parte della produzione sia dedicata a feuilleton pseudo-storici). Autori che non ci dicono nulla del nostro tempo, del tempo in cui vive il narratore, né della nostra storia, se non “l’estetica della parola vuota” (L. Gregori).
Dato che il nostro campo d’indagine è la letteratura degli anni in cui viviamo, vorrei ritornare proprio a questo. Scopro però, cercando le definizioni che mi servono, che queste, invece di restringere il campo d’indagine, lo allargano. Lo Zingarelli, infatti, dà di “romanzo”, oltre alle accezioni relative al mondo classico e a quello medievale, quella relativa al mondo moderno: “ampio componimento narrativo, fondato su elementi fantastici o avventurosi, su grandi temi sociali o ideologici, sullo studio dei costumi, dei caratteri o dei sentimenti”.
Balza all’occhio come la descrizione di “romanzo” sia ampiamente in antitesi con quella di “letteratura”. Improvvisamente si parla anche di temi sociali e ideologici, di costumi, caratteri e sentimenti (quindi di realtà), che non facevano neppure capolino nella definizione di “letteratura”; si parla, in senso ristretto, anche di “cultura”.
A questo punto sorge spontaneo un dubbio: ma dunque il romanzo non fa parte della letteratura quando tratta i temi succitati? O semplicemente il vocabolario, registrando i mutamenti epocali, aggiorna la definizione di letteratura ma deve necessariamente riportare quella storica di romanzo, indipendentemente dalla sua aderenza alla produzione attuale?
Un’altra domanda importante che dobbiamo porci è: chi scrive letteratura?
Tralasciando la risposta più lapalissiana – gli scrittori –, potrebbe venir spontaneo rispondere: gli intellettuali. Controlliamo dunque la definizione di “intellettuale”: “Chi si dedica prevalentemente ad attività connesse con il sapere ed il pensiero, ha vasti interessi culturali, produce opere di tipo letterario, artistico, scientifico e sim.” (ibidem). E, tra le definizioni di “cultura” troviamo, come seconda, la seguente: “Patrimonio di conoscenze di chi è colto” (ibidem).
Quindi la figura dell’intellettuale è legata alla cultura, e l’intellettuale, grazie alla propria cultura (sapere, pensiero), può produrre opere di tipo letterario. Ma se “proprio della cultura è suscitare nuove idee e bisogni meno materiali, formare una classe di cittadini più educata e civile” (De Sanctis), a che cosa ci troviamo di fronte quando pensiamo a esponenti letterari che producono solo vuoti di senso, pur atteggiandosi a intellettuali e pur essendo dotati di una buona erudizione?
Mi limito a sottolineare come le opere di questi scrittori dei nostri tempi, figli della cultura che ci ha soggiogati nell’ultimo ventennio, non suscitino nuove idee e bisogni immateriali, non contribuiscano a formare cittadini più civili, non esprimano pensieri e sapere, non stimolino interessi culturali. Perché, dunque, un tale successo? E un tale tipo di scrittore può correttamente autoproclamarsi intellettuale? Produce veramente letteratura?
Dunque, perché non ci sono che pochi scrittori italiani pubblicati? Per provare a rispondere a questa e ad altre domande su questa latitanza occorre, secondo me, prendere in considerazione la civiltà in cui lo scrittore nasce, cresce e si esprime poiché lo scrittore, come qualsiasi altro componente la società, ne è un prodotto. E occorrerebbe quindi analizzare la questione anche da un punto di vista sociologico, psicologico, antropologico e, soprattutto, politico ed economico. Il che, francamente, va al di là delle mie possibilità.
Una risposta parziale, a mio modo di vedere, si trova, in nuce, in una frase di Claudio Magris: “la vera letteratura non è quella che lusinga il lettore, confermandolo nei suoi pregiudizi e nelle sue insicurezze, bensì quella che lo incalza e lo pone in difficoltà, che lo costringe a rifare i conti col suo mondo e con le sue certezze”.
La frase citata, però, apre a sua volta una riflessione sulla società in cui viviamo, e più marcatamente su quella italiana: una società che cerca in ogni modo di evitare ai suoi componenti di dover fare i conti con il proprio mondo e con le proprie false certezze.

