Iniziamo con un excursus storico.
Manfred Mann, al secolo Manfred Sepse Lubowitz, nasce a Johannesburg, in Sudafrica, nel 1940 da una famiglia di origine ebraica.
Impara i primi rudimenti come tastierista nella sua madrepatria, suonando nei locali di Johannesburg, città nota per il suo dinamismo e che aveva recepito le influenze del rock’n’roll e del rhythm&blues fifties a stelle e strisce.
Crescere a Johannesburg per il piccolo Manfred fu tutt’altro che facile, anche per un bianco che pure aveva tutti i privilegi. C’era un clima di violenza, portato dai venti dell’apartheid, che si respirava ad ogni angolo. Ai neri era persino proibito usare i marciapiedi, nei giardini pubblici le panchine erano riservate solo ai bianchi e nei negozi un africano non poteva entrare.
La creazione dei bantustan[1], la politica estrema di segregazione ad opera dell’apartheid e la polveriera delle township come Soweto, sul punto di esplodere, spinsero la famiglia Mann a emigrare a Londra, in cerca di un clima migliore.
Nel 1962, proprio in quel di Londra, Manfred Mann incontra Mike Hugg e insieme formano l’embrione dei Manfred Mann, la Mann-Hugg Blues Band, subito diventati i Manfred Mann, dal nome dello stesso fondatore. La band comprendeva anche il cantante Paul Jones, dal morbido e vellutato timbro vocale, subito sostituito da Mike D’amore, anch’egli un vocalist dai toni morbidi.
I Manfred Mann sono stati autori di un’infornata di successi negli anni Sessanta, che gli hanno permesso di scrivere un capitolo importante nella storia del pop inglese dei sixties.
Non si contano le hit di quel periodo: le cover di Dylan Just Like a Woman e Mighty Queen, Pretty Flamingo, Do Wah Diddy Diddy, My Name Is Jack, Ha Ha Said The Clown, Hubble Bubble, 5-4-3-2-1, Ragamuffin Man, Trouble And Tea.
Ma, più che il numero dei loro successi, serve considerare la loro portata artistica. Sono un’eccezione nell’ambiente musicale inglese di quegli anni. Con il filone del british blues non hanno niente da spartire. Non discendono dalla genealogia dei Blues Incorporated di Alexis Korner e Cyril Davies e di John Mayall, i primi motori che diedero l’abbrivio a tutta la saga blues britannico. Nemmeno rappresentano l’ala rhythm&blues di Rolling Stines e Animals: nessuna ascendenza blackness. I Manfred Mann però non appartengono neppure, o ne fanno parte solo tangenzialmente, al filone del beat inglese, che dal Merseybeat è confluito nei Beatles e nei Kinks. Erano fuori da questi circuiti, e i singoli stili li hanno solo toccati per elaborare un suono che li contraddistingue, e che ricomprende scampoli di beat e di rhythm&blues così come elementi folk per scrivere una personale idea di pop inglese.
Un pop che era già avanti per quell’epoca, ricco di variazioni armoniche. Possono essere accostati per originalità ai Them di Van Morrison, solo per il fatto di essere particolari rispetto ai trend del tempo e perché entrambi i gruppi possedevano in nuce i semi dei futuri sviluppi dei loro leader: il rhythm&blues originale dei Them prefigurava lo stile unico di Van Morrison e il pop variegato dei Manfred Mann è un anticipo dell’estroso talento del loro leader.
Lo stile dei Manfred Mann propone una canzone pop particolarmente estrosa che mescola e amalgama in una cromia sonora elementi di folk dylaniano, ovviamente pastellati in coloriture pop, rhythm&blues, beat classico beatlesiano, un pizzico di psichedelia e un altro pizzico di pop easy listening. Sono brani che sostanzialmente non si discostano dagli elementi tipici di quel periodo, però vengono rielaborati in modo originale, con risultati di una sorprendente varietà armonica. Si passa dal folk dylaniano acquerellato della cover di Just Like a Woman allo spigoloso rhythm&blues di Trouble And Tea, alla filastrocca di Do Wah Diddy Diddy, al folk su coordinate Beatles-Dylan di Mighty Queen, all’obliquo folk-beat di Pretty Flamingo, al blues di 5-4-3-2-1, al rhythm&blues strumentale di Sweet Pea, alla marcetta pop surreale di My Name Is Jack, e mi fermo qui. Poi, qua e là, i brani mescolano originali trovate vaudeville, scampoli di psichedelia, arrangiamenti originali che precedono l’uso del flauto e del vibrafono.
