Gli anni spezzati (Gallipoli)

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‹‹Cos’hai nelle gambe ragazzo?››, ‹‹Molle, molle d’acciaio›› ripete Archy (Mark Lee) a suo zio davanti ad una pista improvvisata nell’aria polverosa del Western Australia. Il cronometro non mente e il ragazzo ha i tempi per fare molta strada con le scarpe chiodate ai piedi. Ma sul suo cammino non ci sono le yards di qualche stadio olimpico: determinato ad apportare il suo personale contributo allo sforzo bellico del proprio paese, Archy intraprende un lungo ed estenuante viaggio per unirsi ai volontari australiani impegnati nella Prima Guerra Mondiale. Superate le resistenze dello zio che gli prospetta un futuro di successi sportivi, il ragazzo si dirige verso Perth per arruolarsi, salpare con le truppe dirette a Gallipoli e raggiungere i compatrioti. Sulla traiettoria della corsa verso il fronte Archy trascina nella propria avventura Frank (Mel Gibson), giovane spaccone e squattrinato che decide di seguirlo anche se non ne condivide lo slancio idealistico. Dopo aver attraversato a piedi un deserto, coperto centinaia di miglia oceaniche e completato l’addestramento all’ombra delle piramidi i due ragazzi, stretti da un legame di amicizia istintivo, uniranno le loro storie a quelle delle migliaia di uomini acquartierati nelle anguste trincee incuneate sulla costa turca, nello Stretto dei Dardanelli. Mentre quella che era una realtà lontana e di cui si distinguevano a malapena i contorni diventa il più lucido degli affreschi, Archy e Frank vengono travolti dall’assurdità di un attacco diversivo contro le forze nemiche che, per un errore di coordinamento si trasformerà in un tragico ed annunciato suicidio.

Il film è certamente inscrivibile nel filone del cinema bellico nella misura in cui la guerra, prima come eco proveniente da un mondo lontano e poi come realtà tangibile, costituisce il polo gravitazionale verso il quale si muovono gli eventi e il culmine narrativo dell’intera vicenda. Tuttavia la particolare struttura della pellicola permette un’analisi più periferica della tematica: la vicenda è incentrata sugli anni della gioventù, colmi di sogni, amicizie e ideali e sul loro lento e graduale scricchiolare sotto il peso di forze più grandi, fino a venir spezzati dalla folle violenza della guerra. In questa pellicola Peter Weir (“L’attimo fuggente” 1989, “Master and Commander” 2003) cerca di ricostruire un mondo nascosto di relazioni affettive che vengono stravolte e distrutte dall’agire di pressioni esterne che sfuggono al controllo dei personaggi, anticipando una tematica che svilupperà, analizzandone le implicazioni sociali, nel successivo “The Truman Show” (1998).
Per questo la narrazione si focalizza sul viaggio intrapreso dai due protagonisti e viene contaminata da suggestioni della letteratura picaresca, prediligendo gli aspetti straordinari (la traversata a piedi del deserto orientandosi con il sole e un orologio da taschino) ed esotici (le vicende dei soldati nei bazar e nelle case di piacere egiziani). La grande varietà di luoghi, eventi e situazioni che costellano la vicenda non rispondono a un edonismo fine a se stesso, ma rappresentano un ventaglio di esperienze attraversate dai due giovani nel loro percorso di crescita. I due infatti, abbandonato il luogo sicuro ed uniforme dell’adolescenza (la fattoria di famiglia), si immergono nella molteplicità ammaliante e pericolosa del mondo esterno al recinto sicuro dell’età pre-adulta. A sorreggerli in interviene un’amicizia nata per caso, vero trait-d’union dell’intera narrazione. La forza di questo legame magnetico viene sottolineato dalle scelte stilistiche della regia, che predilige sfondi monocromatici (come il bianco deserto australiano o le piramidi al crepuscolo) per mettere in risalto le figure dei protagonisti, nitide sagome di emozioni che si stagliano in un ambiente astratto.
Il cerchio narrativo arriva al suo compimento quando la metafora della corsa come forza irrompente e trascinante della gioventù incontra il suo punto d’arrivo proprio nei cunicoli sporchi di polvere e di sangue delle trincee: la guerra, inseguita come trofeo per ricompensare le fatiche del percorso, nelle scene conclusive si trasforma nel tragico palcoscenico su cui si esaurisce lo slancio dei protagonisti. Un teatro nel quale i sogni e le speranze vengono piegati dalla morte e dalla logica assurda di ordini militari che condannano le vite di centinaia di uomini (un richiamo alla tradizione di genere precedente, in particolare a Orizzonti di gloria di Kubrick), dove non basta correre veloce come un leopardo per sfuggire a destini e proiettili di cui non possiamo decidere le traiettorie.

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Marco Pinnavaia è nato a Milano nel 1993 e vive a Cusano Milanino, una piccola città giardino che allevia lo stress della vita cittadina. All'università studia Scienze Internazionali per diventare ambasciatore. Dalla fine del liceo ha incominciato a scrivere articoli sia per testate locali ("Sprint&Sport", "Nuovasesto") che per siti online ("La Città di Cinisello", "Vogue.it"). Grazie a Hemingway, Hesse e Garcia Marquez è rinata in lui la passione per le storie meravigliose e antiche che da bambino ascoltava dagli adulti nelle sere d'estate. Così, forse un po' in ritardo, ha provato a prendere in mano la penna per raccontare i sogni e i colori della sua immaginazione. Ama viaggiare con lo zaino in spalla e tutto ciò che riesce a stupirlo. Sogna una barchetta a remi per andare a pescare e tanto tempo per scrivere.

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