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Muoia la guerra

Girovagando su Internet è facile leggere post retrivi che inneggiano al ritorno della leva militare obbligatoria. Corredati da commenti “sagaci” quali: “Lo rivoglio farebbe bene a tanti”, “vero..anche alle ragazze..”, “si impara ad ubbidire..l’umilta’..”, “rispetto educazione regole”, “non c’è più rispetto..poca educazione..e le regole sono considerate follia basta guardarsi in giro..” (commenti che ho riportato nella stessa forma in cui sono stati scritti).

Quando ci si esprime su un argomento bisognerebbe partire dalla propria esperienza personale, se la si ha, per poi, eventualmente, estendere il ragionamento a ciò che si è appreso. In questo caso non ho difficoltà a muovermi da ciò che ho vissuto personalmente, e posso dire che non c’è stato anno della mia vita più sprecato di quello che ho prestato al servizio di leva.
Nell’esercito non s’impara l’umiltà: s’impara l’umiliazione.
Si obbedisce, sì, come schiavi a una catena: malvolentieri. E si deve obbedire a qualsiasi sputacchio d’uomo che abbia un grado maggiore del tuo (cioè tutti) nonché ai “vecchi”, cioè quelli degli scaglioni prima del tuo, che si sentono in diritto, per questa sola ragione, di vessarti e di farti anche violenza, se non ti sottometti a chi dovrebbe essere tuo pari (mi riferisco al cosiddetto “nonnismo”). Ma forse è questo ciò che alcuni “benpensanti” intendono per “rispetto”, per “educazione” e per “regole”: la sopraffazione del più forte sul più debole.
Davvero si può rispettare chi non ci rispetta per niente?
La gerarchia non è educazione: è tirannia. Non auguro a nessun figlio di avere un’educazione del genere. Il che non significa che sia un sostenitore del permissivismo, ma soltanto che, all’interno delle caserme, ho conosciuto soltanto il peggio dell’umanità. A obbedire avevo già imparato dai miei genitori, grazie: non avevo bisogno di idioti in divisa che calcassero la mano senza poter vantare alcun diritto se non quello della costrizione.
Se i genitori hanno abdicato all’educazione dei figli non è l’esercito che deve e può rimediare, né la scuola (che pure ha un ruolo educativo fondamentale), come troppi genitori pretendono. Non è un fallimento dei figli, ma un fallimento di chi li ha cresciuti.
Il rispetto, l’umiltà, l’educazione, le regole del vivere civile si imparano a partire dalla famiglia, non nelle istituzioni (che troppo spesso ne sono la negazione). Se i figli crescono “storti” è, spesso e volentieri, perché l’esempio loro dato non è stato edificante; salvo poi pretendere da loro ciò che i genitori non hanno saputo trasmettere. Né, spesso, fare.
A chi parla di leva obbligatoria senza sapere che cosa sia consiglio la visione del film di Marco Risi “Soldati – 365 all’alba”, che spiega in maniera abbastanza fedele che cosa fosse la leva militare nel nostro Paese.

Si celebra la fine della Seconda Guerra Mondiale e, nel nostro Paese, la Liberazione. Noi di Inkroci vogliamo ricordare quel periodo buio della Storia, e per questo gli dedicheremo ampio spazio lungo tutto l’arco dell’anno. Con l’augurio che una guerra come quella che ha messo a ferro e fuoco l’Europa non debba mai ripetersi, e che il pensiero filomilitarista vada in pensione. Per sempre.

L’arte della scrittura: tra eccesso e mancanza di stile

La letteratura è un vasto panorama in cui gli autori si cimentano nel dare vita a mondi immaginari, personaggi indimenticabili e trame avvincenti. Tuttavia, nel cercare di conquistare il cuore dei lettori, si trovano spesso a navigare tra l’eccesso di stile e la sua totale mancanza.
Due autori di best-seller, Alessandro Baricco e Wilbur Smith, incarnano gli estremi opposti dello spettro stilistico, evidenziando le sfide intrinseche nella ricerca dell’equilibrio tra forma e sostanza.

Alessandro Baricco è noto per il suo stile ricercato, intriso di metafore audaci e giochi linguistici. Tuttavia, il suo eccesso di stile si trasforma spesso e volentieri in un esibizionismo fine a se stesso, mettendo in secondo piano la trama e i personaggi. In opere come “Oceano Mare” o “Seta”, la bellezza delle parole sembra sovrastare la sostanza, al punto che viene da chiedersi se l’autore si sia perso nella sua stessa eloquenza. Sarei portato a rispondere positivamente.

Dall’altro lato c’è Wilbur Smith, autore di best-seller di genere avventuroso: la sua scrittura è spesso descritta come diretta e priva di fronzoli, ma in realtà è talmente priva di stile da risultare sciatta. La sua narrazione si concentra principalmente sugli eventi e sull’azione, lasciando poco spazio alla forma. Il che finisce per tradursi in una mancanza di profondità e complessità non solo nella scrittura, ma anche nello sviluppo della trama, spesso scontata come piace ai lettori che in un romanzo non vogliono troppe situazioni inattese, e nei personaggi, poco più che sagome di cartone su uno sfondo artefatto, il tutto mascherato da un esotismo di maniera ma molto ben documentato.

Tuttavia, entrambi gli autori hanno raggiunto un livello di successo straordinario. Questo solleva una domanda cruciale: i lettori si preoccupano veramente dell’eccesso o della mancanza di stile? La risposta sembra essere un netto no. Il fatto che Baricco e Smith siano entrambi autori di best-seller dimostra che i lettori hanno gusti e preferenze così variegati che è impossibile indicare una formula univoca per il successo.

