Per l’intera cerimonia del suo secondo sposalizio,
tua sorella tenne in mano gigli bianchi.
Scelse il Salmo 23 e noi debitamente mormorammo
“Il Signore è il mio pastore, io non manco di nulla”
pensando ‘questo pare piuttosto un funerale’
e sforzandoci di non ridacchiare nei passi seri.
Tu mi sgomitavi nelle costole e dicevi:
con più passione di quella che intendevi,
che questo è ciò che, a Portishead, chiamano vita.
Fuori: ce l’eravamo svignata a farci una cicca durante ‘Resta con me’,
in punta di piedi, oltre zie in lacrime e figli adolescenti
in abiti eleganti, comprati per far pratica lavorativa
(una fila di pacchi rigonfi in attesa di ritiro) –
fuori hai ripreso fiato e poi hai detto
quanto eri lieta d’essere scampata
da ciò che, a Portishead, chiamano vita.
E quando nel cimitero mi baciasti
con nei di coriandoli defunti come scaglie di forfora giganti,
io pensavo: Sì, grazie a Dio, grazie a Dio,
se non fosse stato per il gelo intenso di questa cittadina,
la sua glaciale cortesia e le lezioni serali,
gli arrosti stracotti e le bibite dei pranzi domenicali,
la pioggia deprimente sul Lake Grounds al sabato sera,
se non fosse stato per le maldicenze che dilagarono
come sterpaglia in fiamme quando ti tingesti i capelli di rosso
e cominciasti a uscire con tipi inadeguati
che suonavano in gruppi punk tipo Chaos UK
o arrancavano per la via del centro su Lambrette scoreggianti ‒
se non fosse stato per il desiderio di questa città
di condannare tutto ciò che non capiva,
non saresti mai fuggita in cerca di mare e Cornovaglia,
non saresti mai fuggita in cerca d’un posto tutto tuo
e non ti saresti mai imbattuta in me.
Sulla soglia della chiesa, quasi sorrisi e quasi dissi:
ci sono così tanti motivi per cui sono grato
a ciò che, a Portishead, chiamano vita.
Traduzione di Angela D’Ambra
Testo originale
Tom Phillips – Portishead
All through her second wedding, your sister carried white lilies.
She chose Psalm 23 and we duly mumbled
‘The Lord is my shepherd, I shall not want’,
thinking this is more like a funeral
and trying not to giggle at the serious bits.
You dug me in the ribs and said,
with more feeling than you meant,
that this is what passes for life in Portishead.
Outside – we nipped out for a fag during ‘Abide With Me’,
tip-toeing past weeping aunts and teenage sons
in suits they’d bought for work experience
(a row of bulging parcels waiting for collection) –
outside you breathed again and then you said
how glad you were you’d escaped
what passes for life in Portishead.
And when you kissed me in the graveyard
with its blots of dead confetti like giant flakes of dandruff,
I was thinking: Yes, thank God, thank God,
if it hadn’t been for this town’s deep chill,
its icy politeness and evening classes,
its Sunday lunch drinks and over-cooked roasts,
the dismal rain on the Lake Grounds of a Saturday night,
if it hadn’t been for the gossip which spread
like a bushfire when you dyed your hair red
and started hanging out with unsuitable types
who played in punk bands like Chaos UK
or limped along the high street on farting Lambrettas –
if it hadn’t been for this town’s desire
to disapprove of all it didn’t understand,
you’d never have run for Cornwall and the sea,
you’d never have run for a place of your own
and you’d never have run into me.
In the doorway of the church, I almost smiled and I almost said:
there are so many reasons I’m grateful
for what passes for life in Portishead.