Giuseppe Conte fu ad Atri, meraviglioso paese d’Abruzzo, nei primi anni Novanta, un poeta in carne ed ossa che parlava in un teatro pieno di ragazzi; così ricorda Nino Bindi, al tempo assessore alla cultura, e ricorda del poeta la curiosità rivolta alle persone e ai luoghi. Io ero ancora una bambina e pertanto non ho memoria diretta dell’incontro, ma crescendo ho avuto il mio personale confronto con la sua poesia. È finalmente arrivato il nuovo libro in versi di Giuseppe Conte Non finirò di scrivere sul mare (145 pagg., 18 euro, Mondadori). Finalmente la poesia di un uomo che è «eternamente innamorato», aperto alla vita e al mondo. «Non ci si può mai allontanare/ da te, padre, madre, mare». Torna dopo molti anni con il suo ultimo lavoro poetico: Ferite e Rifioriture risale al 2006, se non consideriamo la raccolta di tutte le poesie edita nel 2015, sempre per i tipi di Mondadori. A quarant’anni dall’esordio poetico con L’ultimo aprile bianco (Guanda, 1979) si ripresentano in questa raccolta i temi centrali della sua poetica, il mare e la bellezza, per dirne solo alcuni.
Giuseppe Conte nasce in Liguria nel 1945 a Porto Maurizio, in provincia di Imperia, «Ero un bambino voluto, curato, amato, / nella casa di via Carducci 3/ quando avevo paura di te, mare». Conte torna a cantare ancora il mare senza aver mai smesso di farlo: «chi ama il fiume, ha certezze. / Sa dov’è la foce, dove è la sorgente»; torna a cantare il suo orizzonte anarchico: «Ma chi ama te, mare, non ha niente / soltanto movimento e orizzonte / non ha più punti di riferimento». E c’è il mito, che è il collante di tutti i suoi lavori, non solo poetici, il mito che è continuo studio e ricerca, che dà l’idea di che cosa sia la letteratura: un’inesauribile e lucido sguardo sul mondo, un’onda salina che tutto rinnova; come «l’amore che muove Omero e muove il mare». «Eppure non c’è un’Itaca nella mia vita. / Non c’è un’isola a cui tornare. / Soltanto solitudine altro mare»: perché non c’è altra meta per Giuseppe Conte che vivere e continuare a scrivere, continuamente ricominciare.
- Giuseppe Conte è poeta, romanziere e saggista. Lei in quali vesti si sente più comodo?
Ho cominciato con un saggio, La metafora barocca, pubblicato quando non avevo neppure ancora 27 anni. E ancora oggi scrivo di critica letteraria. Ma certo il mio impegno maggiore è stato ed è nella poesia e nel romanzo: diciamo nella creazione, nella invenzione. Il mio sogno di adolescente era quello: creare con le parole, aggiungere un volume mio alla grande Biblioteca dell’Universo, e sono rimasto in fondo fedele a quel sogno. Grazie ad esso, e a una mia visione della letteratura e del mondo, passo senza nessuna fatica dalla poesia al romanzo e viceversa. Nel 2019 ho pubblicato un romanzo e un libro di poesia, tema in comune il mare.
- Tra i fondatori del Mitomodernismo nel 1995. Sono trascorsi più di vent’anni: in cosa il movimento è attuale?
Il Mitomodernismo non è mai stato un gruppo chiuso, ma un movimento, una corrente di energia, un modo di far riaffluire nel moderno forze psichiche perdute, quelle del mito e della bellezza. Il Mitomodernismo, sempre osteggiato o ignorato dall’establishment in Italia, in realtà ha vinto ampiamente la sua battaglia: oggi escono libri sul mito che venti anni fa avrebbero avuto vita difficile se non impossibile, oggi di bellezza (vent’anni fa termine impronunciabile) si parla sin troppo. Attuale è la spinta mitomodernista a uscire dalla crisi nichilista e materialista del Novecento per far nascere nuove visioni dei rapporti umani e dei rapporti dell’uomo con la Madre Terra e il cosmo.
- Nel suo Diario di Didimo, in un post del dicembre 2015, lei parla di «rivoluzione verde», di «Partito della Terra»: quanta necessità ha questo mondo globalizzato di ripartire dalla natura, dal mito?
Dagli anni Settanta del secolo scorso sogno una rivoluzione verde che cambi il rapporto dell’uomo con la natura e con il pianeta: una rivoluzione transnazionale, di donne e uomini che vogliono salvare la Terra dalla rovina, e che perciò sanno di dover cambiare, rovesciare l’assetto economico e politico del mondo attuale. Una rivoluzione da sognatori, da utopisti. E va bene. Ma senza sogni e utopie l’uomo muore in quanto uomo libero e creatore. Vedendo certe immagini dell’inquinamento atmosferico, dei mutamenti climatici, dell’avvelenamento progressivo dei mari, credo che una rivoluzione verde diventi sempre più necessaria, anche storicamente.
