In piedi accanto al lago, guarda i sassi. Li ricorda tutti: quello tondo e scivoloso, quello traballante, quello appuntito. Nel mezzo, uno piatto color ostrica, grande quanto un palmo. Su quello, anni prima, era stata ferma a osservare l’acqua chiudersi e aprirsi sopra la vegetazione lacustre, gli insetti che vi nuotavano dentro sollevando appena la cortina d’acqua liscia. Fissa gli altri sassi che attraversano il lato del lago più a est, dove un restringimento permette di raggiungere la riva opposta. Tende la gamba, cerca l’equilibrio spostando il piede in avanti, le braccia aperte ai lati. Salta. Scopre che è facile, si trova subito dall’altra parte.
Il sentiero si è ristretto, da quando l’ha percorso l’ultima volta. La vegetazione ha preso il sopravvento, ora arbusti e alberi lunghi e stretti occludono il passaggio sul sentiero di terra battuta che porta prima al deposito, poi alla casa. Chissà se è ancora in piedi, o se qualche fulmine ci si è abbattuto, sfondando i muri intonacati alla buona. Ai lati i rovi di more sono sempre gli stessi, insieme allo steccato che una volta era dipinto di bianco, e che adesso è di un color castano scurito dalla pioggia, con qualche traccia di vernice sbucciata. S’incammina, si sente straordinariamente felice.
È una giornata azzurra, di quelle che ricorda bene, con il cielo quasi vitreo che le dà l’impressione di essere osservata da sopra, come attraverso una lente. Svoltato il primo angolo, intravede il deposito con il tetto di lamiera su cui si sono affastellati grovigli di piante spinose. Passa accanto a una rosa selvatica con i fiori gialli dal profumo persistente. Tutto ha un aspetto trascurato e vagamente pittoresco. Allo slargo successivo il giardino e, ancora dietro, la casa.
Da lontano vede che i gradini di accesso al portico sono spezzati in alcuni punti, proprio al centro, come se qualcuno avesse insistito a salire e scendere con una bicicletta. Il cuore inizia a batterle più forte. Nel giardino invaso dalle erbacce le siepi di ginepro, ginestra e rosmarino sono cresciute a dismisura e nascondono la parte bassa del carrubo, i cui baccelli hanno formato a terra una poltiglia dall’aspetto fangoso. L’altalena non c’è più. È quasi tutto come ricorda, eppure come guardato attraverso un binocolo che ne distorca leggermente la forma. Si ferma, guarda verso la casa. La pittura è ancora visibile, alcune crepe hanno intaccato in profondità il rivestimento, mostrando tagli chiari e irregolari che attraversano la facciata in perpendicolare.
Un fruscio dietro le siepi la fa voltare. Ci sono due bambini. Quando guarda meglio, vede che stanno giocando con alcuni cumuli di terra e sassi. La osservano per un attimo, poi tornano a smuovere i sassi più grandi e a trasportarli da un cumulo all’altro.
«Ciao», dice. Non rispondono. Indica la casa. «È ancora disabitata, vero?».
I bambini si guardano velocemente. Quello più grande si stringe nelle spalle, senza parlare.
«Ci stava Flora una volta, qui». continua. «Era mia zia».
Non cambiano espressione, si limitano a far scivolare i sassi lungo il pendio degli ammassi di terra, con concentrazione.
Quando, da ragazza, i suoi si erano separati aveva abitato con sua zia per quell’estate e aveva occupato la camera che dava sull’orto in cui crescevano i pomodori maturi a fine agosto: quelli oblunghi e lisci, e quelli tondi e crepati al centro, con porzioni di un verde lucido; poi le zucchine e le patate, che la zia la mandava a raccogliere insieme alla lattuga.
La sera, prima di andare a dormire, restavano sedute sul letto a parlare. L’aria del crepuscolo gonfiava le tende e arrivava morbida e umida dalla finestra aperta.
«Di cosa hai paura?» le chiedeva la zia, quando la vedeva guardarsi attorno con gli occhi sperduti.
Lei alzava le spalle e Flora sbuffava. «Beh, che c’è?».