La chiave, per un autore, sembra essere quella di trovare la propria voce senza preoccuparsi eccessivamente dei due estremi testé illustrati. Ogni autore dovrebbe essere libero di esplorare il proprio stile senza sentirsi vincolato dalle aspettative del pubblico. La diversità dei lettori è tale che c’è un pubblico per ogni tipo di scrittura, che sia ricca di stile o semplicemente funzionale.
In ultima analisi, gli scrittori dovrebbero abbracciare la loro unicità e scrivere con sincerità, sapendo che c’è spazio per tutte le voci.

La Grande Guerra cento anni dopo

Nel 2014 ricorre il centenario dell’inizio della prima guerra mondiale, la guerra della trincea e della mitragliatrice, la guerra per convenzione chiamata “Grande”.
Siamo convinti che, se davvero oggi quella guerra può ancora chiamarsi grande, lo sia soltanto per l’enormità degli orrori e delle stragi che ha provocato. Ciò non toglie che essa debba essere ricordata come uno dei più importanti eventi iniziatici della modernità: la Grande Guerra ha rappresentato un punto di non ritorno, uno di quegli avvenimenti dopo i quali nulla è più come prima. Ciò è vero sia dal punto di vista prettamente storico che da quello scientifico che, infine, da quello culturale.
Bastino pochi esempi e un paio di citazioni a dimostrarlo: fu a seguito della Grande Guerra che – cosa inimmaginabile solo qualche anno prima – si dissolsero repentinamente quattro Imperi un tempo potentissimi (austro-ungarico, tedesco, ottomano e russo), disintegrandosi in una miriade di stati nazionali e dando spazio a una serie di tensioni socio-politiche il cui retaggio, anche se attenuato, è tuttora presente nel mondo.
In quegli anni il progresso della tecnologia ebbe inoltre un massiccio incremento, soprattutto nelle applicazioni militari. Si può dire che la Grande Guerra fu il primo conflitto completamente meccanizzato, in cui la tecnologia iniziò a trasformare gli uomini in macchine, o in loro appendici. Tuttavia, quando i soldati constatarono l’incredibile potenza distruttiva delle nuove armi, nacque e fu trasmessa dai migliori di loro la coscienza pacifista, che è una delle caratteristiche più nobili della società contemporanea. Di questi temi, dosando orrore e dolente meraviglia, parla Ernest Hemingway, autista di ambulanza sul fronte italiano, rappresentando Catherine Barkley, l’infermiera protagonista di Addio alle armi, mentre rievoca un amico inglese caduto sulla Somme: «Ricordo che avevo la stupida idea che potesse capitare nell’ospedale dove ero io. Ferito di sciabola, magari, con una benda intorno al capo… Qualcosa di pittoresco… Non fu ferito di sciabola. Andò in tanti pezzi».
Circa l’influenza della Grande Guerra sul piano culturale, valga per tutte l’icastica testimonianza di Fernand Legér, un grande pittore francese che combatté sul fronte delle Argonne: «Fui affascinato da una culatta di cannone da 75 aperta in pieno sole, magia della luce sul metallo bianco… Mi ha insegnato, per la mia evoluzione artistica, più che tutti i musei del mondo». Sono parole che, lette oggi, suonano forse troppo entusiastiche, ma che dicono plasticamente quanto quel conflitto, con il suo carico di esperienze insieme freddamente meccaniche e violentemente energetiche, abbia agito sugli artisti più ricettivi, svelando loro un nuovo modo di guardare alla realtà. Dopo le parole di Legér è superfluo elencare il grande numero di romanzieri, di poeti, di pittori, di fotografi e di cineasti (un’altra prova della modernità della Grande Guerra è che fu fra i primissimi eventi filmati della storia) che utilizzarono e continuano a utilizzare quel conflitto a soggetto delle loro opere.
Nei cento anni che ci separano dal suo inizio, la memoria pubblica della Grande Guerra, soprattutto in Italia, è stata sempre viva ma, diremo così, lievemente sbilanciata: se, legittimamente, si è rivolta ai luoghi e alle persone legati alle vicende belliche – ne è prova tangibile la toponomastica delle nostre città – più rari sono stati i riferimenti all’eredità culturale che quel conflitto ci ha lasciato. Coerentemente con i principi di Inkroci, sentiamo che il nostro contributo alla celebrazione del centenario debba andar oltre agli eventi militari, e mettere piuttosto in rilievo le voci degli artisti – voci a volte critiche, altre pensose e attonite – che da quegli eventi hanno tratto ispirazione. Potremo così riflettere, insieme ai nostri lettori, sul senso della Grande Guerra e, soprattutto, sull’influsso che essa tuttora riverbera sul presente.
In Inkroci 6 appaiono quattro pezzi sulla Grande Guerra: le recensioni dei film La grande guerra di Mario Monicelli e Uomini contro di Francesco Rosi, e la recensione del romanzo Ragazzi di belle speranze di Nathalie Bauer, corredata dall’intervista all’autrice.

Buona lettura,

Michele Curatolo

 

Come si “incrociano i fili” delle traduzioni

“Ma il guaio è che voi, caro mio, non saprete mai come si traduca in me quello che voi mi dite. Non avete parlato turco, no. Abbiamo usato, io e voi, la stessa lingua, le stesse parole. Ma che colpa abbiamo, io e voi, se le parole, per sé, sono vuote? Vuote, caro mio. E voi le riempite del senso vostro, nel dirmele; e io, nell’accoglierle, inevitabilmente, le riempio del senso mio. Abbiamo creduto d’intenderci; non ci siamo intesi affatto.”
Questa citazione, tratta da Uno, nessuno e centomila (1926) di Luigi Pirandello (1867-1936), mi sembra una indispensabile premessa quando si vuole riflettere sul lavoro del traduttore. Se, come afferma Pirandello, è già difficile “tradurre” quello che si dice pur parlando la stessa lingua, figuriamoci quando si fanno delle trasposizioni da una lingua all’altra. Ma procediamo con ordine.