L’estrosità della band ha portato alla realizzazione di brani pop che possiedono una vena sperimentale, pur essendo adatti a una fruizione di massa, e che sono impregnati di Heimat british.
Alla fine degli anni Sessanta Manfred Mann scioglie la band, stanco di rimanere relegato nel mondo dei 45 giri e degli hit da classifica. Ormai non si accontenta più di alcune fette della torta della sperimentazione: questa torta la vuole tutta, e la sperimentazione entra a far parte della sua vita in modo integrale. Con il fido Mike Hugg arruola una schiera di musicisti jazz e riunisce un ensemble di fiati che comprende quattro sassofoni, una tromba e un trombone, oltre a basso e batteria.
Nascono i Manfred Mann Chapter Three, ed è tutta un’altra storia rispetto alla precedente esperienza. I Chapter Three sono un ensemble dedito a un originale jazz rock sperimentale. Possiamo definirli una via di mezzo fra i Traffic più improvvisativi, il jazz-prog-blues dei Colosseum, qualche spruzzata di Canterbury Sound, echi del Miles Davis elettrico, qualche ombra di proto etno-world africana, un certo gusto per un pop sperimentale fuori dalle righe, un’attitudine proto-prog e un’altra blues. Su tutto, il talento indescrivibile di Manfred Mann alle tastiere.
I Chapter Three hanno prodotto due album, uno migliore dell’altro, che ritengo fondamentali e raccomando caldamente. Durarono poco, però: lo spazio di due anni e altrettanti album. L’elevato numero di componenti aveva reso la gestione della band insostenibile ed erano sorti contrasti fra Manfred Mann e Mike Hugg, per una questione di divergenze musicali.
Manfred Mann scioglie i Chapter Three nel 1970 e l’anno successivo fonda la Manfred Mann’s Earth Band, mentre Mike Hugg si dedicherà a una carriera solista senza successo, fino a sparire dalla scena musicale.
La Earth Band è una formazione a quattro elementi che, oltre a Manfred Mann, comprende il cantante e chitarrista Mike Rogers, il bassista Colin Pattenden e il batterista Chris Slade.
La Earth Band abbandona le derive jazz dei Chapter Three e si orienta verso il prog, una forma di prog, però, non assimilabile a quello canonico di gruppi come Yes ed ELP. Si potrebbe parlare di art-rock, perché gli elementi prog presenti, soprattutto di ispirazione crimsoniana, sono parti di un mosaico che comprende anche la musica cosmica, l’improvvisazione jazzata, elementi space-rock, aperture verso la musica classica, pop deviato e, soprattutto, un originale gusto improvvisativo.
L’etichetta prog va bene ma nel senso lato del termine; la band era in linea con le tendenze musicali dei primi anni Settanta, però Manfred Mann e i suoi vollero fornire una personale interpretazione di quelle tendenze.
La Earth Band è giunta bene o male fino ai giorni nostri. Il suo periodo migliore però sono gli anni Settanta, quello più prolifico, con la produzione di uno o due dischi all’anno; il periodo che arriva fino a Somewhere In Afrika del 1982 e tutti i dischi fino a quest’ultimo sono più o meno validi. Dopo quell’anno la produzione discografica si dirada e l’ultimo lavoro in studio risale al 2004. Intensa invece rimane l’attività live.
Nel corso della sua carriera la band ha sperimentato differenti linguaggi musicali: dall’art rock legato al prog e alla musica cosmica dei primi dischi è approdata a un pop-prog piuttosto originale che faceva via via uso di strumentazione elettronica e si proponeva come un’alternativa un po’ stralunata all’Alan Parsons Project, fino ad arrivare all’elettronica robotica e danzereccia con elementi afro di Somewhere In Afrika, un disco che consiglio perché è un lavoro di pop elettronico dal piglio kraftwerkiano e dalle sonorità synth-punk ma concepito in un’ottica pop-prog, che non scade affatto nella tamarraggine di tanta elettronica anni Ottanta.