Heiko H. Caimi

La morte del romanzo; o la morte della realtà?

Foto di tom Monsterkoi

Riflettevo su un post che ho letto qualche giorno fa su facebook. Tema trito e ritrito sulla morte del romanzo e che questo non rappresenterebbe più il linguaggio attraverso cui comunicare il nostro tempo. Si citano al solito gli stessi scrittori, Joyce in primis: dopo di lui – a suffragio di questa tesi – non esisterebbe più nulla. Ci sono altri lignaggi espressivi quindi cui soccombere, che riuscirebbero a rappresentare l’epoca che viviamo.

Questa storia del romanzo morto la conosco da una vita, e un po’  la sostenevo pure io, soprattutto durante il periodo del master, quando la mia arroganza sfilava sotto i portici bolognesi rumoreggiando la sua pretenziosa verità.

Sbaglierò ma mi sembra un ragionamento piuttosto pretestuoso, che coinvolge pochi eletti, per lo più annoiati, inclini a mantenere le distanze con la guarnigione di lettori che nel romanzo trovano ancora il luogo migliore ove custodire una storia.

Romanzo morto è argomento da salotto, di un salotto liberale e conservatore.

Alessandro Magno si addormentava con il testo dell’Iliade e sognava epiche imprese come il suo idolo Achille, Don Chisciotte faceva lo stesso con i suoi romanzi cavallereschi e milioni di altre persone sognano grazie a questi blocchi di carta.

Piuttosto, penso, prima di parlare di morte del romanzo, bisognerebbe immunizzare la popolazione, a cominciare dalla nostra, attraverso la lettura; perché passare ad altri linguaggi, ipoteticamente più adatti a rappresentare la realtà, bypassando quello primordiale, nonché mitico, si finisce a far la sponda a istituzioni come la chiesa, che per secoli ci ha raccontato la parola di Dio in latino.

Identità

ovadia

Nella convinzione che la nostra identità sia aperta e interculturale e che la cultura sia comunicazione, scambio reciproco fra differenti forme, visioni e generi artistici, Inkroci, dopo un anno di vita, ha l’onore e il piacere di dedicare questo numero speciale a dare il benvenuto agli autori dell’Irish Writers’ Centre.

Il nostro amore per l’Irlanda e per la letteratura irlandese non sorprenderà i nostri lettori, che sicuramente ricorderanno la pubblicazione, in precedenti numeri della rivista, di un’intervista di Michele Curatolo a Catherine Dunne, di un racconto di Seumas O’Kelly, delle recensioni della sua raccolta di racconti Lungo le strade tradotta da Anna Anzani oltre che di due romanzi di Liam O’Flaherty, L’anima nera e Il traditore.

Una felice coincidenza ha voluto che il nostro primo contatto con IWC risalisse al 2010, anno in cui Dublino venne nominata Città UNESCO della Letteratura, come riconoscimento del suo alto profilo culturale e della sua reputazione internazionale come città dell’eccellenza letteraria. L’occasione fu la presentazione da parte di Catherine Dunne del suo romanzo Missing Julia (Tutto per amore). Nel 2011, ancora su invito della nostra amica Federica Sgaggio, abbiamo avuto l’opportunità di partecipare alla prima fase dell’Italo-Irish Literature Exchange, creato dalla collaborazione fra Catherine e Federica e attualmente gestito dall’Irish Writers’ Centre a dal suo omologo italiano, ònoma.

Quattro anni fa Inkroci era solo un’idea o, piuttosto, un sogno. Il nostro soggiorno a Dublino, e l’entusiasmo cordiale e gentile che abbiamo ricevuto all’IWC, hanno contribuito a farci credere che il sogno potesse realizzarsi. Ora Inkroci è una realtà piccola ma brillante: da marzo 2013 abbiamo infatti pubblicato sei numeri on-line della nostra rivista bilingue. Grazie all’IWC, ora abbiamo la possibilità di accrescere la qualità del nostro progetto.

