Kalila e Dimna

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A una prima lettura potrebbe sembrare semplicemente il racconto fantastico delle vicende di due sciacalli, animali parlanti alla corte del re leone. Eppure, come asserisce Doris Lessing nella sua introduzione all’ edizione di Ramsay Wood del 1980, una delle più recenti, questo libro ha forse viaggiato più di ogni altro al mondo, visto che di questo antico testo di origine sanscrita abbiamo versioni che spaziano dall’amarico al mongolo: tale è la varietà dei mondi che è riuscito a raggiungere.

Si potrebbe forse anche  forse dire che non esiste un unico libro ma mille infinite versioni o varianti.  Nel corso dei secoli è stato tradotto quasi ovunque, persino in Etiopia, Cina, Malesia, Turchia, Polonia e Tibet. Eppure quest’opera, che attualmente è sconosciuta ai più, in passato era nota a qualsiasi erudito o uomo di cultura. La storia stessa del libro è avvincente: le sue fonti di ispirazione sono I Jataka, il ciclo di racconti sulle vite anteriori del Buddha, incarnatosi in diversi animali e l’ Arthashastra di Kautilya, scritto nel IV sec. a.C., un antico trattato indiano di scienze politiche e strategia militare, oltre che manuale per illustrare in dettaglio come governare un regno.
Kalila e Dimna deriva dal Pañcatantra, una famosissima raccolta indiana di favole sugli animali e probabilmente anche la più antica che si conosca. E’ composto da un racconto-cornice dal quale si dipartono numerose favole che contengono precetti di morale utilitaristica secondo la quale l’azione giusta è quella che comporta maggiori vantaggi. Il racconto che incardina gli altri narra di un re indiano che affida i suoi figli al saggio brahmino Vishnu Sharma, perché li educhi, e costui a tale scopo compone cinque libri:
La separazione degli amici, dove si narra degli intrighi di due sciacalli, Kalila e Dimna, affinché il toro e il leone rompano la loro amicizia;
Il modo di acquistare gli amici, sui vantaggi derivanti della scelta delle amicizie.
La guerra e la pace dei corvi e dei gufi, dove si spiega  come vincere una guerra con gli inganni;
La perdita di ciò che si è acquistato: in cui una scimmia riesce a salvarsi da un coccodrillo
Le opere fatte sconsideratamente: sull’uccisione di una mangusta per mano di un brahmino che l’aveva ingiustamente giudicata colpevole.
I figli del re leggono il testo e, nel giro di sei mesi, divengono saggi e colti beneficiando del principio induista  del Niti o “saggia condotta nella vita”.
L’opera sanscrita originale, probabilmente composta nel III secolo a.C. si basa su vecchie tradizioni orali, tra le quali antichissime favole sugli animali.
Lo schema e la concatenazione dei racconti esemplifica il modo in cui nella vita un’esperienza conduce ad un’altra, anche inaspettatamente, dimostrando che non è sempre facile tracciare una linea di demarcazione tra l’inizio e la fine delle vicende umane.
Essa è uno dei prodotti letterari più tradotti dell’India, sono conosciute più di duecento diverse versioni presenti in almeno cinquanta lingue. Già nel XI secolo quest’ opera aveva raggiunto l’Europa, e prima del 1600 esisteva in alcune lingue slave e in greco, latino, spagnolo, italiano, tedesco e inglese.
E’ stata elaborata più e più volte, ampliata, trasformata, tradotta in lingue medievali e moderne, e ritradotta in sanscrito. Così ha potuto viaggiare con molti nomi all’interno di culture diverse.
In India ha ispirato la Hitopadesha, una raccolta di novelle in prosa e versi, redatta in sanscrito, attorno al XII secolo. Fu tradotto in Medio persiano nel 570 dC da Borzūya e divenne la base per una traduzione siriaca,  Kalilag e Damnag, e una traduzione in arabo nel 750 di  Abdullah Ibn al-Muqaffa come Kalīlah wa Dimna.
Nel corso dei secoli, mentre la versione sanscrita migrava attraverso il Pahlavi in arabo, emersero alcune importanti differenze.
Il primo libro venne cambiato: un’introduzione spiegava come fosse stato composto al tempo del tentativo di Alessandro il Grande di raggiungere l’India. In esso un re indiano si pente dei suoi misfatti e chiede a un saggio di comporre un opera con favole da tramandare alle generazioni future.
Nella seconda parte un imperatore persiano sente parlare di un grande libro che si trova nel tesoro dei re indiani. Manda uno dei suoi collaboratori e trascorrono anni prima che  possa accedere al libro e tornare in Persia. Alla fine l’imperatore lo premia e gli permette di tradurre il libro perché venga letto da tutti. Ibn Al-Muqaffa fa seguire poi a questa introduzione le favole.
I nomi dei due sciacalli vengono trasformati in Kalila e Dimna e in epoca classica diventeranno il titolo dell’intera opera.
Dopo il primo capitolo, Ibn al-ʿMuqaffa ne inserì uno nuovo, sul processo a Dimna, dove lo sciacallo, sospettato di aver istigato la morte del toro Shanzabeh, viene giudicato colpevole e condannato a morte.
Il Panchatantra ha molte storie in comune con i racconti buddisti Jataka, narrati dal Buddha storico prima della sua morte intorno al 400 a.C. Non è chiaro se l’autore del Panchatantra abbia preso in prestito le storie dai Jataka  o dal Mahābhārata, o se abbia attinto ad un patrimonio comune di racconti, orali e letterari dell’ antica India.
Alcuni studiosi hanno sottolineato il carattere machiavellico del libro facendo notare che le storie spesso sono piuttosto immorali perché valorizzano l’uso dell’astuzia nella vita e nella politica.
Tuttavia, i racconti del Pañcatantra promuovono una capacità concreta e razionale di apprendere dalle esperienze, e tutto il dibattito tra gli studiosi riguardante gli scopi del Pañcatantra sottolinea la ricca ambiguità del testo.
Il tema del male-trionfante, ricorrente in alcune parti del Kalila e Dimna, potrebbe aver  disturbato alcuni lettori ebrei, cristiani e musulmani dell’opera, per questo si  ritiene che Ibn al-Muqaffa  abbia inserito un capitolo in cui Dimna viene messo prima  in prigione e poi a morte, tentando così di placare eventuali oppositori religiosi dell’opera.
Del Panchatantra, nel suo lungo percorso di migrazione verso Ovest, si dice anche che quando Borzuya tradusse l’opera dal sanscrito in medio persiano, secondo lo Shah Nāma (Il Libro dei Re, poema epico persiano del X secolo), chiese permesso al suo re di fare un viaggio in India in cerca di un’ erba che, se aspersa su di un cadavere, lo avrebbe riportato subito in vita. Non trovò l’erba, ma un saggio gli parlò di un libro, e Borzuya ottenne il permesso dal re di leggerlo e tradurlo.
La traduzione in Pahlavi di Borzuya, oggi perduta, è stata tradotta in siriaco, e dopo la conquista araba della Persia, la versione di Ibn al-Muqaffa emerse come il testo superstite fondamentale.
Dall’ arabo è stato nuovamente tradotto in siriaco nel X o XI secolo, in greco nel 1080, in persiano moderno  nel 1121, e nel 1252 in spagnolo.
Forse è ancora più importante che sia stato tradotto in ebraico dal rabbino Joel nel XII secolo. Questa versione ebraica è stata tradotta da Giovanni da Capua, un ebreo convertito al cristianesimo, come Directorium Humanae Vitae, stampata nel 1480, che divenne la fonte della maggior parte delle versioni europee. Una traduzione tedesca è stata pubblicata nel 1483, facendone quindi uno dei primi libri a stampa.
La versione latina è stata tradotta in italiano da Antonfrancesco Doni nel 1552 e divenne la base per la prima traduzione in inglese, nel 1570: Sir Thomas North la tradusse come Le Favole di Bidpai: La Filosofia Morale di Doni. La Fontaine pubblicò Le Favole di Bidpai nel 1679.
Il successo dell’opera è dovuto al fatto che le fiabe sono eterne e contemporanee. E’ un libro che si adatta a contesti e tempi sempre nuovi e diversi. Risulta difficile risalire a quali opere sia riuscito a sua volta ad influenzare dato che ha avuto grande potere di suggestione ed è stato metabolizzato da tante culture locali. Vi sono circa 2.000 anni di adattamenti, raccolte e sistemazioni dell’antico materiale.
La storia di questo libro è anche testimonianza dei grandi passaggi, della circolazione, duttilità e collaborazione tra gli scrittori dell’antichità che si apprezzavano senza barriere geografiche.

