C’è una nuova categoria di “geni” tra di noi: quella degli scrittori che, con straordinaria presunzione, vantano il fatto di non leggere una riga di altri autori. Alcuni si spingono oltre, affermando addirittura di non aver mai sfogliato un libro in vita loro (forse hanno dimenticato le letture della scuola dell’obbligo), come se questo li rendesse puri, incontaminati, quasi mistici creatori di parole mai influenzate dall’ingombrante peso della letteratura, quella nostrana come quella mondiale.
Questi autori sono, evidentemente, dotati di un innato dono divino, capace di plasmare storie dal nulla, senza doversi sporcare le mani con quella fastidiosa attività chiamata “leggere”. Perché mai dovrebbero farlo? In fondo, chi ha davvero bisogno di confrontarsi con la maestria di un Dostoevskij o la poesia di una Dickinson? Che utilità potrebbe mai avere cogliere i mille modi diversi in cui si può costruire una trama, caratterizzare un personaggio o dare ritmo a una narrazione? No, no. Meglio ignorare tutto questo e scrivere liberamente, come si dice, “di pancia”. Buona la prima, avanti con un nuovo capitolo!
Poi c’è una sottocategoria ancora più raffinata: quella di chi teme di contaminare la propria “purezza artistica” leggendo altri autori. Il rischio, a sentir loro, sarebbe quello di smarrire l’originalità, di inquinare la propria inconfondibile e originalissima “voce”, come se bastasse aprire un libro di Calvino e puf, ecco che il loro genio creativo si dissolve in un’eco di imitazione. Certo questo presuppone una fragilità artistica di una delicatezza quasi commovente: basta una riga di Saramago, e la loro “voce” si perde nel mare delle influenze altrui. Poveretti!
Naturalmente, questa fobia della contaminazione ignora secoli di storia dell’arte e della scrittura, dove i più grandi non solo leggevano avidamente, ma si contaminavano ben volentieri: si arricchivano e creavano capolavori proprio attraverso le influenze reciproche. Immaginiamo Picasso, nella sua fase cubista, che teme di “contaminarsi” studiando le maschere africane. O Joyce, che decide di non leggere l’Odissea per evitare che il suo Ulisse venga influenzato da quel tale Omero.
La verità è che scrivere senza leggere è come voler diventare chef senza mai assaggiare un piatto. Lontano dall’essere un atto di coraggio o di originalità, è un percorso sicuro verso la mediocrità, nel quale l’unica contaminazione possibile è quella del proprio vuoto creativo. E la prossima volta che questi aspiranti letterati sentono il richiamo della penna, forse sarebbe meglio si dessero a un’attività più soddisfacente, in cui la penna non serve proprio. Il lancio delle freccette, per esempio.
Ma, per rimanere nei cliché più vieti, solitamente molto cari a questo genere di autori, potrebbero darsi all’agricoltura, o fare gli impiegati alle poste. Con buona pace di queste categorie, naturalmente, visto che tra loro sono nati autori come John Steinbeck, che prima di diventare uno dei più grandi scrittori mondiali ha lavorato come bracciante agricolo in California, o Charles Bukowski, che ha trascorso anni nel “Post office” che ion seguito ha ispirato il suo omonimo romanzo.
Steinbeck, tra un campo e l’altro, trovava persino il tempo per leggere una vasta gamma di testi, dalla letteratura classica alla filosofia, passando per la scienza, assorbendo influenze che hanno arricchito la sua comprensione della condizione umana. Bukowski, nonostante la sua immagine da poeta maledetto, era un lettore vorace: Dostoevskij, Hemingway e altri giganti della letteratura lo ispiravano profondamente, senza mai soffocare la sua inconfondibile voce.
Ecco quindi il paradosso: la lettura non li ha “contaminati”, anzi, ha reso più forte e originale la loro visione del mondo. Ma come lo spieghi a chi è troppo pigro per leggere e troppo pieno di sé per confrontarsi con gli altri autori?
P.S. Mi verrebbe la tentazione di rititolare questo articolo: “Braccia strappate alle freccette”.