Per evidenziare l’inizio della nostra collaborazione con l’IWC, nel numero 7 di Inkroci pubblichiamo racconti e poesie di sette autori irlandesi che l’IWC ha selezionato perché prendano parte alla prossima edizione di IILE, che si terrà in Italia (http://italoirish2014.blogspot.it/) nel prossimo giugno. La storia e il contesto di IILE e gli autori di quest’anno vengono presentati dalla Direttrice dell’Irish Writers’ Centre, Valerie Bistany, che ha stretti legami con l’Italia e che, con estrema gentilezza, ha sostenuto la nostra interazione. A partire dal prossimo numero, l’IWC curerà una nuova rubrica totalmente dedicata alla Letteratura irlandese, dal titolo Words from Ireland. Abbiamo inoltre in programma di dedicare a Words from Ireland un numero speciale l’anno prossimo.

Per dare ai nostri lettori l’opportunità di apprezzare compiutamente i contributi irlandesi, in questo numero le sezioni italiane sono state ridotte. Tuttavia, avendo recentemente celebrato il 25 Aprile e il 1° Maggio, abbiamo deciso di pubblicare la prima parte di una lunga intervista all’attore e drammaturgo italiano Moni Ovadia che, fra gli altri temi, affronta il significato di questi due eventi. Nonostante la mancanza di impegno politico e sociale che il nostro Paese sta sperimentando negli anni più recenti, noi li consideriamo ancora essenziali per la nostra idea di libertà e per la nostra visione della vita.

In questo numero inauguriamo anche un’altra nuova rubrica dedicata alla letteratura classica. Per questa particolare occasione proponiamo un altro racconto di Seumas O’Kelly.
Grazie perché ci seguite. Buona lettura.

Anna Anzani
Michele Curatolo

Editoriale

Cari lettori,

eccoci al numero di apertura del nuovo anno che ci auguriamo sia fecondo per tutti voi e per la rivista.
Nel 2015 ricorre un anniversario fondamentale per il mondo: è il settantesimo della fine della seconda guerra mondiale e, per l’Italia, è il settantesimo della liberazione dal regime fascista. Un’occasione che Inkroci intende ricordare e celebrare nel corso delle prossime pubblicazioni con diversi articoli a tema così come ha fatto, durante lo scorso 2014, per il centenario della Grande Guerra.
Ma in questo Editoriale vogliamo cogliere l’occasione per ricordare gli avvenimenti più importanti dell’anno appena terminato e per ringraziare sia chi ci ha seguito e apprezzato, sia chi ha dato il proprio contributo con passione e competenza.
Facendo seguito al suo primo evento pubblico, documentato nel bel video di Enola Brain:  https://www.youtube.com/watch?v=VCwKb0RwnzI), Inkroci ha organizzato altre iniziative ampliando la sua rete di contatti.
In marzo, in collaborazione con l’associazione culturale Don Chisciotte e con la casa editrice abrigliasciolta, presso la Sala Consiliare di Roncadelle (Bs), si è tenuto un incontro con Robert Viscusi, l’autore del poema del cambiamento Ellis Island e il traspositore Sandro Sardella.
Attraverso la nostra associazione culturale di promozione sociale Magnolia Italia http://www.magnoliaitalia.com/arte_cultura/), Inkroci è entrata a far parte della rete di associazioni che fanno capo alla Casa delle Associazioni e del Volontariato del Comune di Milano, in via Marsala: una risorsa preziosa di cui avvalerci per creare occasioni di incontro, di collaborazione e di pratica della cultura.
Inkroci è entrata anche nel Forum della Città Mondo del Comune di Milano, attraverso il quale ha avuto l’opportunità di partecipare a Bookcity Milano nell’ambito degli Scritti dalla Città Mondo; il 14 novembre 2014, nel prestigioso contesto della Palazzina Liberty, si è svolto World Crossinks – Inkroci col mondo: una riflessione sulla figura del migrante, il viaggiatore dell’anima, con la lettura di brani che esprimono il “tentativo di riappropriarsi delle cose, del linguaggio, di una realtà che sono quelli dell’“altro”, per dimostrare che la morale e l’esistenza sono esperienze interne a una cultura e sono mutevoli, piuttosto che esterne e assolute” (Anna Ettore). Ringraziamo la lettrice Camilla Zurru e il maestro Claudio Ballabio che l’ha accompagnata alla chitarra.
Claudio ha partecipato anche alla festa organizzata da Inkroci il 5 dicembre scorso in collaborazione con il circolo ARCI Caffè Letterario Primo Piano di Brescia, dove erano in mostra opere di Fausto Capitanio, Sam Franza e Pierfrancesco Sarzi Braga. Qui, insieme a Giacomo Campiglio (alla chitarra elettrica) e a Carmelo Buccafusca (al pianoforte), ha accompagnato le letture interpretate da Luca Bassi Andreasi, Manuela Mantoan, Stefania Mariotto e Biagio Vinella. La serata, molto partecipata, ha visto la presenza degli scrittori Silvia Accorrà e Giuseppe Ciarallo e, ancora una volta, ci ha dato la possibilità di sperimentare come l’interazione fra parole, immagini e musica riesca a creare momenti di forte intensità e bellezza. Sul canale youtube di Inkroci https://www.youtube.com/user/InkrociMagazine), dove è già possibile visualizzare alcuni video di presentazione della rivista, si darà conto di questi e di altri eventi.
Da ultimo, non certo per importanza, siamo molto onorati di ricordare che, a partire dal numero 7, Inkroci collabora con l’Irish Writer Center di Dublino, città UNESCO della Letteratura nel 2010, grazie al quale abbiamo la possibilità di accrescere la qualità del nostro progetto. IWC cura infatti una rubrica totalmente dedicata alla Letteratura irlandese, dal titolo Words from Ireland. È per festeggiare questa collaborazione e per ringraziare IWC e la sua direttrice Valerie Bistany per il suo appoggio e la sua amicizia che abbiamo deciso di dedicare questo numero interamente alla letteratura irlandese. Ringraziamo inoltre Martin Doyle, per averci dato il permesso di pubblicare una sua intervista a Lia Mills apparsa sull’Irish Times, e anche Lia Mills, Niamh MacAlister e William Wall, i cui pezzi ci hanno consentito di costruire questo numero.
Concludiamo cogliendo l’occasione per ricordare come Inkroci sia una rivista indipendente basata sull’attività volontaria dei membri della redazione e dei suoi collaboratori e per invitare quindi i nostri lettori ad aiutare Inkroci a esistere, sia leggendoci e cliccandoci, sia anche attraverso donazioni grandi o piccole, necessarie per coprire le spese di gestione del sito e della pubblicazione della rivista.
Grazie perché ci seguite. Buon 2015 e buona lettura.