«Tesoro, sei una sciocchina».
«Lo so». Osservava il suo viso maturo e liscio, le labbra morbide come quelle di sua madre. «Ma non in questo caso».
«È solo uno stato d’animo. Passerà, vedrai».
«Forse sono io a volere che non passi».
«Come sei contraddittoria! Non sei stata tu a scegliere di venire qui? Credevo ti piacesse».
«Ma sì, mi piacciono la natura, il lago e tutto il resto, solo che mi pesa la solitudine». Appena l’aveva detto, se n’era pentita. Era stato come dichiarare che la compagnia della zia non contava, che era solo una figura di passaggio che avrebbe provveduto a lei per qualche mese. Si era sentita irriconoscente.
«È solo perché piove» aveva commentato Flora.
Lei era rimasta sorpresa.
«Si ha bisogno del bel tempo», aveva aggiunto. «Ma forse domani sarà bello». La zia le aveva dato un buffetto sulla guancia e aveva stretto tra le dita il cameo che le ciondolava sul petto largo, coperto da pizzi che vedeva sbucare da sotto la vestaglia da casa abbottonata male. «Non ti è piaciuto prima il bagno al lago?».
«Non molto».
«Era un po’ spettrale, stasera».
L’aveva osservata con la bocca atteggiata a un sorriso che non voleva far trasparire.
«Non si dovrebbe mai scegliere un posto che si è visto solo col bel tempo, per starci. Non credi?».
«Già».
«Magari hai paura del bosco come quand’eri piccola, ricordi?».
Ma non era solo quello. Non erano gli alberi dai tronchi scuri, il cielo troppo pieno di stelle, la riva sassosa e i massi levigati su cui si stendevano le lucertole. Il lago. «Il lago è quasi sempre silenzioso», aveva detto.
«In realtà, credo che ci si abitui al suo rumore. Ti va qualcosa da bere? Qualcosa di caldo. Una cioccolata, magari?».
Sì, una cioccolata sarebbe stata perfetta.
«Non so cosa darei per una cioccolata con la panna. Tu no?». Le aveva dato un colpetto sulla guancia con il dito, ridacchiando.
«Non abbiamo la panna, suppongo».
La zia le aveva passato un braccio attorno alle spalle e avevano raggiunto la cucina, dove una vecchia sveglia ticchettava sommessamente da una mensola. Poi erano scese al lago. Si erano sedute sulla spiaggetta, tutto era placido e indulgente. «Ha un’aria metallica con la luce che proviene da casa, non trovi? Non sembra neanche acqua».
Aveva agitato le mani sopra alla superficie, come per provare la sua ipotesi. Quando aveva infilato una falange nell’acqua, era pesante e fredda. «Ghiaccia mai, in inverno?».
«Oh, sì. Ci puoi giurare» aveva risposto la zia mentre disegnava piccoli cerchi sulla sabbia, che a quell’ora aveva il colore del marmo.
In quel momento aveva pensato a quanto le cose apparissero diverse, sotto la luce. Scure e pericolose sotto la luna fredda; piene di mistero, allegre e seducenti con il sole che filtrava attraverso gli strati d’acqua mossi appena dal vento. L’aveva detto alla zia, che l’aveva osservata con curiosità.
«Le cose sono più potenti delle persone, ne sono sempre stata convinta».
L’aveva guardata con improvviso distacco. «Lo dici solo perché non sei mia madre».
«Non lo sono mai stata». L’aveva detto con dolcezza. Alcuni uccelli notturni avevano cominciato a emettere versi striduli e continui.
«Adesso non è più silenzioso, vero?».
«No. È il rumore della notte».
«La mamma lo dice sempre».
«Cosa?».
«Che la notte fa rumore. Un po’ come i pensieri quando frusciano e ti tengono sveglia».
«A me questo posto piace» aveva detto sua zia con l’aria sognante. «Mi piaceva quando c’era lo zio, mi piace anche adesso. Anche se preferirei che fosse qui. Te lo ricordi?».
«Sì, certo». Aveva pensato che avrebbero potuto essere felici, lì, loro due sole. Ma non l’aveva detto perché era arrivata la paura e non era riuscita a parlare.