Personalmente i miei album preferiti arrivano fino a The Good Earth. La svolta pop dei dischi successivi comporta la realizzazione di album tecnicamente impeccabili e ricchi di cromie sonore e di sperimentazioni, però lo smalto della prima Earth Band si perde in una certa edulcorazione negli arrangiamenti, lasciando adito a un discorso di virtuosismo un po’ troppo esibito e a una pletora di sonorità tipizzate che vanno a inficiare l’originalità
Intendiamoci, dischi come The Roaring Silence, Watch, Angel Station, Chance e l’elettronico Somewhere In Afrika sono ben congegnati, ma da ascoltare solo dopo essersi portati a casa la produzione dei primi anni Settanta.
La Earth Band (e i precedenti Chapter Three) sono decisamente un altro pianeta anche rispetto ai Manfred Mann degli anni Sessanta, i quali però lasciavano intendere gli sviluppi a venire. Al pop ritorneranno nella veste di una prog-song che tornerà a rifare cover dell’antica passione di Manfred Mann ,Bob Dylan, e anche di Springsteen, del quale faranno un’encomiabile versione di Blinded By The Light.
Anche i testi sono degni di attenzione. Spaziano dalla fantascienza alle tematiche ecologiche legate alla Madre Terra – il nome stesso della band è stato scelto per questi contenuti – in anticipo sui tempi, fino a quelle politiche, alle prese di posizione contro il razzismo e l’apartheid (non dimentichiamo che Manfred Mann è di origine sudafricana).
Solar Fire è il quarto album, risalente al 1973.
È un disco che amplia il concetto di prog e lo allarga verso sonorità più vicine a un suono heavy e psichedelico da una parte, un heavy-psych che si fa heavy-prog, e dall’altra a una ricerca orientata verso il jazz, memore dell’esperienza coi Chapter Three. La dominante è però quella di una musica cosmica con testi legati alla fantascienza e ai pianeti del sistema solare, e questo effetto converge verso sonorità sinfoniche, ma di un sinfonico legato al mistico e al maestoso, senza scadere nel barocchismo autoreferenziale. Un album di art-rock, termine che ingloba un insieme ancora più ampio di quello di prog, laddove il prog emerge nella sua forma migliore, maestoso e non pomposo, meno autoindulgente. È un disco dalle sonorità solide, in cui si instaurano dialoghi fra le tastiere (Hammond, mellotron e moog) di Manfred Mann e la chitarra di Mike Rogers, epica e solenne, mai roboante.
La copertina è in linea con le tematiche espresse nell’album: un’immagine dal palese riferimento cosmico mostra una stella che potrebbe essere il sole mentre esplode a guisa di supernova e spande nello spazio una potente luce rosso-fuoco. È una cover che si inserisce in un filone epico-fantascientifico e spaziale, in linea con le tendenze space-prog del periodo, ma è anche capace di trasmettere il mistero del Creato nato dal Big Bang, dal quale si sono generate stelle e pianeti.
