Fare un libro per occupare la mente
è musicare gerani di cimitero.
Oggi mia madre urlava, ché l’ho scritta
morta – alla fine tutti vogliono campare,
gli impiccati, benché urlino le corde, e i
selciati o le canne di rivoltella, coltelli, anche
i bicchieri col sonnifero.
Mio fratello si aggrappava alla vita, alla liana
del pensiero; ma era sfrangiato,
non si vedeva più, nemmeno
nelle cavità oculari, lo specchio era convesso,
sembrava Dennis Hopper in Velluto Blu,
Frank il pervertito, o il soldato suicida di Full Metal,
Palladilardo. E dire che era magro, bello, intelligente,
le aveva tutte per titillarsi la vita.
Per rabbia consumiamo chilometri. È così. Vite
appese al collare del diavolo
si nasce spalancati; il wolf che ulula in noi
impaurito nella notte dei magri macelli, osanna
la luna spiritica, l’ESP, facciamo viaggi
intorno al mondo,
per non morire, offesi da bolle, forfora,
da raggi Sfalsa, ci comanda la forza del disordine.
Le sigarette, almeno non pensano alla fine,
il whisky intontisce la sera deserta, the day-after;
una cupola di niente alza un boletus atomico
e annulla l’esistenza: Hiroshima, Nagasaki, Fukushima.
Il sesso bonifica la morte, è carta
moschicida per sperma teso, ritenuto in vetro;
(ci avventiamo su chi si spalanca). Cartone
gessato, sapone d’olio di colza, plastica semirigida.
Così guardonando un orrido porno, la poverina con occhi
sporgenti come mani chiedeva aiuto;
drogata, piercing sulla scodante lingua, cazzi a due,
nella stanza interrata, fu come uno stupro
voluto, e il suo finto entusiasmo, uno straccio.
Scrivere un libro sulla fine dell’amore
mi ripaga dalla spregevole morte, ignorata
dai più. Noi siamo gli scrivani
per vendetta.