The Stone Roses – The Stone Roses

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The Stone Roses kicked the door open for guitar music in the late ‘80s […] They opened the door for us.
Noel Gallagher

C’è una generazione, troppo giovane per vivere gli Smiths durante la loro carriera e troppo vecchia per sventolare la bandiera degli Oasis, per la quale gli Stone Roses sono stati e sempre saranno la più grande band di pop inglese dai tardi anni ‘80 in avanti.

Alfieri di quella Manchester che traslando oltre l’asse New Order/Tony Wilson/Hacienda si trasforma in MADchester pompando beats e MDMA nel pop rock d’Albione, i Roses sono il più limpido esempio di un miracolo musicale che si fa realtà e implode su sé stesso nel breve volgere di una manciata di stagioni. Con il favore del tempo possiamo dire che gli Stone Roses sono stati tra il febbraio del 1989 e il maggio del 1990. Tutto quello che c’è prima sono indizi, germogliare di semi; tutto quello che c’è dopo sono crepe, macerie più o meno visibili e più o meno ingombranti. In quei sedici mesi Ian, John, Mani e Reni sono un irresistibile mix incendiario di funky grooves, melodie pop, psichedelia anni ’60, folk, chitarre wah wah, snobbismo mancuniano, northern soul dopato e attitudine arty. Sono un insieme di influenze che muovono da lontano (melodie anni ‘60 e chitarre anni ‘70) eppure sono un mix fortemente radicato nei tardi anni ‘80, che evita l’effetto revival del garage di quel periodo grazie a una sezione ritmica che guarda alla scena dei club e ai suoi pattern percussivi dritti oltre che ad un’immagine che rifugge i cliché da rock star del tempo.

I Roses sono figli e allo stesso tempo padri del tempo che vivono, muovono dai resti della cultura mod, che nella Manchester di metà anni 80 abbraccia le derive Scooter e Hooligans, per approdare a quella cultura Baggy di cui, insieme a Happy Mondays e Inspiral Carpets, dettano le coordinate: pantaloni e t-shirt larghi, sneakers ai piedi e cappelli da pescatore ad occultare gli occhi. Sono una rivoluzione musicale e culturale, sono materia da cantare, ballare, indossare.

Il primo eponimo album è una di quelle rare opere che fanno gridare al miracolo, che creano un prima e un dopo, che bastano da sole per definire una carriera, che diventano inarrivabili anche per i propri autori. All’iniziale I Wanna Be Adored bastano due frasi ripetute lungo tutta la sua durata per dichiarare gli intenti e garantirsi i pollici alzati degli ascoltatori: I don’t have to sell my soul/He’s already in me/I don’t need to sell my soul/He’s already in me/I want to be adored. Adorazione che diventa inevitabile nei successivi due brani She Bangs The Drums e Waterfall, forti di un equilibrio invidiabile di arpeggi liquidi, linee di basso tipicamente wave e rullanti riverberati.

Come ogni album classico che si rispetti, a metà del primo lato la partita deve essere già vinta; per gli Stone Roses tutto il resto è in discesa. Sia che si tratti dei nastri al contrario di Dont’t Stop che dei momenti di calma di Bye Bye Badman e Elizabeth My Dear, che apre il secondo lato. (Song For My) Sugar Spun Sister e Made of Stone sono altri due picchi di melodie da cantare a squarciagola saltando abbracciati, Shoot You Down e This is The One perle di pop chitarristico oscurate solo dalla magnificenza della conclusiva I Am The Resurrection, 8 minuti e 12 secondi che sono la resurrezione del pop, della forma canzone, della chitarra come pennello di melodie che si inseguono circolari, dell’improvvisazione come momento caleidoscopico in pieno stile Rave. Gli Stone Roses sono la resurrezione e non hanno paura di cantarlo con quella sfacciataggine talmente naïf da passare per credibilità.

Il 1989 è loro. In autunno si permettono di pubblicare solo in versione singolo la loro canzone più famosa di sempre, Fools Gold, un ipnotico funk Hendrixiano in salsa rave, e di registrare un sold out da 7.000 anime all’Alexandra Palace di Londra. La band decide inoltre di produrre per il maggio 1990 un proprio concerto open air presso Spike Island, isola all’estuario del fiume Mersey famosa per i propri complessi industriali e chimici. I 27.000 biglietti disponibili vanno esauriti e l’evento si trasforma nella Woodstock della Baggy Generation, un’istantanea senza ritorno del momento più alto di una band e dell’intera generazione dei suoi fans. Mitizzato nell’immaginario collettivo giovanile del tempo, il concerto di Spike Island è di fatto un incubo fatto di mala organizzazione e sound pessimo. È la vetta e allo stesso tempo l’origine della crepa che ridurrà i Roses in polvere.

Il futuro in discesa della più brillante band d’Inghilterra si trasforma in un balletto oscuro di beghe contrattuali, infinite session di registrazione, noia e scazzi interni. Un tunnel che vedrà un breve bagliore di luce a fine 1994, con la pubblicazione di Second Coming, prima che il 1996 decreti la definitiva fine del sogno. Nel frattempo MADchester è tornata Manchester e il pop si è codificato in un sound meno coraggioso ma di impatto planetario: è tempo di fratelli snob e litigiosi, è tempo di orgoglio pop cockney. E tempo di Blur vs Oasis.

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Paolo “Blodio” Fappani: Milano 1973 Musicista e operatore culturale bresciano, dal 2001 è direttore artistico e co-direttore di produzione del festival musicale ARENASONICA. Dal 2009 è fondatore e membro del consiglio direttivo dell’ASSOCIAZIONE CULTURALE LATTERIA ARTIGIANALE MOLLOY. Negli ultimi vent’anni ha suonato centinaia di concerti e registrato dischi con diverse band e artisti bresciani (Cinemavolta, Paolo Cattaneo, Van Cleef Continental). Attualmente è in tour in Italia ed Europa con la sua band SEDDY MELLORY e con il promettente trio bresciano MARYDOLLS.

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