Da quando, nel 2004, fu pubblicata per i tipi di Bompiani la commedia Un padre ci vuole, di Stefano Pirandello, figlio del più illustre Luigi di cui sopra, che vide la luce grazie all’opera preziosa e infaticabile di Sarah Zappulla Muscarà ed Enzo Zappulla che da anni si impegnano a ridare vita a opere e ad autori ingiustamente scivolati nell’oblio, di questa stessa opera si sono susseguite nel corso del tempo una serie di traduzioni in moltissime lingue. E sempre a opera di illustri professori. Il testo di Stefano Pirandello è stato infatti tradotto in francese, greco, bulgaro, serbo, arabo, spagnolo, inglese australiano e, nel febbraio scorso, è uscita per i tipi di CUEPRESS una nuova traduzione in inglese, britannico questa volta, a cura di Enza De Francisci e Susan Bassnett.
Come sottolineato dalla Bassnett nella prefazione, le traduttrici hanno deciso di attualizzare la lingua di Stefano Pirandello perché, a loro parere, risulterebbe “piuttosto poetica e datata” essendo la commedia stata scritta negli anni Trenta e poi riveduta negli anni Sessanta del secolo scorso. La Bassnett specifica che si è scelto un tipo di linguaggio vicino al pubblico dei nostri giorni, in cui troviamo non solo un lessico più quotidiano, ma tante espressioni idiomatiche tipiche della lingua inglese contemporanea. A questo punto è sorta in me la curiosità di andare a confrontare questa nuova traduzione con qualcuna delle precedenti per scoprire in cosa consistessero realmente le differenze, e ho scelto allora quella francese e quella spagnola, trattandosi delle due lingue con cui ho maggiore dimestichezza essendomi occupata di traduzioni.
Prima di entrare nei dettagli portando qualche esempio interessante, mi corre l’obbligo di precisare che la traduzione di Vicente González Martín, direttore del Dipartimento di Filologia Italiana della Facoltà di Filologia dell’Università di Salamanca, come pure la bella versione della compianta Myriam Tanant, storica del teatro, drammaturga e fine italianista, sono nel complesso “traduzioni letterali” e che nessuno dei due studiosi si è posto il problema di “svecchiare” la lingua di Stefano Pirandello.

Cominciamo allora dal titolo. Un padre ci vuole, in spagnolo Un padre es necesario, in francese Un père, il en faut bien un, in inglese diventa All You Need is a Father ispirato volutamente a una famosa canzone dei Beatles, in quanto, come chiarito nella prefazione da Susan Bassnett, la traduzione letterale, che sarebbe “A father is needed, does not work in English” (non funziona in inglese).
Sempre nella prefazione la traduttrice si sofferma sull’abitudine, che lei ritiene tipicamente italiana, di interrompere continuamente chi sta parlando sovrapponendosi nei dialoghi, cosa considerata manifestazione di pessima educazione dagli inglesi, per cui si è sentita in dovere di eliminare queste interruzioni in più di qualche caso. Questa mi è sembrata una forzatura perché se si tratta, come sottolinea la stessa Bassnett, di un’abitudine tipicamente italiana, bisognava rispettarla in una commedia italiana, ambientata in Italia, con personaggi italiani. Per non dire che tutta la conversazione è giocata su esitazioni, ripensamenti, dialoghi concitati in cui i vari interlocutori si interrompono a vicenda intenzionalmente per far prevalere il proprio punto di vista.

Un’altra osservazione, che mi è nata spontanea, riguarda sempre un titolo, quello della prefazione dei curatori dell’edizione italiana, Un figlio paterno, che allude all’atteggiamento del protagonista, Oreste, il quale, in certi casi, è estremamente protettivo, proprio paterno, nei riguardi del padre. Questo è tradotto dalla Bassnett His Father’s Son cioè Suo padre è il figlio che perde di vista il senso icastico dell’ossimoro del titolo voluto dai curatori. El hijo paterno in spagnolo rende perfettamente il senso originario, la traduttrice francese, invece, ha preferito glissare.
Ma veniamo a qualche altro esempio.

Fin dalle prime battute di dialogo ci imbattiamo in una frase idiomatica che per noi italiani richiede qualche chiarimento. “Sono confuso dalla stanchezza”, che in spagnolo viene reso letteralmente con “Estaba confundido por el cansancio” e in francese con “Je suis confus de fatigue”, in inglese si trasforma in “I’m getting my wires crossed” (“Sto incrociando i miei fili”). Per avere maggiori chiarimenti sul significato di questa espressione sono ricorsa all’aiuto di una mia amica madrelingua inglese la quale mi ha spiegato che il riferimento di questa frase è al lavoro dei centralinisti. E, per comprendere ancora meglio in cosa consistesse questa attività, mi sono documentata su un blog di approfondimento sui mestieri antichi. Ho così scoperto che questo lavoro “consisteva nell’inserire ed estrarre prese a jack provvedendo manualmente allo scambio di telefonate, connettendo tra loro gli utenti”. Ovviamente poteva accadere che, in particolari momenti di intenso traffico telefonico, incrociando per errore i cavi, si creasse confusione, ebbene questa espressione è arrivata fino ai nostri giorni anche se ormai le connessioni sono tutte automatizzate!

Torniamo al nostro testo. Poche battute dopo è stato nettamente modificato il senso di due frasi. La prima: “Per fermarlo: pigliandolo a viva forza” che se in francese e spagnolo, come sempre, conserva il significato letterale (nell’ordine “qui l’arrête: par la force” e “Para detenerlo: sujetándolo con todas las fuerzas”) in inglese diventa “to physycally stop him from all this nonsense” (cioè “per fermarlo da tutte queste sciocchezze”). E, subito dopo, continuando su questa falsariga, la seconda: “lo strapazzi ben bene” (“secouez le bien” in francese e “le regañe bien” in spagnolo) diventa “knock some sense into him” (“dagli un po’ di buon senso”) che però non lega più con la battuta successiva che, invece, viene resa letteralmente (“a costo di prenderlo per il collo” – “even if I have to sgrab him by the scruff of the neck”).
“Non mi cimenti” diventa così “not to bother me” (“non mi disturbi” – è comprensibile che questa possa davvero sembrare un’espressione antiquata – ma la traduzione sembra decisamente fuorviante), mentre “no me provoque” e “ne me provoque pas”, rispettivamente in spagnolo e in francese, rendono alla lettera il senso del testo originale.

