Cari lettori,
nel darvi il benvenuto al nostro numero 5, cercherò di raccontarvi le ragioni di una scelta che ha reso Inkroci una rivista bilingue, cogliendo anche l’occasione per riflettere sul senso di quello che facciamo. Come tutti gli argomenti di un certo interesse, il tema si presenta complesso e può essere utile provare ad affrontarlo attraverso spunti di riflessione e sguardi differenti.
Una considerazione spontanea riguarda il legame strettissimo fra la lingua e la cultura. Secondo la definizione data da UNESCO (1970), a cui la nostra rivista si ispira, la cultura è un processo di comunicazione tra gli uomini, che esistono in quanto sono in relazione con gli altri. Osservando che l’inglese è ormai diventato una lingua franca per la comunicazione internazionale, siamo convinti che il suo uso ci permetta di raggiungere un numero maggiore di lettori e quindi ci dia la possibilità di agire con maggiore intensità e compiutezza la pratica della cultura.
Per tendere a questo obiettivo, non sarebbe bastato che la rivista uscisse solo in inglese?
Rispondiamo con le parole di Nelson Mandela: «parlare a qualcuno in una lingua che comprende consente di raggiungere il suo cervello. Parlargli nella sua lingua madre significa raggiungere il suo cuore». Inkroci si muove in campo letterario, con l’ambizione di costruire dialoghi, di condividere la rappresentazione di esperienze, di ampliare l’intersoggettività e di fare sperimentazioni sull’uso della parola. Poiché fra pensiero e linguaggio esiste un rapporto bidirezionale, riteniamo che promuovere la scrittura nella lingua dei nostri pensieri e delle nostre emozioni sostenga la qualità e la pregnanza dei nostri testi.
Inkroci non è insensibile alle sfide poste dall’internazionalizzazione, auspicata in molti ambiti dell’educazione e della ricerca, ma preferiamo attribuire a questo concetto il significato di multilinguismo e diversità culturale, declinandolo nello spazio che Inkroci dedica a una rubrica intitolata Letterature dal mondo, in cui si possono trovare anche pezzi in lingue diverse.
Questa scelta implica, di conseguenza, che Inkroci si cimenti con l’impegno di tradurre i propri testi dall’inglese o in inglese. Identificando la qualità della scrittura con la sintesi e l’asciuttezza, personalmente trovo grande soddisfazione nell’avvicinarmi alla lingua inglese. Per tradurre letteratura occorre essere appassionati. Come sappiamo, il termine passione ha in sé l’idea di patire. Ricordo lo studio dell’inglese alla scuola elementare come un’esperienza di estrema fatica. Forse proprio la fatica nel comprendere si è poi trasformata nel suo opposto, nel desiderio di chiarificare e rendere accessibile, a me stessa prima che agli altri, quindi nell’amore per la traduzione che in fondo è un amore per la parola, condiviso con tutto il gruppo di Inkroci.
La traduzione è una forma di conoscenza, un atto comunicativo e il luogo di un incontro dove si dissolvono le distanze nello spazio e nel tempo, dove si compiono la scoperta dell’altro e la coscienza di sé, rintracciando i fili della propria identità. Secondo Italo Calvino «tradurre è il vero modo di leggere un libro».
Naturalmente una lingua non è fatta solo di parole e l’atto del tradurre, come sostiene Umberto Eco, non è unicamente trasposizione da una cultura a un’altra, ma anche adattamento di contenuti preesistenti a contesti cambiati o mai esistiti prima. Questo è lo spazio della sfida, della bellezza e della libertà, un atto forzosamente imperfetto (http://cartaecalamaio.com/2012/07/09/lannosa-questione-del-tradurre-e-tradire/). In questo spazio trovano gratificazione il lavoro di cesello, l’attenzione al dettaglio, alla virgola, alla sfumatura, nella convinzione che forma e sostanza siano due polarità che richiedono di stare in perfetto equilibrio.
Milan Kundera, che ha sempre rivisto e corretto le traduzioni dei suoi libri con un accanimento ossessivo, ha scritto: «Si dice: la traduzione è come la donna: o è fedele o è bella. È l’adagio più stupido che conosca. Infatti, la traduzione è bella se è fedele».
Per concludere, mi piace citare un’intervista (sul nostro n. 2) in cui Erri De Luca descrive come l’esercizio di precisione, spinto da un sentimento di ammirazione per l’altra lingua, permetta di radicarsi nel proprio vocabolario: «Quando qualcuno mi chiede come si fa a diventare scrittore, io rispondo tranquillamente: diventando prima traduttori».