Editoriale

Cari lettori,

benvenuti al nostro terzo numero. Siamo felici che l’elenco di persone ringraziate pubblicamente nell’editoriale n. 2 si sia allungato per il contributo di professionisti che, con entusiasmo e competenza, stanno collaborando all’uscita di questa rivista. Senza riuscire a nominare tutti, esprimiamo estrema gratitudine a chi ci sta sostenendo, permettendoci di crescere e di arricchirci di nuovi contenuti.

Inkroci è nata dall’incontro fra persone che condividono la passione per la lettura, il desiderio di raccontare, la voglia di fare cultura, cioè di creare occasioni per entrare in relazione con la comunità sociale, ricercando trasversalità fra diverse forme, visioni e generi artistici. Questo è anche il progetto narrativo che guida l’articolazione delle nostre rubriche.
La scrittura si sviluppa innanzitutto con la sezione “Racconti”, nucleo essenziale del nostro periodico. Crediamo nell’opportunità di riscoprire questa forma letteraria, meno frequentata in Italia che altrove: in ogni numero pubblichiamo cinque racconti, di cui uno lungo, con un occhio di riguardo a esordienti d’eccezione e a opere di autori stranieri, poco note in Italia. Non ci poniamo limiti di genere, ma soltanto di qualità.

La sezione “Interviste” è uno spazio dove conoscere chi ha fatto della letteratura il fulcro della propria vita e del proprio lavoro, qualunque sia la forma artistica che ha scelto. In un incontro dal vivo con l’autore o attraverso le sue opere, come nelle “Interviste impossibili” che inauguriamo in questo numero, concretizziamo il piacere della conoscenza e dello scambio, la curiosità e la scoperta di pensieri vicini o distanti.