In altri casi, però, la traduzione risulta più efficace del testo originale, in tutte e tre le lingue: infatti “se lui sgarra”, espressione davvero antiquata e pure inadeguata a rendere il senso, è resa con “if something happens to him (“se gli accade qualcosa”), “si él no volviese” (“se non ritorna”),  “quand il est en retard” (“se ritarda”).
Ma subito dopo, nella stessa pagina “Il proposito di uccidersi lo mise in atto sì o no?” diventa “Did he or did not threaten to kill him self? (“ha minacciato o no di uccidersi?”) che falsa completamente il senso e contrasta con quanto viene affermato subito dopo: “restò quasi cinque mesi tra la vita e la morte”.

Più letterali come sempre lo spagnolo “El intento de matarse lo llevó a cabo sí o no?” e il francese “Il a tenté de se tuer oui ou non?” Mettere in atto non è minacciare, sembra evidente specialmente se si resta “cinque mesi tra la vita è la morte”!
Spesso non risulta chiaro l’intento della Bassnett e della De Francisci, anzi, a volte l’esigenza di attuare una “domestication”, di rendere cioè più familiari le espressioni usate, porta a risultati che fanno sorridere come quando la frase “A freddo! Lo vede? A freddo!”, che allude all’atteggiamento di Oreste che intenzionalmente vuole farsi trovare dal padre in stato di agitazione, diventa “He’s calm! See that? Cool as a cucumber! (“È calmo! Lo vedi? Fresco come un cetriolo!”).

Un’altra frase idiomatica non necessaria, a mio parere, è “you’ve got the wrong end of the stick” (ha preso la parte sbagliata del bastone), che traduce “lei si sbaglia”, espressione che deve essere sembrata, forse, troppo banale.
Sono perciò molteplici i fraintendimenti ma mi soffermerò soltanto su quelli che mi sembrano i più vistosi.
Ad esempio, alla fine del primo atto ci imbattiamo in una traduzione, senz’altro molto “british”, che rende l’italiano “Che vergogna! Che vergogna!” con “It’s so embarrassing! So embarrassing!” (“È così imbarazzante! Così imbarazzante!”). Mentre, all’inizio del secondo atto, l’antiquato e letterario “Che sciagura!” diventa il più colloquiale “Such a mess!” (Che casino!), espressione sicuramente meno “british” della precedente ma molto in uso in tutte le occasioni nell’inglese colloquiale, però le traduttrici la mettono in bocca non solo a personaggi appartenenti alla “lower class” come Cravanzola, che è un mercante di campagna, ma anche a Oreste e a un professionista come il dottor Bruti, venendo così meno al proprio intento di utilizzare i registri linguistici caratteristici delle diverse classi sociali di appartenenza dei vari personaggi attraverso l’uso di “linguistic class markers” (indicatori linguistici di classe).

Un altro termine di uso molto frequente nell’inglese contemporaneo è “bloody”, un intercalare che serve per enfatizzare il discorso. Così “alto consenso” diventa “bloody consent” (“maledetto consenso”), e anche il semplice “lo credo bene” diventa “I should bloody well hope so” (“lo dovrei credere maledettamente bene”), ma “je veux bien le croire” in francese e “me gustaría creerle” in spagnolo, a mio parere, sono versioni decisamente migliori.
Va meglio, per fortuna, quando si deve rendere un’espressione idiomatica italiana che, ovviamente, è intraducibile e quindi lascia spazio alle traduttrici. “Mettere nel sacco anche me” per gli inglesi è “Pull the wool over my eyes as well! (Tira la lana anche sui miei occhi). La Tanant sceglie, a sua volta, l’espressione: “Me rendre complice de ça” (“Mi rendi complice di ciò”); González Martín, invece, traduce semplicemente: “Meterme tambien a mí en el saco”. Anche in un altro caso la traduzione inglese, che si serve di un’espressione idiomatica, risulta più convincente dell’italiano: “Io devo obbligarlo a non credersi sciolto” si trasforma in “I have to make him not fell like he’s off the leash!” (“devo fare in modo che non si senta fuori dal guinzaglio”).

Molti altri sarebbero gli esempi interessanti da riportare ma è meglio fermarsi qui, aggiungendo soltanto che una comprensione completa di tutte le sfumature dell’opera, con le loro conseguenti traduzioni, efficaci e fedeli, si riscontra solo nel lavoro del prof. Vicente González Martín il quale, senza apportare tagli immotivati di parti di testo, e, soprattutto, senza eseguire “voli creativi”, si attiene scrupolosamente a quanto scritto da Stefano Pirandello rendendolo in modo davvero impeccabile.
Anche la traduzione della prof.ssa Myriam Tanant è pregevole pur se, a volte, sembra evitare gli ostacoli semantici e interpretativi, sorvolando su frasi particolarmente ostiche.

Per quanto riguarda infine la versione di Enza De Francisci e Susan Bassnett mi sono lungamente soffermata su di essa nelle pagine precedenti e, in conclusione, non posso che fare mie le convinzioni delle stesse traduttrici secondo cui “any translation is a process of negotiation and intercultural mediation” (“ogni traduzione è un processo di negoziazione e mediazione interculturale”) e allora, da questo punto di vista, la loro traduzione può ritenersi riuscita.

