Un mondo di storie sterilizzate: verso l’imposizione di una narrativa asettica

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Immaginatevi un mondo in cui le storie sono lisce, come la carta patinata di una rivista per famiglie, nella quale nessuna riga osa sporcare la morale collettiva e ogni frase è passata al setaccio per assicurarsi che non vi sia nulla di irritante, scomodo o, Dio ce ne scampi, provocatorio. Ecco il paradiso immaginato dai fanatici del politicamente corretto: un circo di narrazioni insipide, pettinate e prive di un vero scopo, perché l’unico scopo che costoro concepiscono è non urtare nessuno, mai.
Negli ultimi anni, sempre più voci si alzano per chiedere agli scrittori non soltanto di scrivere “come si deve”, come “autori ammodo”, ovvero aderendo a manifesti di moralità e correttezza politica di una rigidità quasi clericale. Gli scrittori, dicono, devono dare l’esempio e plasmare il mondo con le loro storie: e per farlo, non devono osare oltrepassare i confini stabiliti. Basta un personaggio “scomodo” o un linguaggio più crudo per fare il salto dalla letteratura alla “scandalo”. E questo, secondo loro, va evitato a tutti i costi. Ma che tipo di letteratura potrà mai nascere sotto questi vincoli? La risposta è semplice: una letteratura timorosa, tremebonda, priva di ardimento e di libertà, senza punte e senza spine, senza ombre e senza ambiguità.
Questi “giustizieri della sensibilità” vorrebbero che gli autori stessi si autocensurassero, imponendo loro di seguire “manifesti” preconfezionati, come dovessero trasformarsi in maestrini intenti a costruire opere rigorosamente conformi ai dettami di una morale collettiva. In altre parole, la letteratura dovrebbe essere come una linea di prodotti: omologata, controllata e pronta per la distribuzione “sicura” ai consumatori, dove nulla, davvero nulla, dovrebbe causare “disturbo”. Ma dove finisce l’arte, in questo processo? Dove si nasconde la libertà, se non è permesso sbagliare, disturbare, fare provocazioni, creare ambiguità?
Se un libro turba, disturba o addirittura irrita, ebbene, questo è proprio quel che dovrebbe fare, perché è ciò che permette al lettore di riflettere, di crescere, di conoscere il mondo per com’è, anche nei suoi aspetti più scomodi e scabrosi. Siamo davvero sicuri di preferire personaggi somiglianti a marionette, a educande allineate nelle loro divise tutte uguali per compiacere un pubblico di anime “delicate”? Se così fosse, dovremmo abbandonare molti grandi capolavori del passato. Dovremmo riscrivere Dostoevskij, eliminare Kafka, sgonfiare Dante di ogni infernale crudezza, ripulire Wilde da ogni ironia pungente, bruciare Bukowski sulla pubblica piazza e, per la carità, non pensare neanche di pubblicare Orwell. Dovremmo svuotare le biblioteche, lasciandoci dietro solo manuali di buon comportamento travestiti da romanzi.
In questo regime della sensibilità estrema, perfino le parole vengono messe sotto processo, quasi fossero dei criminali. I “termini inappropriati” devono sparire, i “temi delicati” vanno annacquati, e ogni autore che osi sgarrare sarà tacciato di lesa morale, colpevole senza processo. Perché loro sono “i migliori”, e tutto ciò che propugnano è sacro e incontestabile.
Siamo finiti in un’epoca grottesca in cui le parole diventano sorvegliate speciali, strumenti che, se non pesati con il bilancino, rischiano di scatenare condanne, campagne d’odio e, peggio ancora, autocensure da parte di chi, per paura del linciaggio, preferisce ammorbidire le proprie idee.
Ma davvero qualcuno può credere che basti un filtro linguistico per proteggere il mondo dalla complessità? Forse è ora di ricordarci che l’arte non nasce per rassicurare, ma per sfidare, per rivelare e per creare. Non per addolcire la realtà, ma per mostrarla nuda e cruda, come sanno fare i grandi narratori, quelli che si rifiutano di scrivere storie asettiche e illusorie e che insistono invece a presentare personaggi e situazioni che vivono, sbagliano e gridano le proprie contraddizioni.
D’altronde, è davvero così difficile capire che nessuno è obbligato a leggere ciò che lo disturba? Non ti piace un libro? Basta non aprirlo, invece di scagliare inutili quanto becere crociate contro autori ed editori. Un atto di libertà sarebbe proprio quello di lasciar libera anche la letteratura. Sì, perché i veri bigotti sono coloro che si ergono a difensori di una “letteratura pulita” e senza eccessi, priva di rischi e di sorprese.
Allora, lasciamo la letteratura libera di essere quello che è sempre stata: un territorio selvaggio, e per certi versi pericoloso, in cui ogni lettore sa che non troverà soltanto conferme e conforto, rassicurazioni e liete fini, ma anche domande scomode, risposte non richieste e, talvolta, profonde inquietudini. È qui che la letteratura diventa più vera e, soprattutto, più umana: nel raccontare il bello e il brutto, il giusto e l’ingiusto, senza doversi scusare con nessuno. Perché non nasce per compiacere, ma per far riflettere. E chi preferisce fiabe asettiche, innocue e conformi, può sempre leggere le etichette dei prodotti sugli scaffali: quelle, di certo, non urtano nessuno.

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Heiko H. Caimi, classe 1968, è scrittore, sceneggiatore, poeta e docente di scrittura narrativa. Ha collaborato come autore con gli editori Mondadori, Tranchida, Abrigliasciolta e altri. Ha insegnato presso la libreria Egea dell’Università Bocconi di Milano e diverse altre scuole, biblioteche e associazioni in Italia e in Svizzera. Dal 2013 è direttore editoriale della rivista di letterature Inkroci. È tra i fondatori e gli organizzatori della rassegna letteraria itinerante Libri in Movimento. ha collaborato con il notiziario "InPrimis" tenendo la rubrica "Pagine in un minuto" e con il blog della scrittrice Barbara Garlaschelli "Sdiario". Ha pubblicato il romanzo "I predestinati" (Prospero, 2019) e ha curato le antologie di racconti "Oltre il confine. Storie di migrazione" (Prospero, 2019), "Anch'io. Storie di donne al limite" (Prospero, 2021) e, insieme a Viviana E. Gabrini, "Ci sedemmo dalla parte del torto" (Prospero, 2022) e "Niente per cui uccidere" (Calibano, 2024). Svariati suoi racconti sono presenti in antologie, riviste e nel web.

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