Father Of Day, Father Of Night è una canzone di Bob Dylan, antico amore di Manfred Mann, trasformata in una suite di prog cosmico concepita come un inno sacro elevato alla vastità del cosmo, identificato con la grandezza ultraterrena del Creatore. L’originale dylaniano è tratto da New Morning ed è una preghiera elevata al cielo. Questa preghiera viene ora ampliata in un sinfonismo sacro che stempera l’eccesso di barocchismo in favore di un’elevazione alle meraviglie dello spazio popolato di stelle e pianeti. Si parte con un coro femminile che intona un inno sacro a cappella, come se si trovasse fra le mura di un monastero di clausura: l’invocazione a Colui di cui non è pensabile un’ entità superiore. Quindi esplode un sontuoso hard-prog seguito da un organo chiesastico alla Jon Lord: l’esplosione del Big Bang. Quindi con un ritmo lento, cadenzato e solenne inizia il cantato a intonare la preghiera in nome del Creatore di tutte le cose, e il mellotron la introduce in una dimensione cosmica. Il tono del canto è in una dimensione fra il solenne e il malinconico, con inclinazioni verso l’oscuro canto di Ozzy Osbourne nei Black Sabbath, però sgravato dal suo mood dark e funereo in favore di una tensione più elevata, come se si volesse celebrare non un rito funebre, ma qualcosa che è oltre la vita terrena. Subentra poi un’apertura corale verso la luce spaziale che introduce la chitarra, uno dei momenti clou del brano. Un lungo assolo di chitarra, con l’organo che lo rende ancora più ultraterreno, che si esibisce in un’avventura, che prende David Gilmour e lo porta dalle parti dei Deep Purple più prog. Un assolo che è epico e spaziale senza scadere nel roboante virtuosismo. Si arriva all’ultima parte del brano in cui aumenta il mistico tono di sacralità, e con esso gli arrangiamenti si fanno ancora più solenni e pomposi. Tornano il coro femminile dell’inizio, con le sue sacre invocazioni celestiali, e il cantato solista che riprende la preghiera con lo stesso timbro di ode invocativa. Il mellotron crea uno sfondo di misticismo sinfonico che ammicca allo spettacolo del mistero divino. Un potente drumming annuncia, a guisa di fanfara, l’eccelsa conclusione, in cui chitarra, organo e mellotron celebrano il cosmo come spettacolo della grandezza divina.
Questa suite di quasi dieci minuti, che riprende un brevissimo pezzo dylaniano, è un prog cosmico in cui si concentrano i King Crimson nella scrittura armonica, un chitarrismo fra Pink Floyd e Deep Purple, un cantato alla Black Sabbath, aperture chiesastiche in stile Jon Lord. Un brano nobile e maestoso, un piccolo capolavoro.
In The Beginning, Darkness, in principio l’oscurità: la nascita dal Big Bang. Questo brano è l’apoteosi del concetto di hard-prog mutuato dalla civiltà lisergica dei sixties senza passare dal via. È un heavy-psych che flirta col prog, e il risultato è stravolgente. Dal prog conclamato ha preso la batteria in tempi dispari, che regge l’impianto dominato da un ronzio di chitarra fuzz di chiara derivazione lisergica e indirizzato verso l’heavy-psych, strtturata su una ritmica funky rallentata fino a sfociare in un severo mantra heavy-psych-prog. Il basso, pulsante e ossessivo, rende il suono più corposo e muscolare. Apparentemente mascolino, questo brano è un’avventura che nella parte centrale si abbandona a un orgasmo improvvisativo tra una batteria che scandisce battiti al cardiopalma, svisate di moog, un basso che corre con pulsazione tachicardica, coretti femminili soul e un assolo di chitarra che si abbandona a una foga orgiastica. Quindi si torna alle pesanti vibrazioni iniziali, con quel cantato sempre cadenzato, come se recitasse un’invocazione in stile mantrico. L’heavy-psych che inventa l’heavy-prog.
Pluto The Dog. Questo brano ha un aspetto enigmatico. Iconologicamente sembra contenere una certa ironia nel confondere il pianeta Plutone con Pluto, il cane di Topolino (ma non sono certo se ci sia veramente questo riferimento disneyano). È un brano strumentale di derivazione jazz-prog, memore dei recenti trascorsi coi Chapter Three, e ha tutta l’aria di essere un inedito lasciato nel cassetto da precedenti registrazioni, ripreso e riarrangiato. È un pezzo in libero movimento e dondolante, che si esibisce in un dialogo di assoli fra chitarra e tastiera di stampo jazz-fusion (echi di Chick Corea), Si odono i latrati di un cane in sottofondo che, ironicamente, supportano la ritmica in libera caduta di basso e batteria.
Ma veniamo alla title-track, Solar Fire. In questo brano la chitarra gratta rasoiate di distorto fuzzin’ che, non esagero, sembra una prefigurazione dei Pink Floyd di Animals (provare a metterla in relazione con il brano Pigs). Il resto è un ripetuto mantra heavy-prog con un basso che ricorda quello degli Hawkwind e che fa da impalcatura a tutto il brano proprio con lo spirito dello space-prog e che ha un carattere ipnotico. Il canto, in un dialogo col controcanto femminile soul, è anche qui in preda a un mistico delirio cosmico. Un assolo di chitarra maestoso, pieno di luce e giochi strabici di Hammond e mellotron, spinge verso voli pindarici di lisergica atarassia. Fra tutti i brani dell’album è il pezzo più coinvolgente sul piano ipnotico e allucinato.