 

L’arte sottile della traduzione letteraria: dando vita all’ineffabile

Illustrazione di Gerd Altmann

Nel mondo della letteratura, le parole sono come gioielli preziosi che compongono la collana dell’opera che si ha tra le mani. La traduzione letteraria si erge come un ponte tra culture e lingue diverse, consentendo ai capolavori (e non solo) di attraversare frontiere e raggiungere nuovi pubblici. Ma catturare l’anima di un’opera in un’altra lingua è un’impresa ardita e complessa, che richiede molto più di una semplice competenza linguistica. L’importanza di una buona traduzione letteraria risiede nella capacità di trasmettere non solo il significato delle parole, ma anche l’essenza, lo stile, il senso e l’emozione dell’opera originale.

L’essenza di una buona traduzione letteraria
Quando si parla di “buona” traduzione letteraria, ci si riferisce a un processo che va oltre la traduzione meccanica delle parole. Una buona traduzione cattura l’anima e il tono dell’opera originale, trasmettendone le sfumature, le emozioni e la bellezza che l’autore ha inteso comunicare. Non si tratta solo di rendere correttamente i significati letterali, ma di creare un’esperienza simile a quella che il lettore avrebbe avuto leggendo il testo originale.

I giusti “tradimenti” del testo originale
Una delle sfide più affascinanti della traduzione letteraria è la necessità di compiere giusti “tradimenti” al testo originale. Che cosa si intende per “tradimento”, in questo contesto? Si tratta di deviazioni controllate che un traduttore può prendere per preservare lo spirito dell’opera originale, adattandola alla cultura e alla lingua di destinazione. Questi tradimenti possono includere:

  1. Sfumature linguistiche – Alcune espressioni o giochi di parole che funzionano perfettamente in una lingua potrebbero risultare incomprensibili in un’altra. Qui il traduttore deve fare una scelta oculata per preservare l’effetto desiderato.
  2. Ritmo e struttura – Le strutture sintattiche e i ritmi del linguaggio variano da lingua a lingua. Un traduttore abile lavorerà per catturare il ritmo e la cadenza del testo originale, adattandoli in modo armonioso alla lingua di destinazione.
  3. Cambiamenti culturali – Alcuni riferimenti culturali possono essere oscuri o inappropriati nella lingua di destinazione. I traduttori possono sostituire questi riferimenti con elementi culturali comprensibili o pertinenti nella nuova cultura.
  4. Sottotesti ed Emozioni – Spesso, il vero significato di un testo risiede nelle sfumature, nelle implicazioni e nelle emozioni sottostanti. Una buona traduzione cercherà di preservare queste componenti, anche se ciò richiede una riformulazione delle parole.

Un esempio: “Cent’anni di solitudine” di Gabriel García Márquez
Un esempio classico di buona traduzione letteraria è l’opera “Cent’anni di solitudine” di Gabriel García Márquez. Questo romanzo magistrale è stato tradotto in molte lingue con grande successo, grazie alla maestria dei traduttori nel catturare la magia e l’enigma dell’originale. La traduzione ha reso possibile il viaggio attraverso le generazioni della famiglia Buendía e ha consentito ai lettori di tutto il mondo di immergersi nell’universo affascinante e surreale creato dall’autore colombiano.

Tradurre richiede dunque sensibilità, profonda comprensione culturale e maestria linguistica. Una buona traduzione letteraria è quella che trasmette il cuore e l’anima dell’opera originale, donando nuova vita e significato all’arte dell’autore per un pubblico completamente diverso.

 

L’arte sottile della traduzione letteraria: dando vita all’ineffabile

Nel mondo della letteratura, le parole sono come gioielli preziosi che compongono la collana dell’opera che si ha tra le mani. La traduzione letteraria si erge come un ponte tra culture e lingue diverse, consentendo ai capolavori (e non solo) di attraversare frontiere e raggiungere nuovi pubblici. Ma catturare l’anima di un’opera in un’altra lingua è un’impresa ardita e complessa, che richiede molto più di una semplice competenza linguistica. L’importanza di una buona traduzione letteraria risiede nella capacità di trasmettere non solo il significato delle parole, ma anche l’essenza, lo stile, il senso e l’emozione dell’opera originale.

L’essenza di una buona traduzione letteraria
Quando si parla di “buona” traduzione letteraria, ci si riferisce a un processo che va oltre la traduzione meccanica delle parole. Una buona traduzione cattura l’anima e il tono dell’opera originale, trasmettendone le sfumature, le emozioni e la bellezza che l’autore ha inteso comunicare. Non si tratta solo di rendere correttamente i significati letterali, ma di creare un’esperienza simile a quella che il lettore avrebbe avuto leggendo il testo originale.

I giusti “tradimenti” del testo originale
Una delle sfide più affascinanti della traduzione letteraria è la necessità di compiere giusti “tradimenti” al testo originale. Che cosa si intende per “tradimento”, in questo contesto? Si tratta di deviazioni controllate che un traduttore può prendere per preservare lo spirito dell’opera originale, adattandola alla cultura e alla lingua di destinazione. Questi tradimenti possono includere:

  1. Sfumature linguistiche – Alcune espressioni o giochi di parole che funzionano perfettamente in una lingua potrebbero risultare incomprensibili in un’altra. Qui il traduttore deve fare una scelta oculata per preservare l’effetto desiderato.
  2. Ritmo e struttura – Le strutture sintattiche e i ritmi del linguaggio variano da lingua a lingua. Un traduttore abile lavorerà per catturare il ritmo e la cadenza del testo originale, adattandoli in modo armonioso alla lingua di destinazione.
  3. Cambiamenti culturali – Alcuni riferimenti culturali possono essere oscuri o inappropriati nella lingua di destinazione. I traduttori possono sostituire questi riferimenti con elementi culturali comprensibili o pertinenti nella nuova cultura.
  4. Sottotesti ed Emozioni – Spesso, il vero significato di un testo risiede nelle sfumature, nelle implicazioni e nelle emozioni sottostanti. Una buona traduzione cercherà di preservare queste componenti, anche se ciò richiede una riformulazione delle parole.

