David Butler – Verità domestiche

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È l’aria che ti colpisce, appena metti piede oltre la porta. La gola soffoca, proprio come l’ultima volta, e come la prima. Rifiuta la tiepida atmosfera disinfettata su cui galleggia una traccia di incontinenza.
Qui tutto il cibo deve essere cotto al vapore.
Superi la postazione delle infermiere, lungo il corridoio già familiare. La calendula e i lillà, i murales sbarazzini come se fosse tutta una parodia di un asilo. Passi le figure d’ombra, le loro bocche spalancate.
Almeno la camera ha qualche pretesa di normalità. Come dire, un reparto privato in un ospedale. I suoi libri. Le sue foto. Ha la televisione a tutto volume, e sonnecchia in poltrona. Le tocchi la spalla. «Nana». Sfarfallio di occhi. Guardano, non riescono a mettere a fuoco. Sollevi il telecomando dal vassoio, disattivi il game show. «Dai, Nana. Ti porteremo fuori di qui».
I suoi occhi continuano a rifiutarsi di mettere a fuoco. In certi giorni, va alla deriva in una terra nebulosa dove le parole hanno perso valore. In altri, lei è il suo vecchio sé. Il suo sé giovane. «Fa freddo?» Chiede. Fa una faccia da gargoyle. «Non è così male». Rovisti nell’armadio piatto, individuando un cappello e lo scialle più caldo. «Ti farà bene prendere una boccata d’aria. Soffierà via tutte le ragnatele».

Era stato uno shock, vederla nel reparto dell’ospedale. Non tanto i lividi rabarbaro e crema, la testa da uccellino, l’occhio iniettato di sangue, il respiro spezzato, l’ansimare e scaricare del tubo all’angolo della bocca. Era quanto era diventata fragile, quanto era piccola sotto la coperta, come se i sette anni in cui non eri riuscita a vederla avessero ceduto tutti in una volta.
Loraine aveva telefonato a Londra, per la prima volta da mesi. Così Nana doveva aver vagato fino alle ore piccole. Era stata investita da un taxi. No, nulla di critico. Dei lividi. Un polmone perforato. Aveva ricevuto la chiamata da St. Vincent alle cinque e mezzo del mattino.
Loraine non si aspettava che tu tornassi in Irlanda, ma lo dovevi fare. Avevi dovuto farlo.
«Non è una casa di cura», le dicesti, più tardi. Dopo lo shock dell’incontro, il rimprovero. Aveva messo a raffreddare una bottiglia di Chablis nel frigo, una concessione per la tua visita. Non era stato toccato neanche un bicchiere. «Tutto tranne che una casa, Lor.»
«Non mi stai ascoltando», dice. «L’ospedale non l’avrebbe lasciata andare via senza un piano di dimissioni. Blathnaid, non la lasceranno più tornare ad abitare a casa. Fine».
«Non da sola, non lo faranno».
«Ah! Allora, cosa suggerisci? Torneresti indietro, è così?»
Spasimavi per una sigaretta. Loraine aveva messo un piattino-posacenere sul tavolo della cucina, un’altra concessione. Per guadagnare tempo ne accendi una, aspiri, soffi con una smorfia. «Se vedessi il letto dove sto in questi giorni…»
Lei si tira su, indignata.
«Si tratta di Nana. Con tutto il rispetto, non si tratta della tua fuga giovanile!»
Il veleno vi stordisce entrambe. «Questo non è giusto, Loraine.»
Qualcosa di simile al rimorso le raggrinzisce la fronte. «E tu saresti disposta a rimanere?»
Ti stringi nelle spalle: vabbè.
«Perché significherebbe questo, Blath. Dovresti essere lì ventiquattro ore al giorno sette giorni su sette. Non puoi… allontanarti neanche una notte».
Esali una lenta orchidea verso l’alto del suo interno domestico. «Ci sono altre opzioni».
«Oh?»
«Sì. C’è l’aiuto a domicilio. C’è…» Intuisci che stava aspettando che ti accada qualcosa. Guardi verso l’infant-seat, la cassa di plastica colorata, la scritta Mamma fatta con i pennarelli sotto il magnete del frigorifero, e pugnali la sigaretta nel piattino. «Voglio dire che sembrava abbastanza lucida quando ero lì». Sollevi le labbra in un ghigno. «Allora le dico che devo tornare di più a casa, non solo a Natale. E Nan ci fa sopra una battuta. Fa: “Sai dove vivo”, poi aggiunge, “che è più di quello che faccio per metà del tempo!”».
