La vita in diretta è come la morte

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La vita in diretta è la morte di un autore, ché qualcuno deve pur scriverli quei testi abominevoli: telenovele a base di sentimenti, giocare sulla pelle delle persone, dispensando musica, lacrime e abbracci. Ed eccoci qui anche oggi tra figli dispersi e madri abbandonate, santoni che soggiogano povere menti abbindolate, abbracci disperati, angosciosi lamenti. Verrebbe da piangere anche a me davanti a questo spettacolo impietoso che guardo con un occhio solo mentre provo a leggere L’assassinio del commendatore, ma mia madre non vuol spegnere quel fastidioso sottofondo, preferisce sprofondare tra il dolore in diretta e la morte annunciata. La mia tristezza è solo per gli autori – meglio la banca, mio Dio, meglio la banca! – che magari vorrebbero fare gli scrittori e son costretti a scrivere certe sceneggiature, persino a inventare quando la realtà non è abbastanza tragica.

Ecco il melenso presentatore che s’indigna, finge dolore e compassione a caccia di audience per le sue vite che si sgretolano in diretta. Pare un barboncino, il triste imbonitore che intervista e lancia collegamenti in diretta verso la tristezza. Tito Stagno del dolore che fa partire un razzo verso il cuore e lo perfora tra lacrime e rancore; lacrima movie del Duemila dove ogni giorno muoiono bambini, scompaiono ragazzi, si uccidono ragazzine. E il nostro barboncino, tutto sdegno, sconforto e preoccupazione, si getta a capofitto nel marasma, scava a mani nude, ti consegna il dolore, te lo fa palpare. Sorrisi melliflui, lacrime finte, cercando sguardi tristi, allampanati, per fare ascolti con lacrime vere di chi cade nella trappola di questa televisione a base di dolore.

E nel finale il sangue di San Gennaro si scioglie in pettegolezzi da rotocalco anni Duemila, la sola stampa che si vende ancora, continuando la meraviglia di quel che siamo diventati, cercando di capire il perché di quel che ci è accaduto. Non eravamo così, almeno non ricordo, ma ci sta che sia tutto un triste dipanarsi di realtà secondo meccanismi consueti, forse solo ricordando il passato restano cose da salvare. Lo spero proprio.

 

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Gordiano Lupi (Piombino, 1960), Direttore Editoriale delle Edizioni Il Foglio, ha collaborato per sette anni con La Stampa di Torino. Ha tradotto i romanzi del cubano Alejandro Torreguitart Ruiz e ha pubblicato numerosissimi volumi su Cuba, sul cinema e su svariati altri argomenti. Ha tradotto Zoé Valdés, Cabrera Infante, Virgilio Piñera e Felix Luis Viera. Qui la lista completa: www.infol.it/lupi. Ha preso parte ad alcune trasmissioni TV come "Cominciamo bene le storie di Corrado Augias", "Uno Mattina" di Luca Giurato, "Odeon TV" (trasmissione sui serial killer italiani), "La Commedia all’italiana" su Rete Quattro, "Speciale TG1" di Monica Maggioni (tema Cuba), "Dove TV" a tema Cuba. È stato ospite di alcune trasmissioni radiofoniche in Italia e Svizzera per i suoi libri e per commenti sulla cultura cubana. Molto attivo nella saggistica cinematografica, ha scritto saggi (tra gli altri) su Fellini, Avati, Joe D’Amato, Lenzi, Brass, Cozzi, Deodato, Di Leo, Mattei, Gloria Guida, Storia del cinema horror italiano e della commedia sexy. Tre volte presentato al Premio Strega per la narrativa: "Calcio e Acciaio - Dimenticare Piombino" (Acar, 2014), anche Premio Giovanni Bovio (Trani, 2017), "Miracolo a Piombino – Storia di Marco e di un gabbiano" (Historica, 2016), "Sogni e Altiforni – Piombino Trani senza ritorno" (Acar, 2019).

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