- «La poesia è “per”»?
Direi di sì. La poesia non può essere soltanto critica dell’esistente. Non si può scrivere in odio alla poesia, o con troppe prudenze e cautele. La poesia è scommessa, avventura, follia, ribellione, è “per” qualcosa che deve ancora nascere, è prefigurazione di un futuro umano, l’unica forza di resistenza contro la barbarie che vorrebbe distruggere ciò che vi è di umano nell’uomo per fare di tutti noi robot e zombi, sottomessi alle leggi della finanza globale.
- Nella nota a L’oceano e il ragazzo (ed. TEA 2002) lei scrive: «un uomo maturo deve resistere per tenere vivo il fuoco della poesia in sé, per non cedere alle lusinghe facili, comode della normalità.» Quali sono le insidie da evitare, cosa può consigliare a tutti quei poeti che non sono né giovani ribelli né vecchi saggi profeti?
Parlavo per me, per le mie condizioni biografiche di allora, 2002. Quando scrissi L’Oceano e il Ragazzo ero giovane. Oggi mi avvio a essere anagraficamente vecchio. L’età di mezzo è quasi alle spalle. L’insidia è proprio sentire la maturità, la regolarità, l’appagamento, la resa alla quotidianità. Io continuo a stupirmi, a interrogarmi, a viaggiare, ad amare. Mi sento sempre diciannove anni. Non per un ridicolo giovanilismo. Ma per una ineliminabile innocenza dello sguardo, per la passione sempre viva, per la fedeltà ai miei sogni. Ecco, consiglio, anche se consigliare non è il mio forte, di restare fedeli alla propria passione per la poesia, al proprio sogno di sé.
- Italo Calvino aveva scritto un articolo-saggio su L’oceano e il ragazzo in cui si domandava: «Cosa sono gli dèi oggi per noi?»; una questione che mi pongo spesso e che giro a lei.
Che l’illuminista Calvino appoggiasse un libro come il mio non finì di stupire i miei tanti avversari, che naturalmente fanno finta che quel saggio di Calvino (uscito sulla Repubblica, oggi leggibile in un Meridiano Mondadori) non esista. L’ultimo Calvino si stava interrogando laicamente sugli dei, il sacro, il divino. Fu lì che mi incontrò. E per questo gli ultimi anni della sua vita diventammo amici. È bello, cara Alessia, che lei si chieda cosa sono gli dei oggi per lei, è già una forma di risposta: dopo trent’anni da quando ne discutemmo Calvino e io, gli dei sono ancora lì a interrogarci, la loro esistenza nelle nostre correnti di energia psichica è questa domanda eterna sul mistero delle passioni, degli eccessi, della follia, della gioia, del dolore. Chi non si interroga sugli dei conosce il trenta percento della vita, forse meno. Come scrisse Ernst Junger, non conosce il mare chi non ha mai visto Poseidone.
- Lei scrive che il mare è «fedele e infedele»; e la poesia?
Il mare ha qualità che sono vicine a quelle della poesia, è in movimento, è infinito, è insondabile; non credo casuale che un poeta del tutto estraneo all’amore della natura come Baudelaire facesse una splendida eccezione proprio per il mare: proprio per questo, per il legame tra loro. Tra loro, e l’anima dell’uomo. Il mare è fedele e infedele perché vive la contraddizione del suo stato; anche la poesia è fedele a sé stessa, ma nello stesso tempo vive come infedeltà il suo desiderio di nuovo, di invenzione, di andare oltre il già visto e il già dato. La domanda è talmente bella e difficile che potrei andare avanti, ma si eccederebbe rispetto alla misura canonica dell’intervista. Ma almeno questo lo aggiungo: i Fedeli d’Amore, tra i primi poeti occidentali e orientali, non sono fedeli nel senso psicologico del termine, non pensano alla coppia, al legame: sono fedeli in senso di seguaci, seguaci di quell’Amore che appare in sogno a Dante all’inizio della Vita Nova e gli dice: «Dominus tuus sum». Legando mare, poesia, amore, non credo di aver divagato, anche se non credo di aver risposto del tutto.
- «Chiamali per nome, mare/ chiamali tu tutti gli annegati/ disfatti sui tuoi fondali, / questi non erano marinai, / questi non erano soldati/ – erano poveri, erano uomini-/»: perché l’uomo ha sempre bisogno di un nemico?