Un sorriso diluito. La maternità l’ha resa irremovibile. «In tutta onestà, non sei stata qui. La metà del tempo, non sa più nemmeno chi è lei, non parliamo degli altri». Aveva messo su la sua vecchia espressione del ne so più di chiunque di voi. Cala il tono di voce, come se potessero sentirla. «Questa non è la prima volta che la trovano in giro».
E questo era quanto. Il tempo che tu organizzassi le tue cose e tornassi da Londra per la seconda volta, Loraine aveva già sistemato per la casa di cura.
Non ci sono molti passeggini fuori sulla passeggiata. Un sole annebbiato, un vento gelido che scende dalla cima e insegue la spazzatura in cerchi. Anche sotto lo scialle scozzese di Kashmir, Nana sembra perduta. Affretti la sedia a rotelle in direzione della caffetteria.
Una volta al caldo lei rabbrividisce brrrrrrrr!, il suo sguardo veloce come quello di un uccello. Però è troppo presto per dire quanto sia lucida. Nana con gli anni è diventata spiritosa. «Comportati bene ora Peggy!» le aveva detto l’infermiere.
«Cosa ti porto Nan?» Lei aggrotta la fronte verso l’estraneo che gliel’ha chiesto. Per tutta la vita ha preso caffè, forte come un doppio espresso, anche prima di andare a letto. “La mia dose di caffeina”, lo chiamava. Caffè di notte, e una bottiglia di birra scura prima di cena. Non c’è mai stato niente che Loraine potesse fare o dire per moderare quel regime. «Ti permettono ancora di bere una bottiglia di birra scura, Nana?»
Ritorni con due filtri. Lo scialle le è scivolato dalle spalle ad attaccapanni, ma almeno le sta tornando un certo bagliore sotto gli zigomi. «Hai una sigaretta?», socchiude gli occhi, senza rivelare se ti ha proprio riconosciuto. Quando eri ancora adolescente, fumavate insieme sigarette proibite alle spalle di Loraine; Loraine, che aveva solo quattro anni più di te, ma che era cresciuta un intero decennio prima di te. Dopo l’incidente aveva dovuto farlo.
«Non si può fumare qui, Nan».
«Perchè no?».
Ti guardi intorno, per cercare supporto. «Perché questa è la legge!».
«Tsk! La legge…».
A Loraine serviva la tua firma. Anche questa era la legge. Per assicurarsi la procura, lei avrebbe dovuto ottenere il tuo consenso; o per lo meno, tu non avresti dovuto porre alcuna obiezione durante il periodo previsto nella lettera del suo avvocato. E tu le avevi detto che ti saresti dannata piuttosto di darle il potere di rappresentanza sulla proprietà di Nana come se fosse già morta o folle.
«Di che cosa hai paura, Blath? Hai paura che svenda la casa, è così?» Eri più che sicura che lei fosse sul punto di aggiungere, quando sappiamo entrambe che Nana non potrà mai più vivere di nuovo lì. Ma non lo fece. Ha sempre avuto la capacità di sorprendere, Loraine. Invece, ha detto «Legalmente, non avrei la possibilità di farlo, anche se l’avessi in mente. Tra l’altro, non ce l’ho in mente».
«Come fai a saperlo?».
«Lo schema di amministrazione non lo permette. Non possiamo toccare quella casa mentre viene utilizzata per contribuire a pagare le cure».
«Non capisco perché hai firmato quel maledetto schema, giuro su Dio che non lo faccio».
«Perché, mia cara, avremmo dovuto sborsarne un migliaio alla settimana, se non l’avessimo fatto. Hai in giro queste somme di denaro contante, Blath? Perché io non ne ho».