Un esempio: “Cent’anni di solitudine” di Gabriel García Márquez
Un esempio classico di buona traduzione letteraria è l’opera “Cent’anni di solitudine” di Gabriel García Márquez. Questo romanzo magistrale è stato tradotto in molte lingue con grande successo, grazie alla maestria dei traduttori nel catturare la magia e l’enigma dell’originale. La traduzione ha reso possibile il viaggio attraverso le generazioni della famiglia Buendía e ha consentito ai lettori di tutto il mondo di immergersi nell’universo affascinante e surreale creato dall’autore colombiano.

Tradurre richiede dunque sensibilità, profonda comprensione culturale e maestria linguistica. Una buona traduzione letteraria è quella che trasmette il cuore e l’anima dell’opera originale, donando nuova vita e significato all’arte dell’autore per un pubblico completamente diverso.

la redazione

 

L’importanza degli autori di racconti

Dopo il nostro editoriale del n. 15, La grande forza della brevità, alcuni lettori ci hanno chiesto un elenco di autori che abbiano fatto della forma racconto qualcosa di memorabile: scettici o immemori, ci hanno sfidato a dimostrare che le nostre affermazioni trovano riscontro nella realtà.
Al di là della considerazione che quasi tutti i giganti della narrativa si sono cimentati, più o meno spesso, con la forma breve, ci sono alcuni autori che hanno lasciato un’impronta significativa nella narrativa breve e che sono generalmente considerati tra i migliori. Ecco dieci di loro:

  1. Edgar Allan Poe (1809-1849)
    Poe è spesso considerato uno dei padri della narrativa breve moderna. I suoi racconti come “Il cuore rivelatore”, “Il pozzo e il pendolo” e “La caduta della Casa Usher” sono esempi classici di narrativa gotica e psicologica, in cui l’autore esplora i confini tra la realtà e l’irrazionale.
  1. Anton Čechov (1860-1904)
    Čechov è noto per la sua abilità nel ritrarre la vita quotidiana e le complessità dell’animo umano. I suoi racconti, come “La signora con il cagnolino”, sono esemplari di sottigliezza psicologica e analisi sociale.
  1. Franz Kafka (1883-1924)
    Kafka è famoso per i suoi racconti surreali e allegorici, che esplorano l’alienazione e l’assurdità dell’esistenza umana. Opere come “La metamorfosi” e “Nella colonia penale” sono emblematiche della sua narrativa visionaria.
  1. James Joyce (1882-1941)
    Joyce è noto per la sua prosa innovativa e sperimentale. Racconti come quelli contenuti nella raccolta “Gente di Dublino”, per esempio “Il morto” e “Un incontro”, mostrano la sua maestria nell’esplorare la psicologia dei personaggi e nel creare atmosfere suggestive.
  1. Alice Munro (1931-vivente)
    Munro è una delle grandi maestre contemporanee della narrativa breve. I suoi racconti, spesso ambientati nelle zone rurali del Canada, esplorano le dinamiche familiari e le complessità umane. Ha vinto numerosi premi, inclusi il Nobel per la Letteratura nel 2013.
  1. Raymond Carver (1938-1988)
    Carver è noto per il suo stile minimalista e la capacità di catturare momenti di rivelazione e crisi nella vita quotidiana. Raccolte come “Cattedrale” e “Di che cosa parliamo quando parliamo d’amore” sono considerate pietre miliari della narrativa breve contemporanea.
  1. Jorge Luis Borges (1899-1986)
    Borges è celebre per i suoi racconti sottili e metafisici. Le sue opere esplorano concetti filosofici e metafisici attraverso narrazioni ingannevolmente semplici, come in racconti come “La biblioteca di Babele” e “l’Aleph”. Lui stesso, nella collana si autori vari intitolata a sua volta “La biblioteca di Babele”, che curò per Franco Maria Ricci, suggerì tutto una serie di autori e racconti memorabili.
  1. Giovanni Verga (1840-1922)
    Giovanni Verga è uno dei principali esponenti del verismo italiano. I suoi racconti, spesso ambientati in Sicilia, offrono ritratti realistici della vita rurale e delle sue difficoltà. Opere come “Cavalleria rusticana” e “Rosso Malpelo” sono esempi iconici del suo stile.
  1. Luigi Pirandello (1867-1936)
    Pirandello è conosciuto per la sua profonda esplorazione dell’identità e della relatività della verità. I suoi racconti, come “Il fischio del treno”, “La carriola” e “La patente”, presentano spesso situazioni paradossali e personaggi che sfidano le convenzioni sociali.
  1. Flannery O’Connor (1925-1964)
    Flannery O’Connor è un’autrice statunitense celebre per i suoi racconti che esplorano temi religiosi, morali e sociali attraverso uno stile fortemente caratterizzato. Opere come “Un brav’uomo è difficile da trovare” riflettono la sua scrittura audace e spesso grottesca.

Ogni autore ha portato un contributo unico alla narrativa breve, esplorando una vasta gamma di temi, stili e prospettive. Questi sono solo alcuni degli autori di racconti più noti e influenti nella storia della letteratura. Tuttavia, ne esistono molti altri che hanno contribuito a plasmare il panorama letterario nel corso del tempo. Magari ne parleremo in alcuni dei prossimi editoriali.
In opgni caso noi, come sempre, ve ne proponiamo alcuni anche in questo numero.

Buona lettura,

la redazione

La grande forza della brevità: l’importanza del racconto in narrativa

Nel vasto panorama della letteratura, il romanzo spesso ruba la scena, attirando l’attenzione con le sue pagine fitte di trame elaborate e personaggi intricati. Tuttavia, l’importanza della narrativa breve, in particolare del racconto, non può essere sottovalutata.
Sebbene possa sembrare meno imponente rispetto al romanzo, il racconto possiede una profonda forza in sé, capace di colpire direttamente il cuore dei lettori. È tempo di smantellare l’idea che la brevità debba essere associata a una narrativa minore, poiché il racconto è una forma d’arte complessa e affascinante che merita attenzione e rispetto.

