I libri sono come bambini – Intervista a Lia Mills

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I libri sono come bambini che se ne vanno di casa. Si desidera che il mondo li tratti bene

Qual è stato il primo libro che ti ha fatto una buona impressione?
Black Beauty di Anna Sewell. Mio fratello lavorava in una scuola di equitazione e io andavo pazza per i cavalli. *Spoiler alert * Ho urlato quando è morto Ginger.

Qual era il tuo libro preferito da bambina?
Miti e Leggende Irlandesi di Eilis Dillon e un libro di Miti Greci che apparteneva a mia sorella. Glielo nascondevo così da poterci trascorrere tutto il tempo che volevo. Oh, e Il giardino segreto (Frances Hodgson Burnett).

E qual è il tuo libro, o i tuoi libri, preferito ora?
Quanto tempo abbiamo? Sono un tipo di lettore che ama-il-libro-con-cui-sta, ma ho ottimi rapporti con le letture precedenti. Se la mia vita dipendesse da questo e dovessi assolutamente fare una scelta, probabilmente sceglierei la serie completa di The Paris Review Interviews, a cura di Philip Gourevitch. Un comfort book negli anni che ho vissuto all’estero è stato Il terzo poliziotto di Flann O’Brien; l’ho ripreso recentemente, con tutta la gioia della riscoperta. E avrò sempre un debole per Una stanza tutta per sé, di Virginia Woolf – non solo per i contenuti ma anche per lo stile, e per l’espressione elegante, arguta della nascita di un’idea, quando metterla insieme deve essere stato un mal di testa.

Qual è la tua citazione preferita?
Meglio accendere una candela che maledire l’oscurità.

Chi è l’autore irlandese più sottovalutato?
Celia de Freine è principalmente una poetessa, drammaturga e sceneggiatrice, ma scrive anche romanzi, e ha scritto il libretto per l’opera di Fergus Johnston The Earl of Kildare (Il conte di Kildare). Scrive in inglese e in irlandese. La sua opera in lingua irlandese ha vinto numerosi premi, e due dei suoi film (uno in irlandese e uno in inglese) sono stati premiati al Festival Internazionale del Cinema di New York. Scrittori e studiosi la conoscono bene, ma anche se la maggior parte dei suoi lavori è disponibile in traduzione e alcuni lo sono in versione bilingue, non ha l’attenzione che si merita. Tutto questo sta per cambiare: quest’anno usciranno due raccolte in lingua inglese. Una è un’antologia di poemi narrativi ambientati in una scuola per Nomadi, abilmente intitolata A lesson in Can’t; l’altra è una traduzione in inglese della sua raccolta di poesie Fiacha Fola, che sarà pubblicata con il titolo Blood Debts (Debiti di sangue). Sono passati 10 anni da quando esplose la notizia dello scandalo sull’Epatite C – quando fu ammesso per la prima volta che ad alcune donne potesse essere stato somministrato Anti-D contaminato (furono colpite più di 1.000 donne e diverse centinaia di emofiliaci). Debiti di sangue racconta la storia dal punto di vista di una donna infetta da epatite C. Penso che quando verranno pubblicate queste due raccolte, molti più lettori potranno conoscere molto rapidamente il lavoro di Celia.

Preferisci le versioni in ebooks o quelle tradizionali a stampa?
La stampa.

Qual è il più bel libro che possiedi?
Il dizionario inglese New Shorter Oxford (2 Voll.)

Dove e come scrivi?
Abbiamo trasformato il nostro garage in uno studio e di solito lavoro lì, su un Mac. A volte requisisco il tavolo della cucina.

Quale libro ha cambiato il tuo modo di pensare alla letteratura?
L’assassinio di Roger Ackroyd di Agatha Christie. Avevo nove anni, o forse 10. Fui scandalizzata dal ribaltamento finale. Voglio dire, fui indignata. Ero una bambina estremamente moralista, e pensai che la Christie avesse barato. Fino ad allora ero stata una lettrice impegnata ma ingenua: se era stampato doveva essere vero. Quel libro mi mostrò che dietro il mondo dietro le righe c’era una mente, che mi piacesse o no. Mi ha anche insegnato che non ci si deve fidare delle regole.