La scrittura continua il suo viaggio e diventa analisi, riflessione, confronto e speranza in “Letterature”.
La rubrica “Letterature dal mondo”, curata da Anna Ettore, porta i risultati di una ricerca volta a esplorare narrazioni poco note o dimenticate, dando spazio e proponendo un avvicinamento a opere e autori che spesso da noi sono immeritatamente considerati gli ultimi.
Con “Parole di celluloide” abbiamo scelto di affrontare il connubio artistico riuscito fra un’opera letteraria e il film che ne è stato tratto: una storia che ne genera un’altra, una forma che ne assume un’altra.

“Sogni di carta”, spazio curato da Heiko H. Caimi, riguarda l’esperienza intima dell’incontro con la lettura o con la scrittura, attraverso lo sguardo in soggettiva dei singoli autori: un mondo interiore di sentimenti, domande e desideri intorno al senso di una passione.

“Il pensiero verticale” è una nuova rubrica curata da Sara Di Girolamo che presenta libri e video rilevanti di genere esoterico o, in senso più ampio, titoli per la mente, il corpo e lo spirito.

Le “Recensioni” sono un classico dei periodici di cultura e, naturalmente, non volevamo farcele mancare. Nello spirito che anima la rivista abbiamo scelto di introdurre una rassegna che contempli la maggioranza delle arti della narrazione, cioè libri, cinema e musica.
Nella sezione di apertura “Attenti al libro!” analizziamo ogni volta quattro differenti libri che riteniamo, di spicco. Sono i nostri “consigli o sconsigli per l’acquisto”.

Proseguiamo con “Making movies”, spazio dedicato a film più o meno noti e che riteniamo valga la pena di recuperare e (ri)vedere. Nel “Frullacinema”, rubrica curata da Gino Udina, indichiamo invece due pellicole appena uscite (o di prossima uscita) in formato DVD.

“Formidabili, quei dischi!” tocca il campo della musica, alla ricerca di quei dischi fondamentali e storici che hanno e che, ancora oggi, rappresentano a nostro parere una grandiosa esperienza dell’ascolto.
Infine, le dieci “Recensioni bonsai” commentano in breve libri vecchi e nuovi, perché riteniamo che di libri non si dialoghi mai abbastanza e che, nella congerie di pubblicazioni disponibili sul mercato, sia importante offrire ai nostri lettori, i primi dei quali siamo noi stessi, la possibilità di riflettere su un panorama che cerchiamo di rendere il più articolato possibile.

Ma poiché la narrazione si concretizza anche in forma non scritta, Inkroci ha scelto di esprimersi anche attraverso le immagini. Con le illustrazioni di Samantha Franza e degli altri autori e con le opere dei nostri fotografi nella sezione “Fotografarte” offriamo prospettive diverse per incontrare il mondo e i mondi, attraverso le voci dell’arte per vivere, vedere e sentire la cultura con lo sguardo più aperto e dialogante possibile.
Dulcis in fundo, per varcare le frontiere, la nostra rivista esce anche in inglese. Ma questa è una storia che vi racconteremo un’altra volta.

Buona lettura

la Redazione

Afric McGlinchey – Il dovere di una giuria letteraria: perché la recensione è importante.

Afric McGlinchey

Immagino che molti recensori siano essi stessi poeti. Molti di noi conoscono la sensazione di cuore in gola nell’attesa del verdetto del critico, quello che potrebbe influenzare le percezioni del nostro lavoro. E siamo iperconsapevoli del fatto che è un risultato assolutamente da pubblicare; che la maggior parte dei libri di poesia non vendono più di qualche centinaio di copie, e una recensione negativa potrebbe influire negativamente anche su quei piccoli numeri. Inoltre, dal punto di vista dell’autoconservazione, c’è il rischio della rappresaglia! Ricordo Derek Mahon che diceva di aver scritto una volta una recensione critica. Vent’anni dopo, una sua opera fu rappresentata nel West End. La mattina seguente apparve sul giornale una recensione che era così schiacciante, che la pièce dovette essere chiusa. Avete indovinato – lo stesso poeta. Il piatto freddo della vendetta! Il consiglio di Mahon era: non essere un recensore, se sei un poeta!