Si erano avviate verso la casa, i contorni delle piante erano sfocati e tremuli sotto ai lampioni. Quando avevano acceso la luce, una falena aveva iniziato a sbattere energicamente contro la lampadina.
Aveva pensato alla tenacia con cui certe volte bisognava andare avanti, prendere le cose di petto, o forse come venivano, semplicemente, come faceva la natura.
«Ti va una sigaretta?».
Aveva scosso la testa.
La zia aveva sfregato un fiammifero per accenderne una e le aveva visto le occhiaie scure, la pelle tirata sugli zigomi, la radice larga e piatta del naso. Le aveva sorriso, e sapeva che aveva indovinato tutti i suoi pensieri. «Hai paura anche adesso?» le aveva chiesto. «Lo vedo quando cambi umore».
«C’è una sola cosa che non mi fa mai paura».
«E quale sarebbe?».
«Tu».
Il fiammifero si era spento.
Tu non mi farai mai paura, aveva pensato. Era perché le ricordava troppo sua madre, aveva deciso, anche se non gliel’avrebbe detto. Ogni persona vuole valere per sé, questo aveva imparato, fino a quel momento.
«Beh, è un sollievo». Aveva riso, poi aveva sfregato la sigaretta sul portacenere smaltato. «Domani farà bel tempo, vedrai», aveva aggiunto.
«Sarebbe una fortuna».
«Non contare sulla fortuna. Dovresti saperlo, ormai».
«Sono una di quelle persone che non imparano mai, temo».
«Sì, capisco bene. Alla fine, sono come te. Ma bisogna pur dirselo, non credi? Altrimenti, a un certo punto tutto può diventare difficile». La faccia di sua zia, nel dirlo, si era come increspata. Un’ombra scura le era passata sul viso, poi le aveva sorriso debolmente.
«Sei stanca, zia?».
«Sì». Aveva sospirato. «Non posso nasconderlo».
«Hai l’aria distrutta. Forse è perché cerchi di capirmi».
«E non ci riesco mai». Era scoppiata a ridere, mentre la sigaretta si spegneva emettendo piccoli sbuffi di fumo.
«Ci riesci eccome, invece. Più di quanto non ci riesca io da sola».
Si erano abbracciate con una riserva di timidezza. Poi la zia si era portata una mano alle tempie. «Devo prendere qualcosa per il mal di testa».
«Perché non dormi con me?». L’aveva pronunciata di fretta, quella frase, come se temesse che la zia potesse trovarla ridicola, infantile.
«Perché no? Vuoi già iniziare a curare la tua vecchia zia, non è così? Devi fare pratica, ragazza mia». Le aveva strizzato l’occhio.
Nella notte, aveva sentito un gufo urlare. Si era alzata, era tutto tranquillo. La zia dormiva con le labbra un po’ increspate, la fronte distesa. Eppure, qualcosa l’aveva turbata. Resta sveglia, consolami, avrebbe voluto dirle. C’era qualcosa di cui avere paura, lo sentiva bene. Qualcosa tutto intorno.
Aveva continuato a guardare con nervosismo crescente verso la finestra, rimandando il momento in cui sarebbe rimasta sdraiata. Nel silenzio udiva un rubinetto che perdeva, la goccia che cadeva nel lavandino pieno. Era una melodia allegra in modo sinistro. Si era chiesta se sua zia l’avesse sentita, prima di addormentarsi.
C’era stato un tempo in cui non aveva paura, era stato quando viveva con i suoi. Avrebbe dovuto rimettere insieme i pezzi. Con calma, nel tempo. Con l’aiuto della zia. Sul lago.
Il giorno dopo avrebbe fatto bel tempo. Avrebbero potuto rimanere un po’ sulla spiaggia, fare il bagno insieme. E, fino a quel momento, avrebbe dormito e si sarebbe dimenticata la paura.