Contanti. Era stato sempre un argomento dolente. Nan aveva gestito un frugale business di modifica di abiti nel soggiorno, per mantenere la casa dopo che era scomparso il nonno che non avevi mai conosciuto. Un sabato dello stesso anno in cui sei nata tu era andato alle scommesse con il cappello di feltro, il cappotto e la sciarpa e non era più tornato. Loraine ha detto che tu avevi ereditato la sua smania di andarsene. Quando l’incidente d’auto aveva scaricato su di lei due nipoti orfane, Nana aveva già sessanta anni.
«Avresti potuto parlarne prima con me. Avresti potuto parlare con me di tutto, prima di sbatterla in quell’orrendo… asilo per spaventapasseri».
Lei impallidì. «Tu hai i nervi! Pensi di poter semplicemente tornare a casa dopo sette anni come una… un figliol prodigo…» Hai visto la sua furia contenuta esitare nella scelta della parola. Puttana? Opportunista? Ti aveva chiamato opportunista dopo aver scoperto che Nana aveva svuotato il suo intero conto corrente postale per finanziare la tua avventura a Londra. Le avevi chiesto un prestito di diecimila; lei ti aveva regalato una somma vicina ai trenta.
Ma ora chi era l’opportunista, Loraine?
Nana porta le mani intorno al caffè come se fosse il tubo di una stufa. I suoi occhi sono inclinati e maliziosi. In momenti come questo, pensi che potreste vivere insieme a casa, potresti farcela. Undici indirizzi diversi in sette anni e sei stanca morta di tutto questo. Sta scuotendo la testa lentamente, come se avesse sentito l’idea. «Che cosa, Nan?».
«Tsk», sta dando un’occhiata ai tuoi capelli a spazzola, «non avrai mai un marito in questo modo Louise».
Louise, tua madre. Te la ricordi appena. Ma nella sua foto della comunione potresti essere tu. Ti tocchi il cuoio capelluto, dolcemente abbattuta. «Non ho fretta di sposarmi Nan».
«Quanti anni hai ora?».
Sei spiazzata dalla nitidezza, entrambi i tipi di nitidezza, e per un attimo te lo dimentichi. «Trenta… due?» chiedi. Sufficientemente vecchia che un sacco delle cose migliori stanno scivolando via.
«Ne dimostri di più», dice. «Non so perché indossi quella giacca da scimmia quando ti ho preso quel bel cappotto di tweed con il colletto di volpe».
«Quale cappotto, Nan?» Ma lei è persa in qualche discussione che aveva avuto con sua figlia anni prima. L’antico paradosso: più lei diventa anziana, più i suoi ricordi diventano giovani. Le tocchi le dita, gelide ossa di pollo. Le stacchi dalla tazza di caffè, le strofini. «Ho bisogno che tu sia qui con me, Nana. Ho bisogno che ti ricordi. Loraine ti ha fatto compilare un gruppo di moduli?».
«Non mi è mai importato niente di quel Freddy», si acciglia. «Di gran lunga troppo appariscente». Fred Nuzum. Tuo padre. E forse aveva ragione. Fu la collisione di una sola auto, la convertibile avvolta intorno ad un palo del telegrafo a tarda notte un sabato.
«Nana, per favore. Sono io. Sono Blath. Nana, Loraine ti ha fatto compilare un mazzo di documenti per l’amministrazione?».
Ed è senza speranza. Senza speranza.
Torni fuori, alla luce del sole convalescente. «Ora avrò quella sigaretta», dice. Quando l’accendi la succhia avidamente come un bambino, il fumo la costringe a chiudere un occhio. «Ti riporteremo a casa». Spingi la sedia per risparmiare la batteria; anche perché è ancora incerta con il joystick.
Si torna dentro l’odore dei pannoloni. Una volta dentro, lei insiste per gestire le manovre della sedia; uno spettacolo di indipendenza per gli altri pazienti. Suona in modo intermittente, come un camion in retromarcia. L’infermiere è tutto sorrisi. «Bene, Peggy, hai fatto una bella passeggiata?» E, come se lo facesse dietro la tua schiena, segnala con un occhiolino una sigaretta furtiva.
Ti arriva come un colpo basso: qui lei è felice.
All’angolo del lungo corridoio la sedia si ferma e tu guardi il suo cappello che si inclina indietro. «Non essere troppo dura con Loraine» dice. «Di certo lei fa del suo meglio».

Leggi l’intervista a David Butler

Traduzione di Anna Anzani