Ma se i poeti non scrivessero recensioni, chi lo farebbe?

Joel Brouwer ha detto che i poeti hanno la responsabilità di scrivere commenti seri e saggi sui loro contemporanei, anche quando la prospettiva sembra scoraggiante. “Chiamatelo un dovere di giuria letteraria”, disse.

Anche così, che campo minato è! Ovviamente, potremmo tutti elogiare l’uno il lavoro dell’altro in maniera effusiva, ma sarebbe utile? Sicuramente è responsabilità del recensore identificare e promuovere la buona poesia il più possibile. Come disse una volta Douglas Duncan: “Una critica onesta, descrittiva, dettagliata e chiarificatrice mantiene la poesia in buona salute – è l’erbicida della poesia e, nella misura in cui incoraggia il meglio della scrittura, può nutrire anche la poesia”.

Questo è il motivo per cui è importante che un revisore acquisisca una reputazione di integrità, correttezza e, soprattutto, capacità di riconoscere la buona poesia. È una cosa che richiede tempo. Ho scritto oltre 45 recensioni per Sabotage (così come una dozzina di altre per riviste diverse), e direi che sto ancora imparando.

Ovviamente nessuna raccolta è perfetta, e nessun recensore di valore scriverà una recensione brillante senza avere una singola riserva. Come poeta, quello da cui imparo di più sono le critiche. Le debolezze identificate da un recensore, se supportate da prove, possono essere di enorme valore nell’allertare un poeta sui propri tic stilistici o semantici. Certo, uno può sempre ricordare a se stesso che è solo l’opinione di un individuo, e sentirsi libero di non essere d’accordo!

È una strada a doppio senso, essere un recensore. Ho un debito di gratitudine con tutti i poeti che ho recensito, perché ho imparato molto, come poeta, studiando il loro lavoro, imparando sia dai loro punti di forza che dalle loro debolezze.

Uno dei motivi per cui inizialmente ho scelto di scrivere per Sabotage è che potevo evitare le insidie ​​che derivano dal conoscere un poeta di cui si sta esaminando il lavoro, un particolare pericolo nella nostra piccola comunità di poesia irlandese. Di solito, non ho mai sentito parlare dei poeti che sto recensendo, quindi posso essere completamente imparziale. È anche facile essere influenzati dalla reputazione, quindi tendo a non cercare su Google e a concentrarmi solo sul lavoro.

Sabotage Reviews è una piattaforma fantastica, non solo per i poeti, ma anche per i recensori, per affinare le loro capacità critiche. Claire Trévien è una editor eccezionale e ha creato una rivista che ha una meritata reputazione per la qualità delle sue recensioni. L’anno scorso il suo apprezzamento per la lunga lista di revisori di Sabotage ha portato all’idea di questo premio.

Essere selezionata come seconda classificata per il Premio dei Recensori dello scorso anno è stata una vera spinta alla mia autostima come critico. Proprio come è gratificante per i poeti, è importante che anche i recensori ottengano una validazione. Questo premio dà valore al tempo e allo sforzo necessari, così come alla sensibilità e all’abilità indispensabili per valutare il lavoro dei colleghi. E per questo, vorrei ringraziare Claire Trévien e il suo team in crescita presso Sabotage.

22 marzo 2015

La raccolta di Afric McGlinchey, The lucky star of hidden things (La fortunata stella delle cose nascoste), è stata pubblicata da Salmon Poetry nel 2012. Tra i successi ricordiamo l’Hennessy Emerging Poetry Award per il 2010, Editors Choice per il Premio Nord Liberties 2012 (USA) e il Poets Meet Politics per il 2015. Afric è attualmente poeta residente presso l’Uillinn Arts Centre, West Cork. Di recente ha ricevuto una borsa di studio del Consiglio della Contea di Cork per consentirle di completare la sua seconda raccolta, Ghost of the Fisher Cat (2016). www.africmcglinchey.com – Twitter: @itosha

Traduzione di Silvia Accorrà

Editoriale – Inkroci Giugno

Ed eccoci al secondo numero. Un’uscita fatidica, perché quando si partorisce il numero uno di una rivista letteraria si desidererebbe condividerlo con il maggior numero di persone; si vorrebbe, insomma, che la prima uscita non dovesse scomparire, sostituita com’è logico da quelle successive. Di lettori ne abbiamo avuti moltissimi, più del previsto, ma ci piacerebbe che il passaparola li aumentasse esponenzialmente prima di dare in pasto al pubblico la nuova creatura. Allo stesso tempo, però, la nuova uscita è segno di buona salute, di un progetto che va avanti e desidera crescere, che non si aspetta di essere ricordato solo per come si è presentato la prima volta; di un progetto che vuole affermare il proprio carattere e le singole personalità che lo compongono per un tempo il più longevo possibile.

