Cultura senza contesto

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Consultando il catalogo della maggioranza delle case editrici italiane ci si rende conto che, in elenco, gli scrittori nostrani sono una minoranza. È vero che l’Italia, territorialmente piccola, è una minoranza anche geografica  ma è altrettanto vero che in ogni Paese del mondo si tende a dare ampio spazio agli autori nazionali: l’Italia, in questo senso, è in controtendenza.
Scelte editoriali imposte dall’alto? Non solo. A mio avviso, si tratta di una conformazione propria della cultura italiana: una cultura che soffre, ormai da molto tempo, di esterofilia; peggio, di una dipendenza (anche storica) dalla cultura statunitense.
In particolare, nell’ultimo ventennio l’Italia ha subito anche le conseguenze di una politica liberista che affonda le proprie radici negli anni Ottanta e nella cultura che quel periodo ha generato. Vorrei quindi soffermarmi sul concetto di “cultura”.
Il vocabolario della lingua italiana di Nicola Zingarelli ne dà innanzitutto la seguente definizione: “Complesso di cognizioni, tradizioni, procedimenti tecnici, tipi di comportamento e sim., trasmessi e usati sistematicamente, caratteristico di un dato gruppo sociale, di un popolo, di un gruppo di popoli o dell’intera umanità”.  La letteratura, quindi, non germina da sé stessa, ma è figlia dell’humus culturale in cui anche lo scrittore (che è prima di tutto un lettore, un fruitore) cresce e sviluppa il proprio pensiero.
I vocabolari stessi mutano le definizioni associate ai lemmi riportati a seconda del periodo storico e culturale che si sta attraversando, adattandosi così alla norma prevalente in quel momento. E sotto “letteratura”, adesso, troviamo questa descrizione: “Attività indirizzata alla produzione sistematica di testi scritti con finalità prevalentemente estetica e nei quali spesso l’invenzione predomina sulla descrizione della realtà” (ibidem).
Ci accorgiamo subito che questa formula si attaglia perfettamente alla letteratura italiana moderna. Sembra di leggere una descrizione sommaria ma precisa della maggioranza dei romanzi prodotti dagli autori italiani più popolari. Per questi scrittori la finalità è esclusivamente estetica e di pura invenzione, e le loro opere sono prive di contenuto, di un tema individuabile e di descrizioni della realtà viva nella quale lo scrittore dovrebbe essere immerso (non è un caso che buona parte della produzione sia dedicata a feuilleton pseudo-storici). Autori che non ci dicono nulla del nostro tempo, del tempo in cui vive il narratore, né della nostra storia, se non “l’estetica della parola vuota” (L. Gregori).
Dato che il nostro campo d’indagine è la letteratura degli anni in cui viviamo, vorrei ritornare proprio a questo. Scopro però, cercando le definizioni che mi servono, che queste, invece di restringere il campo d’indagine, lo allargano. Lo Zingarelli, infatti, dà di “romanzo”, oltre alle accezioni relative al mondo classico e a quello medievale, quella relativa al mondo moderno: “ampio componimento narrativo, fondato su elementi fantastici o avventurosi, su grandi temi sociali o ideologici, sullo studio dei costumi, dei caratteri o dei sentimenti”.
Balza all’occhio come la descrizione di “romanzo” sia ampiamente in antitesi con quella di “letteratura”. Improvvisamente si parla anche di temi sociali e ideologici, di costumi, caratteri e sentimenti (quindi di realtà), che non facevano neppure capolino nella definizione di “letteratura”; si parla, in senso ristretto, anche di “cultura”.
A questo punto sorge spontaneo un dubbio: ma dunque il romanzo non fa parte della letteratura quando tratta i temi succitati? O semplicemente il vocabolario, registrando i mutamenti epocali, aggiorna la definizione di letteratura ma deve necessariamente riportare quella storica di romanzo, indipendentemente dalla sua aderenza alla produzione attuale?