Quando aveva visto la luce filtrare dalla finestra si era sentita stupida, una bambina che aveva paura dei mostri. «Lo sapevo che oggi sarebbe stato bello», aveva detto a voce alta. Si era sentita sicura di sé. La zia non aveva replicato. «Potremmo fare il bagno già in mattinata, che ne dici?». Mentre scostava la tenda il sole l’aveva colpiva in pieno viso, dandole l’impressone di una fiamma accesa. Aveva gettato l’occhio sull’orto, dove la pelle dei pomodori luccicava tra le foglie e alcuni fringuelli passavano da un ramo all’altro degli alberi. «Sei sveglia?» aveva domandato. «Alziamoci, dai! Non voglio sprecare neanche un minuto. Ho fatto un sogno davvero spaventoso» aveva continuato, senza smettere di sporgersi verso la luce del sole. «Passeggiavo dentro a un bosco, come quello che c’è qui fuori, solo che gli alberi emettevano un suono lamentoso. Sembrava che il vento sbattesse contro un ostacolo di latta». Aveva arricciato la bocca. «Se chiudo gli occhi riesco a sentirlo anche adesso. Che strano, eh?». Si era girata verso la zia, che non dava segno di averla udita. Doveva essere davvero stanca per dormire in quel modo. «Dai, svegliati!». Le aveva toccato una mano e l’aveva trovata fredda. «Zia, ti senti bene?». L’aveva osservata, nessun movimento. «Perché non rispondi?». Le aveva toccato la fronte, poi il petto. Tutto immobile. Le si era seduta accanto, le aveva accarezzato il palmo della mano, rigido, e aveva osservato il cameo immobile sul suo petto.
Non sapeva quanto tempo fosse trascorso, ricordava solo il cinguettio vivace degli uccelli e una sensazione di attesa, come quando si trovava ai binari della stazione e attendeva con ansia le vibrazioni del treno in arrivo. Poi, all’improvviso, si era sentita invadere da una frenesia inarrestabile, era corsa di sotto a preparare la colazione mentre ascoltava la radio. Si sveglierà prima o poi, aveva pensato.
Aveva immaginato la giornata al lago, solo lei e la zia, stese sul telo a guardare la distesa verde chiaro in cui nuotavano le trote, poi in acqua a schizzarsi tra urla e ripicche, l’insalata di riso con il tonno e l’uovo sodo e un libro sotto agli alberi, dove finiva la riva sabbiosa e cominciava il bosco. Sarebbe stata una giornata da ricordare.
Il medico le aveva domandato se avesse sentito qualcosa, quella notte. Si era tolto lo stetoscopio dalle orecchie con fare professionale e aveva sospirato. Aveva chiesto sottovoce all’assistente di preparare un po’ di gocce per la ragazza, ma lei aveva sentito. «Non sono io a star male» aveva detto, scocciata.
«No, certo che no» le aveva risposto il dottore, sorridendo con una dolcezza amara.
«Ho fatto un brutto sogno. Non ho sentito niente, a parte dentro al sogno. Era un sogno, vero?».
Il medico aveva sollevato le spalle. «Beh, forse lo ha creduto un sogno. A che ore si è svegliata?».
«Non saprei, non ho controllato. Mi sono trattenuta qui per un po’, ho aspettato che la zia si svegliasse, poi sono scesa a fare colazione. Avevamo programmato una giornata sul lago».
«Capisco».
«No che non capisce. La zia era stanca, ieri sera».
«Dopo quanto tempo si è resa conto di cos’era successo?».
«Perché, cos’è successo?».
Il medico aveva fatto un cenno in direzione dell’assistente, che si era messo a frugare con calma dentro a una valigetta. Aveva iniziato a sentirsi agitata. Una sensazione di mano pigiata sul petto la costringeva a respirare a singhiozzi.
«Cerchi di stare calma». La voce era morbida, indulgente. Con un fondo di autorevolezza. Questa consapevolezza l’aveva fatta agitare ancora di più. Perché avrebbe dovuto rimanere calma? Lei era calma. Non era successo niente, stava solo aspettando che la zia si svegliasse, cosa c’era di tanto strambo? Perché quelle persone continuavano a farle domande, a ritardare la loro giornata sul lago? Magari il giorno dopo sarebbe piovuto e avrebbero dovuto starsene in casa a guardare la tv. Cos’avrebbe dovuto capire?