Per questo continueremo a dare spazio sia a nomi noti (in questo numero Giuseppe Ciarallo, Catherine Dunne, Jack London) che a esordienti, senza scordare i contributi fondamentali della redazione e dei traduttori, che sono la spina dorsale di “Inkroci”.

Vorrei pertanto cogliere questa seconda occasione per ringraziare pubblicamente tutte le persone che hanno collaborato alla realizzazione di Inkroci, a partire da Chiara Canova e Robert Mardle, che hanno supervisionato tutte le traduzioni e hanno dato un apporto generoso ed entusiasta; per proseguire con Giovanni Poli, il nostro webmaster, che si è scapicollato per permetterci di essere presenti on-line nei tempi previsti; per arrivare a tutti i membri del Comitato di Lettura, che, accollandosi il paziente esame di innumerevoli racconti, ci permettono di scegliere quali presentare in ogni numero. E, ultimi ma non in ordine di importanza, a coloro che hanno collaborato con “Inkroci” fin dal suo primo vagito, contribuendo a realizzare il nostro progetto: Gianfranco Caimi, Giuseppe Ciarallo, Ludovica Gazzé, Fausto Capitanio, Michele Larotonda, Rossella Manzo, Rita Marinelli, Sara Sagrati, Davide Verazzani, Laura Zanoli.

Inoltre un ringraziamento speciale a coloro che ci prestano le loro opere a titolo gratuito, permettendoci di arricchire la rivista delle loro firme, e agli autori che si sono resi disponibili ad essere intervistati.

Dal prossimo numero questo spazio sarà occupato da altri argomenti, ma questa volta vorrei approfittarne per ringraziare anche tutti coloro che, dopo l’uscita del primo numero, hanno voluto farci pervenire un commento sul nostro operato; l’elencazione sarebbe davvero lunga, per cui ci limitiamo, nostro malgrado, a un ringraziamento generalizzato agli scrittori, agli sceneggiatori, agli addetti ai lavori, agli amici e ai lettori che ci hanno dato testimonianza del loro apprezzamento e che ci hanno incoraggiato a proseguire nella nostra impresa. Grazie a tutti.

E grazie soprattutto ai tanti lettori che ci hanno visitato e che speriamo vorranno restare con noi anche per il futuro.