Un’altra domanda importante che dobbiamo porci è: chi scrive letteratura?
Tralasciando la risposta più lapalissiana – gli scrittori –, potrebbe venir spontaneo rispondere: gli intellettuali. Controlliamo dunque la definizione di “intellettuale”: “Chi si dedica prevalentemente ad attività connesse con il sapere ed il pensiero, ha vasti interessi culturali, produce opere di tipo letterario, artistico, scientifico e sim.” (ibidem). E, tra le definizioni di “cultura” troviamo, come seconda, la seguente: “Patrimonio di conoscenze di chi è colto” (ibidem).
Quindi la figura dell’intellettuale è legata alla cultura, e l’intellettuale, grazie alla propria cultura (sapere, pensiero), può produrre opere di tipo letterario. Ma se “proprio della cultura è suscitare nuove idee e bisogni meno materiali, formare una classe di cittadini più educata e civile” (De Sanctis), a che cosa ci troviamo di fronte quando pensiamo a esponenti letterari che producono solo vuoti di senso, pur atteggiandosi a intellettuali e pur essendo dotati di una buona erudizione?
Mi limito a sottolineare come le opere di questi scrittori dei nostri tempi, figli della cultura che ci ha soggiogati nell’ultimo ventennio, non suscitino nuove idee e bisogni immateriali, non contribuiscano a formare cittadini più civili, non esprimano pensieri e sapere, non stimolino interessi culturali. Perché, dunque, un tale successo? E un tale tipo di scrittore può correttamente autoproclamarsi intellettuale? Produce veramente letteratura?
Dunque, perché non ci sono che pochi scrittori italiani pubblicati? Per provare a rispondere a questa e ad altre domande su questa latitanza occorre, secondo me, prendere in considerazione la civiltà in cui lo scrittore nasce, cresce e si esprime poiché lo scrittore, come qualsiasi altro componente la società, ne è un prodotto. E occorrerebbe quindi analizzare la questione anche da un punto di vista sociologico, psicologico, antropologico e, soprattutto, politico ed economico. Il che, francamente, va al di là delle mie possibilità.
Una risposta parziale, a mio modo di vedere, si trova, in nuce, in una frase di Claudio Magris: “la vera letteratura non è quella che lusinga il lettore, confermandolo nei suoi pregiudizi e nelle sue insicurezze, bensì quella che lo incalza e lo pone in difficoltà, che lo costringe a rifare i conti col suo mondo e con le sue certezze”.
La frase citata, però, apre a sua volta una riflessione sulla società in cui viviamo, e più marcatamente su quella italiana: una società che cerca in ogni modo di evitare ai suoi componenti di dover fare i conti con il proprio mondo e con le proprie false certezze.

Heiko H. Caimi

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Heiko H. Caimi, classe 1968, è scrittore, sceneggiatore, poeta e docente di scrittura narrativa. Ha collaborato come autore con gli editori Mondadori, Tranchida, Abrigliasciolta e altri. Ha insegnato presso la libreria Egea dell’Università Bocconi di Milano e diverse altre scuole, biblioteche e associazioni in Italia e in Svizzera. Dal 2013 è direttore editoriale della rivista di letterature Inkroci. È tra i fondatori e gli organizzatori della rassegna letteraria itinerante Libri in Movimento. ha collaborato con il notiziario "InPrimis" tenendo la rubrica "Pagine in un minuto" e con il blog della scrittrice Barbara Garlaschelli "Sdiario". Ha pubblicato il romanzo "I predestinati" (Prospero, 2019) e ha curato le antologie di racconti "Oltre il confine. Storie di migrazione" (Prospero, 2019), "Anch'io. Storie di donne al limite" (Prospero, 2021) e "Ci sedemmo dalla parte del torto" (Prospero, 2022, insieme a Viviana E. Gabrini). Svariati suoi racconti sono presenti in antologie, riviste e nel web.

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