Saturn, Lord Of The Ring/Mercury, The Winged Messenger. Brano diviso in due parti, rispettivamente dedicate a due pianeti del sistema solare, Saturno e Mercurio. La prima parte, dedicata a Saturno il Signore dell’Anello, è una jam chitarristica che consiste in un cadenzato hard blues suonato con un tagliente ronzio fuzz. Il tono decisamente blues è celebrativo: vuole rendere l’idea del pianeta Saturno che, como il suo anello, è un severo Principe del Cosmo. La chitarra domina sull’impianto e il suo fuzzin’ rende più melodiosamemte solenne la ruvidità in onore del pianeta. La seconda parte è dedicata a Mercurio, il Messaggero Alato. Si cambia rotta e si prende la strada di un’improvvisazione cosmic-prog che inizialmente parte rarefatta, con l’effetto del mellotron che crea in senso di svaporante atmosfera celeste, quindi parte alla grande con il sintetizzatore moog che, dopo un’ouverture chitarristica jazzata, si lancia a tutta birra verso una sfrenata corsa a rotta di collo, nello stile di un Keith Emerson salito in un rapido atto a solcare il cielo. È proprio un volo quello che viene evocato da queste note, il volo di Hermes, messaggero degli dei, che sfreccia lungo la volta celeste. Una mini-suite che unisce l’elemento cosmico a quello mitologico, con lo stile di una mitopoiesi.
Earth, The Circle Part 2. Iniziano i due brani dedicati alla Terra. Si parte dalla Parte 2 come un cammino a ritroso fino all’origine. È un heavy-prog dagli accenti blues che unisce gli ELP ai Colosseum. Il brano si inserisce nella tradizione prog piu classica e ha un certo carattere ludico, con arabescature di mellotron a guisa di filastrocca e marcetta di soldati giocattolo, retto da un potente ritmo di basso cavernoso e batteria che gli conferisce un tono più heavy. Il moog si esibisce in un graffiante assolo imprivvisativo che scivola verso territori jazzati e canterburiani. Rispetto ai brani precedenti c’è però una caduta di tono verso lo scherzo musicale, con una certa autoreferenzialità.
Earth, The Circle Part 1. Di tutt’altro aspetto la Part 1. Possiede una severa struttura armonica modellata su un motivo del compositore Claude Debussy, del quale si tenta di rievocare il tipico timbro impressionista. Inizia con solenni note di piano che aprono a un cantato etereo e luminoso, una melodia crepuscolare e cosmica. Distorte svisate di synth interrompono per poi lasciare campo libero al canto e al tema principale. Tema che viene subito ripreso da un assolo di piano classicheggiante, proprio nello stile di Debussy, che però subito si trasforma in una cavalcata jazz-prog che prende il galoppo fino alla fine, quando sfuma in un canto corale a cappella di stampo folk-mistico.
[1] I bantustan, nome che deriva dalla principale etnia sudafricana, i Bantu (senza l’accento), erano territori che il governo sudafricano assegnava alle comunità di colore, di gran lunga più numerose di quelle bianche: un corrispettivo sudafricano per i neri delle riserve indiane statunitensi per i nativi.
Per dislocare le comunità africane nei bantustan venne attivata una politica di deportazioni forzata, la stessa modalità adottata per i pellerossa americani per le riserve, e veniva nominato un capo-fantoccio che ricopriva il ruolo di capo tribale.
La vita nei bantustan era un inferno: per la loro creazione vennero scelti i territori più inospitali e meno fertili e la percentuale di miseria raggiunse cifre altissime.
Nel Sudafrica, dagli anni Sessanta agli anni Ottanta, la vita dei neri si svolgeva per metà nei bantustan e per metà nelle baraccopoli, le township, fra cui la celebre Soweto, il centro da cui è partita la rivolta antiapartheid di Nelson Mandela.