Buona lettura,

                                                                                        Heiko H. Caimi

Editoriale – Inkroci n. 1 – Marzo 2013

Eccoci qui per la prima volta insieme.
Prima di tutto, come la buona educazione impone, presentiamoci.
Al momento stai leggendo il primo numero di una nuova rivista on-line che si chiama Inkroci. Non ci conosciamo ancora, ma speriamo tu possa passare momenti piacevoli in nostra compagnia, attraverso la lettura di racconti inediti, interviste, recensioni e consigli di lettura.
Ma perchè Inkroci? Domanda legittima, ma ambigua e che richiede più risposte.
Da una parte c’è il motivo per cui abbiamo deciso di lanciarci in questa nuova avventura e dall’altra andrebbe spiegata la scelta del nome. Ma andiamo con ordine.
Inkroci nasce dall’esigenza di fare cultura. Sì, lo so, sono paroloni e sembra anche ce la stiamo tirando. Com’è possibile assumersi tale ruolo? E che superbia! Vero, ma dipende da che cosa si intende con la parola cultura. In un periodo di crisi economica la cultura sembra un bene accessorio e invece è fondamentale per una società moderna che voglia svilupparsi.
Fare cultura vuol dire osservare il mondo e immaginare qualcosa di nuovo, significa partecipare attivamente alla vita sociale, al riconoscimento dell’identità, della dignità e della memoria come valori fondanti dell’esistenza individuale e collettiva (George Orwell). Quindi non si tratta di superbia, ma di una necessità.
Allora perché proprio una rivista letteraria? Si dice sempre che in Italia ci siano più persone che scrivono di quante siano quelle che leggono. Vero, però quanti sono gli scrittori validi che non riescono a farsi leggere da nessuno? Impossibile a dirsi, ma per la legge dei grandi numeri immaginiamo che i talenti incompresi siano molti.
Noi ci auguriamo di poter essere loro d’aiuto, allietandoti, caro lettore, con racconti nuovi e originali. Abbiamo scelto la forma del racconto, innanzitutto perché si accosta bene alla distribuzione on-line, e poi perché nel nostro Paese questa forma narrativa non ha mai raggiunto, purtroppo, una vera e propria dignità letteraria.
Ma non ci saranno solo le storie inedite.
Sì perchè, e qui si torna a “faggiuolo” sulla scelta del nome, Inkroci non è solo scrittura, ma anche contaminazione di generi ed esperienze. Parlare di cultura vuol dire anche andare al cinema, ascoltare musica, scattare fotografie, incontrare persone, porsi delle domande e, a volte, semplicemente bersi un caffè. Questo è ciò che vorremmo essere e che speriamo ci aiuterete a diventare: attori di cultura, attraversatori di incroci, autori di contaminazioni e sollevatori di dubbi.
Quindi piacere di conoscerti caro lettore, nella speranza che vorrai inkrociarci ancora e continuare il cammino con noi.
Allegramente.

Frontiera

il lavoro del traduttore

Crossing the border: varcare la frontiera, attraversare il confine.
Un interprete, come un traduttore, è sempre un simbolico confine: si pone  tra due individui e due mondi, tra due culture che si stanno incontrando. Spesso chi parla non se ne accorge, come chi attraversa una frontiera non necessariamente vede linee tracciate sul terreno. Ma è proprio lui la linea che permette a due mondi di differenziarsi e di comunicare.

Non esiste un’interpretazione letterale, altrimenti non si chiamerebbe interpretazioneInterpretare invece è una parola che parla di prodigi: significa raggiungere la comprensione di qualcosa che è oscuro, decifrarlo e farlo comprendere agli altri, attraverso la conoscenza e affidabilità della persona che deve eseguire il compito  .

Si interpretano i sogni, le opere teatrali, i fenomeni misteriosi, i presagi e le profezie, così come si interpretano le lingue sconosciute. Non esiste un’interpretazione testuale: esiste solo un’interpretazione fedele; sapendo che, comunque, chi traduce tradisce, perché in ogni caso sceglie un significato e un senso abbandonandone altri possibili. Ma inevitabilmente il passaggio da una lingua a un’altra, da un mondo di significati a un altro vuol dire fare una scelta e assumersi una responsabilità.

Il traduttore, ogni volta, costruisce con le proprie parole un ponte che permette a individui a volte molto, molto lontani di incontrarsi a metà, o almeno in un punto più vicino; perché tradurre comporta, come è nella sua origine latina, trasportare, trasferire, portare al di là, e così far muovere significati e vite su questo ponte simbolico per arrivare da un luogo ad un altro, per essere ugualmente espressi e compresi.

Per questo motivo non sono necessarie soltanto doti linguistiche per essere in grado di affrontare questo compito, ma anche doti, direi, piuttosto magiche. Un buon interprete è necessariamente ricco di  sensibilità, sa leggere i silenzi e le espressioni, possiede  cultura ma forse, in maggior misura, tutta la curiosità che gli permette di mettersi in gioco, di scoprire e ricredersi su ciò che già sapeva, senza temere il dubbio. Sa nuotare in correnti di significato che minacciano di ribaltarlo e muoversi sul filo di un equilibrio instabile, sa respirare a fondo e aprirsi al nuovo, con la sacralità di un rito che mette in contatto l’essenza di due esseri umani.

Interpretare e tradurre in fondo sono come scrivere: tracciare linee permanenti di parole, nell’aria che le veicola o sulla carta che le imprigiona per sempre.

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