Poi aveva iniziato a piangere in modo convulso. «Ho corso fino al lago per vedere se lo spiazzo in cui ci saremmo sistemate aveva bisogno di essere ripulito».
Il medico e l’assistente avevano alzato le sopracciglia in modo quasi impercettibile, e lei l’aveva notato. Non le credevano? Oppure la trovavano una cosa buffa?
«Ricorda di averci chiamato?».
Aveva sentito le tempie pulsare forte, con colpi ritmati e precisi. Aveva stretto gli occhi. «No, si sbaglia. Non ho chiamato nessuno». Avvertiva una sensazione di torpore che dalle braccia si allargava a tutto il corpo. Il cervello le si era adagiato mollemente dentro al cranio, come se fosse stato in vacanza, spaparanzato sul divano. Le era venuto da sorridere. Doveva avere un’aria ebete, i due l’avevano osservata come se stessero studiando un caso umano. «Devo stendere i panni». Aveva riso. Dopo, aveva pianto.
L’assistente le si era avvicinata e le aveva cinto le spalle con un braccio. «Non si preoccupi, pensiamo a tutto noi».
«È una bella giornata» aveva continuato a ripetere. Mentre lo diceva, aveva sentito distintamente lo sciacquio dell’acqua, sempre più forte. Aveva immaginato di stare in piedi, accanto al lago, e di guardare oltre la riva, dove il sentiero portava alla strada asfaltata. «Non voglio andare a casa», aveva detto. Poi aveva cominciato a urlare. «Voi non mi credete!».
«Certo che le crediamo» aveva sussurrato l’assistente, cercando di calmarla. «Adesso cerchi di stare tranquilla».
«Vado a letto. Qualunque cosa succeda, non chiamatemi».
Quando si era svegliata, c’erano i suoi. Della zia, nessuna traccia. Non aveva chiesto nulla, si era limitata ad accarezzarsi le gambe nude e ispide mentre canticchiava a bocca chiusa.
In macchina, erano rimasti tutti in silenzio. Sentiva una strana confusione in testa, come se fosse vuota e i suoni vi rimbalzassero dentro. Si erano fermati in un bar lungo il tragitto e lei aveva ordinato un’insalata di riso con tonno e uova sode.
Una volta a casa era sprofondata tra i cuscini del suo letto e aveva osservato per ore le mensole laccate di bianco su cui erano sistemati pupazzi colorati e tessere di puzzle che non avrebbe mai finito.
Non aveva più parlato di sua zia, non aveva più voluto vedere il lago.
Adesso, invece, si sente leggera, quasi vibrante. Come se qualcosa la stesse chiamando e lei non potesse fermarsi. Non ha avuto tempo di mangiare prima di partire e adesso ha fame. Tira fuori dallo zaino un pacchetto di biscotti. I bambini la osservano con attenzione.
«Prendete un biscotto al cioccolato». Si sforza di risultare rassicurante, dev’essere strano incontrare qualcuno lì, in quel posto isolato e abbandonato da anni, tra il bosco e il lago. Osserva l’orto inservibile, il giardino con l’erba giallastra invaso dalla vegetazione, la struttura della casa in rovina.
Il bambino più grande tende la mano e ne prende una manciata con grande serietà.
«Abitate qui vicino?» chiede.
Lui indica un punto sull’altra sponda del lago.
«Io ho intenzione di trasferirmi qui» dice, guardandosi intorno.
«Dovrai fare un bel lavoro, credo». Il bambino parla con voce ferma. «Ci sono un sacco di cose da mettere a posto».
«Beh, di tempo ne ho».
Lui alza le spalle.
«Potete continuare a venire, se volete».
La valutano velocemente. Annuiscono, poi si guardano intorno, in imbarazzo.
Tutto a un tratto, avverte la voglia irrefrenabile di esplorare, divertirsi. Tornare a essere solo una bambina. «Che ne dite se andiamo a fare il bagno?».
«Non so se i miei ci daranno il permesso. Non ti conosciamo».