1. L’Arte della Concentrazione
Una delle caratteristiche più significative del racconto è la sua capacità di concentrarsi su un nucleo tematico o emotivo senza diluirsi in sottotrame elaborate. In una società sempre più affaccendata, nella quale il tempo è un bene prezioso, il racconto risuona con forza. Gli autori devono scegliere con cura le parole e le scene da rappresentare per suscitare emozioni profonde in uno spazio limitato. Questa concentrazione narrativa richiede maestria e abilità nell’arte dell’essenzialità.

2. L’Impatto Emotivo
Nonostante la sua brevità, un racconto ben scritto può avere un impatto emotivo tanto potente quanto un romanzo. La condensazione delle esperienze umane e delle emozioni in poche pagine può creare un’intensità che permane nel lettore molto tempo dopo aver concluso la lettura. La forma compatta del racconto richiede che l’autore catturi l’essenza di un momento, incanalando le emozioni in modo tangibile e coinvolgente.

3. Spazio per l’Immaginazione
L’arte del racconto spesso risiede nella capacità di suggerire, piuttosto che di dichiarare apertamente. L’uso sapiente della sospensione, dei sottintesi e dei dettagli evocativi spinge i lettori a coinvolgersi attivamente nella creazione dell’immagine mentale. Questa collaborazione tra autore e lettore lascia spazio alla fantasia, stimolando un coinvolgimento profondo e personale con la storia.

4. L’Esplorazione di Temi Profondi
Nonostante la sua estensione ridotta, il racconto può affrontare temi complessi. L’assenza di spazio per deviazioni o trame secondarie spinge l’autore a sondare le sfumature più profonde dell’umanità in modo diretto ed efficace. La brevità può essere un’opportunità per mettere a nudo emozioni e dilemmi morali senza diluirli in dettagli superflui.

5. L’Arte della Finezza
Scrivere un racconto richiede abilità nel controllo del ritmo, della tensione e dell’atmosfera. Ogni parola, ogni frase ha un peso specifico e contribuisce alla costruzione dell’intero. Gli autori di racconti devono essere maestri della finezza, capaci di creare effetti duraturi con un numero limitato di strumenti narrativi.

Il racconto, a nostro parere, merita dunque di essere riconosciuto come un’arte letteraria di grande rilevanza, e non come una forma minore rispetto al romanzo. La sua brevità è una forza, non un limite, che sfida gli autori a concentrare l’essenza di una storia in poche pagine. Quindi, la prossima volta che ti imbatterai in un racconto, concedigli il tempo e l’attenzione che merita, perché potresti trovarvi una potenza narrativa sorprendente che non può essere ignorata.

la redazione

Che diritti ha la poesia?

Immagine: ThoughtCatalog

In campo legale, la poesia ha tutta una serie di diritti codificati dal diritto d’autore Ma possiede anche una serie di diritti che le derivano dalla sua natura artistica, creativa e culturale. Questi diritti non sono codificati come leggi, ma riflettono piuttosto l’importanza della poesia all’interno della letteratura. Abbiamo quindi voluto stilare un breviario in otto punti per sottolineare quelli che riteniamo essenziali, sia dal punto di vista dei lettori che da quelli dei poeti.

  1. Diritto all’interpretazione personale – La poesia è spesso aperta a molteplici interpretazioni. Come ogni poeta possiede il diritto di esprimersi liberamente, così ogni lettore ha quello di interpretare una poesia in base alle proprie esperienze, emozioni e prospettive personali. Questo diritto all’interpretazione consente alla poesia di essere significativa e rilevante per una vasta gamma di lettori.
  2. Diritto all’ambiguità – Molte poesie propongono domande senza risposte definitive, creando un senso di ambiguità. Questo diritto le consente di sfidare i confini della comprensione e di lasciare spazio a molteplici livelli di significato.
  3. Diritto alla sperimentazione linguistica – La poesia ha la libertà di giocare con la forma e il suono delle parole. Questo permette agli autori di sperimentare con la lingua, creando giochi di parole, ritmi e suoni unici che vanno oltre le regole grammaticali tradizionali.
  4. Diritto all’emozione e all’ispirazione – La poesia ha il potere di evocare emozioni profonde e ispirare riflessioni interiori. Questo diritto le consente di affrontare temi emotivi e universali, fornendo un mezzo per esprimere e condividere sentimenti complessi.
  5. Diritto alla critica sociale e politica – Molte poesie affrontano questioni sociali e politiche, offrendo una piattaforma per l’esplorazione critica della realtà. Questo diritto consente alla poesia di agire come voce per il cambiamento e la consapevolezza sociale.
  6. Diritto all’innovazione e alla sperimentazione – La poesia ha il diritto di rompere con le convenzioni letterarie tradizionali e di cercare nuove forme espressive. Questo le permette di adattarsi ai cambiamenti culturali e tecnologici, rimanendo una forma d’arte vitale.
  7. Diritto alla memoria e all’eredità culturale – La poesia è un modo di catturare momenti, emozioni e storie nel tempo, il che le consente di preservare la memoria e di contribuire alla ricchezza dell’eredità culturale.
  8. Diritto alla bellezza e all’estetica – La poesia ha il diritto di celebrare la bellezza delle parole e delle immagini, creando opere che ispirino un apprezzamento estetico.

Questi diritti contribuiscono a rendere la poesia una forma d’arte unica e preziosa che può connettersi profondamente con gli individui, la cultura e la letteratura. Non ce ne vogliano quindi i lettori che non sanno diguazzare con l’ambiguità, che detestano i doppi sensi e i giochi di parole, che non contemplano l’evoluzione di questo genere letterario, che non reggono l’emotività o che ritengono fuori luogo che la poesia si occupi del campo politico o di quello sociale, e così via: partono da pregiudizi tanto ritriti quanto fatui per non dover compiere la fatica di affrontare un linguaggio che è sì complesso, ma non complicato, e che li obbligherebbe a compiere la fatica del pensiero.