Il monaco e il suo ospite

Raccontami, disse il re Dabschelim a Bidpai, la storia dell’uomo che lascia una condizione di vita adatta a lui, e alla quale è abituato, per l’interesse di abbracciarne un’altra, ed è meravigliato e perplesso dal cattivo risultato della sua scelta.

Nella terra di Kark, disse il filosofo, vi era un monaco che era molto devoto e zelante nell’adempiere ai suoi doveri religiosi. Un giorno arrivò un visitatore, e il monaco ordinò che fossero messi davanti a lui dei datteri, così che egli potesse gustare un frutto al quale non era abituato.

Mentre mangiavano insieme, l’ospite osservò che erano molto dolci e buoni, e che non ve ne erano nel suo paese che per altri versi abbondava di frutti di ogni tipo. Ma, continuò lui, non ho mai desiderato i datteri, dai  quali posso prontamente esimermi, considerando quanto sono difficili da digerire, e che non sono salutari per lo stomaco.

Il monaco rispose: sei molto fortunato ad accontentarti di ciò che hai; perché vi sono problemi nell’alimentare i desideri che non possono essere soddisfatti. E questa osservazione il monaco la fece in ebraico, e il suo ospite trovò la lingua così bella che desiderò impararla, e volse seriamente i suoi pensieri a questo.

Al che il monaco gli disse: tu meriti di conoscere ciò che accadde al corvo come punizione per il desiderio di lasciare la tua lingua per imparare l’ebraico; e il suo ospite espresse il desiderio di ascoltare la storia.

C’era un corvo, continuò, che vide una pernice che girava attorno pavoneggiandosi, ed era così compiaciuto del suo modo di muoversi, così naturale per lei: al contrario era così perplesso da quel poco che aveva copiato dalla pernice, e dai suoi tentativi di recuperare i suoi passi precedenti, che nel movimento dei suoi piedi divenne il più sgraziato di tutti gli uccelli.

E questa storia si applica direttamente al tuo caso; perché tu vorresti lasciare la tua lingua, e sforzarti di imparare l’ebraico, che non è in alcun modo calcolato per te, e nel quale non avrai mai alcuna competenza; e quando tornerai dai tuoi amici, sarai notato per la tua cattiva pronuncia, e per l’imprecisione con la quale parli la tua lingua; ed è giustamente ritenuto un pazzo, chi spreca tempo e fatica in un’occupazione rispetto alla quale, non avendone ricevuto insegnamento dai propri genitori, dovrebbe perciò concludere che non è adatta ai suoi talenti.

(Traduzione di Anna Ettore)

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