In tutto il mio libro c’è il senso di apertura e di amore per l’altro che è uno dei fondamenti non solo della mia opera poetica, ma della mia stessa vita. Ho costruito un ponte tra me e le culture non occidentali, ho cercato di capire, di cogliere le ragioni del diverso: ho letto, ho viaggiato, ho amato le culture che incontravo, e non ho mai avuto paura di confrontarmi con esse. Ho alle spalle un Occidente immiserito in una visione economicistica, materialista, nichilista del mondo: ma ho anche alle spalle la tradizione che va da Dante a Shakespeare, da Goethe a Hugo, da Foscolo a Leopardi… e una lingua, l’italiano, tra le più belle e propizie alla poesia, all’invenzione, al sentimento, alla fantasia tra quante lingue ci sono al mondo. Non ho paura del meticciato culturale, se è scambio e arricchimento, non confusione e gioco al ribasso: ho per maestro Adonis, che per l’antologia della mia opera poetica uscita in arabo ha scritto una introduzione in versi… nessun poeta occidentale l’avrebbe fatto. Ungaretti, quando abitava in Egitto, soffriva nel vedere gli italiani prendere in giro per la loro fede islamica i lavoranti arabi del forno di sua madre: e arrivato in Europa, sentì nei suoi versi, lui così intimamente cristiano, l’influenza incantatoria del canto del muezzin. Ecco, Ungaretti è un caso di meticciato buono, da prendere a esempio.
- Molti si dichiarano poeti postumi, qual è lo stato di salute della poesia italiana? Dobbiamo ascoltare quanti la considerano allo stadio terminale?
Postumi cosa vuol dire? Fantasmi? Zombi? Insomma, è una trovata dell’antologia di Cordelli e Berardinelli uscita mezzo secolo fa, in pieno novecentismo. Non vuol dire niente: finché sei vivo, devi vivere. Finché hai le forze, devi scrivere. Per fortuna il minimalismo deteriore e spesso ipocrita del secondo Novecento è alle nostre spalle (mai incontrati poeti più superbi di quelli che fanno continue affermazioni di umiltà). La poesia italiana avrebbe potenzialità molto grandi, e sarebbe una delle più vive al mondo se fosse sostenuta da una cultura propositiva, inventiva, capace di progetti per la difesa della nostra lingua, che al mondo si studia non per i nostri mediocri uomini d’affari e non per i nostri mediocrissimi politici, ma per l’arte, la musica, la poesia, la gioia, il cibo persino. Ricevo tantissima poesia di giovani, e il livello è medio-alto, sorprendente, solo che manca la spinta culturale per sostenerla, proporla. La poesia non può finire, in tutte le epoche, anche nelle più fortunate della nostra, si è parlato della sua fine: ma la sua fine è la fine dell’uomo, è l’apocalisse dell’anima, è il degrado e la barbarie. Per questo dico: la poesia non finisce e lotta: continua a rivolgersi alla parte migliore di ciascun essere umano ricordandogli che è umano, e che c’è del divino in lui e nella natura e nel cosmo.
- Che cosa le restituirà il mare?
Mitologie, conchiglie, alghe, sogni, dubbi, passioni, tempeste, visioni, musiche, e spero ancora qualche verso, chissà mai.
Versione integrale dell’intervista uscita in data 24 dicembre 2019 su La Città Quotidiano, allegato a Il Resto del Carlino.
Giuseppe Conte (Imperia 1945) è una delle figure più apprezzate e in vista della poesia italiana d’oggi. Ha già pubblicato: Dialogo del poeta e del messaggero (Mondadori 1992, premio Montale) e L’Oceano e il Ragazzo, (BUR, 1983, TEA, 2002). Ha inoltre scritto romanzi, tra i quali L’impero e l’incanto (Rizzoli 1995), I senza cuore (Giunti, 2019) e ha curato l’antologia La lirica d’Occidente (Guanda 1990).
Sono stupefatto. L’intervista a Giuseppe Conte è un documento di cui non potranno fare a meno gli specialisti che in letteratura scovano e tramandano la storia e l’essenza di uomini portatori del dono poetico. E Conte è uno di questi nella letteratura mondiale. Un infaticabile osservatore del magma che bolle tra le civiltà. L’impoverimento umano dell’occidente, devoto ormai solo ai numi dell’economia, torna prepotente in questa intervista! È uno dei temi che addolorano Conte da decenni. E tuttavia nello scenario di un pianeta in pericolo, lui apre tante finestre sulla bellezza. La bellezza del mare che si mescola alla bellezza della terra e alla bellezza dell’uomo che sa vedere tutto questo. Ora voglio ringraziare l’autrice di questa profonda intervista, Alessia Bronico che ha tirato fuori il meglio del poeta. Dipenderà dal fatto che lei è una poetessa? Forse.