Si sente stupida. Si passa la mano tra i capelli, emette una risatina. «Dio, certo. Possiamo chiamarli, magari».
Parlano con la mamma, poi allungano il cellulare nella sua direzione e scopre che conoscevano bene sua zia, la ricordano con nostalgia. «Sanno nuotare, non si preoccupi troppo» la rassicura.
Sdraiata sul telo di spugna, mentre i bambini giocano a tirarsi la sabbia, tenta di scacciare le sue paure. Dopotutto si tratta solo di rimettere in sesto la casa e le parti esterne: sei mesi al massimo, a occhio e croce, e non ha nessuna fretta. La struttura è solida, il giardino, con il tavolo rotondo in marmo nel fondo, ancora intatto. Ha una gran voglia di tornarci.
Mentre cerca di ricostruire l’ordine di una volta, scopre con stupore che alcuni ricordi sono vaghi. Ha dimenticato tante cose in quegli anni, anche il volto di Flora. Ricorda le ombre con più chiarezza delle forme, il rumore dell’acqua ma non la voce della zia. Ricorda l’odore della polvere e del caldo, la frescura delle felci. Avverte una felicità quasi violenta.
I bambini fanno rotolare alcune biglie lungo la spiaggetta. Le viene in mente di quando sua zia le ha insegnato ad andare in bici. Flora sfrecciava sfiorando appena il terreno, come se non avesse niente a che fare con lei, che la seguiva oscillando pericolosamente da una parte all’altra. Una volta era caduta per terra, la zia si era girata e le aveva chiesto se si fosse fatta male.
Aveva tirato su la bicicletta da sola. «No, non mi sono fatta nulla».
«Hai un bel graffio sul ginocchio». Le aveva indicato la gamba con il dito, lei aveva controllato e aveva scoperto di essersi rotta entrambe le calze.
«Mia madre mi avrebbe detto: tesoro, non piangere».
«E tu cos’avresti fatto?». L’aveva guardata con aria birichina.
«Mi sarei messa a piangere».
Avevano riso con aria complice. Poi aveva camminato zoppicando fino a casa, dove la zia aveva disinfettato il graffio e le aveva applicato un cerotto.
Un caldo pomeriggio di luglio i suoi le avevano annunciato la loro separazione e le avevano detto che sarebbe stata ospite della zia per il resto di quell’estate. «Devi esserle grata. Ti farà un gran bene», le aveva detto sua madre.
Lei aveva risposto che non voleva, che sarebbe rimasta lì o sarebbe andata con uno di loro, chiunque, non faceva differenza.
«È fuori questione», l’aveva liquidata.
«Non ci vado».
«Non hai scelta».
Era rimasta in silenzio per tutta la serata. Dopotutto, aveva pensato, si tratta solo di far passare un paio di mesi. Invece, una volta lì, aveva scoperto che avrebbe voluto restarci per sempre.
Ed è quello che farà, adesso.
«Venite, bambini!».
I due alzano la testa dalla pista delle biglie.
Il vento ha un leggero sentore di limone. Guarda verso il sole. Alcune libellule ruotano le ali trasparenti sotto la luce, mentre i loro corpi metallici rilucono come braci incandescenti. Respira l’aria calda che esala dalla spiaggia, sa di alghe e di pesci. Avverte con chiarezza un peso abbandonarla, come se un argano invisibile le avesse sollevato qualcosa di pesante dalle spalle e lei potesse di nuovo respirare con facilità.
«Ora di mettere qualcosa sotto i denti!».
Tira fuori dallo zaino l’insalata di riso, la distribuisce su alcuni piatti di plastica. Mangiano in silenzio, masticando lentamente mentre prendono qualche sorso d’aranciata. Ogni tanto lanciano occhiate verso il lago, dove minuscole increspature annunciano i movimenti silenziosi dei pesci. Tutto è semplice e lineare, le forme hanno di nuovo un significato e lei sa esattamente che cosa fare.
«Tua zia», dice il bambino più piccolo, con un po’ di riso ammassato agli angoli della bocca.
«Sì?».
«È come se fosse ancora qui, dicono i miei».