La ciociara

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La ciociara è un grande film, tratto da un romanzo coinvolgente e intenso di Alberto Moravia, scritto in prima persona, facendo parlare Cesira, una popolana vedova, madre di Rosetta, figlia adolescente, che dopo il 1943 decide di scappare da Roma e di rifugiarsi in Ciociaria, tra le montagne di Sant’Eufemia, al paese d’origine.
Conosce Michele, un intellettuale comunista, se ne innamora, ma la storia non può avere un lieto fine, sia per lei che per il ragazzo. Le due donne vengono violentate in una chiesa da un gruppo di soldati marocchini, mentre Michele viene ucciso dai tedeschi.

Sophia Loren interpreta il ruolo della vita – che trent’anni dopo interpreterà di nuovo in un modesto film televisivo, guidata da Dino Risi – anche se Ponti avrebbe voluto Anna Magnani come madre e lei nei panni della figlia.
Fu merito di Vittorio De Sica – una volta evidente che la Magnani non avrebbe fatto parte del cast –  aver pensato di invecchiare Sophia Loren e utilizzare una dodicenne come Eleonora Brown nel ruolo della figlia.
Fu un’idea vincente, perché quel che si ricorda de La ciociara cinematografica è soprattutto il ritratto da straordinaria mater dolorosa della Loren dopo la violenza carnale, affranta per il destino della figlia.

Sophia vince un Oscar come miglior attrice protagonista e conferisce alla pellicola un elemento di assoluta genuinità che fa ricordare le migliori pagine del romanzo, narrate da una popolana ignorante, priva di ideali, che non si occupa di politica, ma cerca di fuggire la follia della guerra.
Eleonora Brown non è il massimo, ma in definitiva interpreta il ruolo romanzesco assegnato da Moravia alla figlia: una santa che dopo la violenza si trasforma in puttana, una ragazzina che non aveva ancora conosciuto uomo, devota, timorata di Dio, trasformata dagli eventi e dalla guerra.
Jean-Paul Belmondo è un intellettuale innamorato, anche se nel romanzo le cose non stanno proprio così e il suo personaggio subisce alcune modifiche dettate da esigenze cinematografiche.

Il film trascura molte cose che Moravia mette in primo piano: l’egoismo dei contadini, l’ignoranza della povera gente, l’ignavia degli italiani poco interessati al vincitore ma soltanto alla fine della guerra, le condizioni di vita dei poveri, la carestia, il mercato nero…
In compenso abbiamo il melodramma lirico, una sceneggiatura che fonde realtà romanzesca e neorealismo, alcuni momenti sentimentali e soprattutto una forte connotazione femminile costituita dal rapporto madre-figlia.

Il titolo delle versioni spagnole e inglesi – Dos mujeres/Two Women – non è per niente fuorviante. Tutt’altro. Resta il messaggio di rabbia popolare nei confronti di chi trascina la gente in eventi bellici indesiderati, come è evidente la voglia di vivere in un popolo che deve ricostruire e ripartire da zero.

De Sica e Zavattini utilizzano il soggetto di Moravia per denunciare le atrocità della guerra, per mettere in evidenza come l’uomo in simili frangenti possa cambiare, compiendo atrocità inimmaginabili in una situazione normale.
Fascisti, tedeschi, disertori, inglesi, contadini, sfollati, fanno tutti parte di un’umanità dolente che si vede soggiogare e violentare da eventi troppo grandi per essere arginati.

Stupenda fotografia in bianco e nero di Gabor Pogany, scenografie e ambienti ricostruiti con dovizia di particolari tra le montagne della Ciociaria. Musica intensa di Trovajoli e montaggio serrato di Novelli.
Inutile dire che la sequenza epocale resta quella della violenza carnale all’interno della Chiesa, ricca di suspense e di orrore fotografato negli occhi delle due donne. Un’altra scena prelevata integralmente dal romanzo vede una donna resa folle dalla guerra aggirarsi tra le macerie nell’atto di offrire il seno con cui avrebbe dovuto allattare un bambino morto.
Moravia e De Sica, passando per Zavattini, mettono il dito sulla piaga, affermando che gli italiani non sono più padroni di niente, a parte il latte prodotto dai seni delle loro donne.

La ciociara racconta un triste passato che nel 1960 sono ancora in molti a voler dimenticare, ma i tempi sono maturi per digerire una storia cruda, piena di realismo e priva di leziosità stilistiche. Il film è più lirico del romanzo, ma resta uno spaccato intenso che fotografia la perduta speranza di un’Italia allo sbando, dopo l’armistizio del 1943, sconvolta dalla guerra civile e dai bombardamenti.
Non si sentiva nessun bisogno di un deludente remake televisivo giunto trent’anni dopo, davvero fuori tempo massimo.

 

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Gordiano Lupi (Piombino, 1960), Direttore Editoriale delle Edizioni Il Foglio, ha collaborato per sette anni con La Stampa di Torino. Ha tradotto i romanzi del cubano Alejandro Torreguitart Ruiz e ha pubblicato numerosissimi volumi su Cuba, sul cinema e su svariati altri argomenti. Ha tradotto Zoé Valdés, Cabrera Infante, Virgilio Piñera e Felix Luis Viera. Qui la lista completa: www.infol.it/lupi. Ha preso parte ad alcune trasmissioni TV come "Cominciamo bene le storie di Corrado Augias", "Uno Mattina" di Luca Giurato, "Odeon TV" (trasmissione sui serial killer italiani), "La Commedia all’italiana" su Rete Quattro, "Speciale TG1" di Monica Maggioni (tema Cuba), "Dove TV" a tema Cuba. È stato ospite di alcune trasmissioni radiofoniche in Italia e Svizzera per i suoi libri e per commenti sulla cultura cubana. Molto attivo nella saggistica cinematografica, ha scritto saggi (tra gli altri) su Fellini, Avati, Joe D’Amato, Lenzi, Brass, Cozzi, Deodato, Di Leo, Mattei, Gloria Guida, Storia del cinema horror italiano e della commedia sexy. Tre volte presentato al Premio Strega per la narrativa: "Calcio e Acciaio - Dimenticare Piombino" (Acar, 2014), anche Premio Giovanni Bovio (Trani, 2017), "Miracolo a Piombino – Storia di Marco e di un gabbiano" (Historica, 2016), "Sogni e Altiforni – Piombino Trani senza ritorno" (Acar, 2019).