Noi siamo piuttosto sospettosi nei confronti dell’estetica superficiale e della poesia autoreferenziale, preferendo opere che affrontino temi universali. Non che i vari generi di poesia non possano o non debbano coesistere, o che la forma non voglia la sua parte – anzi, è indispensabile -, ma crediamo importante anche la sfida di conciliare l’arte con la politica e la società. L’alienazione e la superficialità presenti nella cultura di massa sono dovuti in parte al disimpegno e alla superficialità, ma anche a una direzione ben precisa indotta da chi detiene il potere, una strada che impone di adeguarsi allo zoppo, zoppicando con lui, invece di imparare a camminare: ecco dunque l’importanza di un impegno critico e intellettuale per comprendere il mondo circostante e cantarlo in poesia.

Non dimentichiamo però l’importanza della memoria e della tradizione letteraria: siamo circondati da improvvisati che la poesia non sanno nemmeno che cosa sia, ma che si pretendono poeti e scambiano prose più o meno infarcite di aulicismi scansiti da degli a-capo con la poesia vera e propria. Sarebbe bene, invece, che gli aspiranti poeti conoscessero i classici, pur scrivendo in versi liberi o sciolti: la poesia, come tutte le forme d’arte, dev’essere collegata al grande magma di cui è semplicemente l’istmo più recente, al calderone culturale che ha forgiato il presente; una solida base di cultura letteraria è dunque indispensabile.

Da qualche tempo ci stiamo occupando di poesia in maniera maggioritaria rispetto al passato. E anche in questo numero di Inkroci troverete pane per i vostri denti. Magari vi verrà anche la curiosità di collocare ciò che leggerete in una o più delle otto voci elencate sopra, sbizzarrendovi nello stabilire quanto quelle categorie siano o meno efficaci a identificare il materiale poetico sotto i vostri occhi. Siamo sicuri che questo vi porterà a riflettere su ciò che avete letto in maniera più attenta.

Non ci resta dunque che augurarvi buona lettura,

la redazione

Il nuovo? Non è così importante

Immagine di Oberholster Venita (ArtsyBee)

L’estate è una stagione magica, un periodo in cui il sole splende radiante nel cielo, le giornate si allungano e il ritmo frenetico della vita quotidiana sembra rallentare. È anche un momento in cui spesso ci assale un senso di colpa, quella sensazione sottile che ci suggerisce che dovremmo utilizzare questi mesi estivi per recuperare tutto ciò che ci siamo persi durante l’anno: i libri che non abbiamo letto, i film che non abbiamo visto, le canzoni che non abbiamo ascoltato. La paura di rimanere indietro rispetto alle ultime novità culturali sembra spingerci a intraprendere una frenetica corsa contro il tempo. Ma forse, in questa ricerca del nuovo a tutti i costi, ci stiamo allontanando da una fonte essenziale di felicità: l’indifferenza verso il nuovo e la riscoperta dei classici.

L’era digitale in cui viviamo ci ha messo a disposizione un’abbondanza di contenuti e informazioni come mai prima d’ora. I social media, i servizi di streaming e le piattaforme online ci bombardano costantemente con una miriade di nuovi libri, film, serie TV, album musicali e molto altro ancora. È facile sentirsi sopraffatti da questa valanga di novità e credere che, per essere culturalmente rilevanti, dobbiamo stare al passo con tutto ciò che è appena uscito. Tuttavia, in questa corsa verso il nuovo, rischiamo di trascurare un aspetto fondamentale della nostra identità culturale: la memoria letteraria.

La memoria letteraria non riguarda solo la conoscenza dei grandi classici della letteratura, ma anche la capacità di apprezzare la bellezza intramontabile delle opere che hanno resistito alla prova del tempo. Questi capolavori, che hanno catturato l’essenza dell’umana esperienza in ogni epoca, ci offrono una finestra privilegiata sul passato e ci collegano a una tradizione culturale più ampia. Attraverso i classici, possiamo (ri)scoprire la profondità delle emozioni umane, le sfide universali e le riflessioni che hanno affascinato generazioni passate.

L’indifferenza verso il nuovo non significa ignorare completamente ciò che accade nel mondo culturale contemporaneo, ma piuttosto concedersi il permesso di non seguire ciecamente ogni tendenza effimera. È un invito a ritornare ai “fondamentali”, a immergersi nelle pagine di un romanzo che ha attraversato i secoli anziché affrettarsi a leggere l’ultimo bestseller. È un invito a riscoprire i film che hanno influenzato generazioni piuttosto che cercare disperatamente di vedere tutto ciò che è uscito quest’anno. È un invito a immergersi nella bellezza senza tempo della musica classica o del rock che ha plasmato la musica recente, anziché correre dietro alle ultime hit.
L’importanza della riscoperta dei classici risiede anche nella profondità dell’esperienza che ci offrono. I classici non sono solo intrattenimento; sono l’incarnazione di pensieri profondi, analisi della natura umana e riflessioni sulla società. Ci invitano a fermarci, a pensare, a discutere e a riconsiderare le nostre prospettive. Questo processo d’immedesimazione e riflessione è un antidoto contro la superficialità della cultura moderna, in cui spesso ci lasciamo trasportare da sensazioni effimere senza affondare mai veramente nelle profondità dell’arte e del pensiero.

L’estate, dunque, può essere un momento perfetto per riflettere sulla bellezza e l’importanza della memoria, che ci permette di cogliere riferimenti anche nel nuovo che altrimenti avremmo ignorato, scambiando spesso per inedito ciò che invece è solo fotocopia di qualcos’altro venuto prima. Perché ogni piccolo prodotto culturale è un elemento del grande contenitore che è la nostra storia culturale.
Così, per quest’estate e oltre, possiamo trovare gioia nel passato tanto quanto nel presente, celebrando anche i classici e arricchendo così la nostra cultura e la nostra prospettiva sui prodotti più recenti.

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