Qual è la ricerca maggiore che hai fatto per un libro?
Questa (Fallen), decisamente. Anni. Forse troppo. Ho dovuto trascorrere un lungo periodo a seguire tracce.

Qual è il libro che ti ha influenzato di più?
Una stanza tutta per sé di Virginia Woolf (vedi sopra).

Quale libro vorresti regalare al figlio di un amico per il suo 18° compleanno?
No Logo di Naomi Klein.

Che libro avresti voluto leggere quando eri giovane?
Proust: Alla ricerca del tempo perduto – ora non lo troverò mai.

Che consiglio daresti a un aspirante autore?
Se vuoi essere uno scrittore, devi sceglierlo – e continuare a sceglierlo finché non sai di esserlo. Poi nulla ti fermerà. Sei tu quello che deve farlo. Non aspettare di essere invitato, o che qualcuno ti mostri la strada; devi capirlo da solo attraverso la pratica, parola per parola e pagina per pagina. Se qualcosa ti blocca, guardala negli occhi e chiediti perché, e se c’è qualcosa che puoi fare per cambiarla. Se il tuo problema è il tempo, allora prenditi mezz’ora al giorno – si può. Un libro non si scrive in una sola seduta; una parola alla volta, un paio di parole al giorno e arriverai alla fine. Forse non arriverà velocemente come vuoi ma, se non ci metti quelle ore per cominciare, non arriverà affatto.

Che peso dai alle recensioni?
Mi piacerebbe dire che non mi interessano, ma ovviamente non è così. I libri sono come bambini che se ne vanno di casa. Desideriamo che il mondo li tratti bene. Vogliamo che realizzino le loro potenzialità e siano felici e sicuri. Sai, la vita raramente va in questo modo, ma non smettiamo di sperare.

Dove pensi stia andando il settore editoriale?
Credo che i libri non vadano da nessuna parte. L’editoria si sta adattando ed è in continua evoluzione, ma è troppo presto per dire cosa succederà. Io credo molto nei cicli di cambiamento, ma credo anche nella lettura come a una facoltà umana essenziale e non credo che ne faremo a meno.

Quali tendenze della scrittura ti hanno colpito ultimamente?
Il ritorno del racconto, in pieno vigore e in trionfo. L’aumento delle performance di poesia e la narrativa sperimentale, soprattutto i racconti molto brevi e la flash fiction – ce ne sono molti esempi nel numero recente della Stinging Fly (rivista letteraria, ndt), in una sezione curata su invito da Nuala Ní Chonchúir. In Irlanda, c’è stato un aumento della narrativa speculativa ambientata in un futuro molto vicino, un modo per gettare uno sguardo penetrante sul presente, come ad esempio in From Out of the City di John Kelly. E’ una novità. Poi c’è il docu-dramma. Recentemente Gerald Dalton li ha combinati, mettendo in scena una trilogia di spettacoli intelligente, The State We’re In, al Pavilion Theatre di Dún Laoghaire. La trilogia immagina una serie di “dibattiti” ambientati nel 2024, per riflettere “retrospettivamente” sugli sviluppi immaginati della società irlandese nei successivi 10 anni. Grande idea e molto efficace.

Che lezioni sulla vita hai imparato dalla lettura?
Tutto quello che so della vita è venuto dalla lettura. Tutta la narrativa riguarda la prospettiva: la lettura ci permette di apprezzare il punto di vista degli altri; dimostra che la verità è relativa; mantiene la lingua viva e ci insegna le sfumature di significato, come leggere il mondo e le altre persone.

Essere una scrittrice cosa ti ha insegnato?
Che nessun altro può farlo per te. A continuare a provarci fino a quando ci arrivi.

Qual è la tua parola preferita?
Sì.

Se dovessi scrivere un romanzo storico, quale evento o figura sarebbe il tuo soggetto?
Ehm, ne ho appena finito uno. Fallen è ambientato durante la Grande Guerra e la Rivolta di Pasqua.
Mi stai dicendo che vuoi che io ne scriva un altro?


Fallen di Lia Mills è pubblicato da Penguin Ireland.
Questa intervista è pubblicata per gentile concessione di The Irish Times, dove è apparsa Martedì, 18 Novembre 2014.

La storia dietro Fallen, il mio confronto con la Rivolta
di Lia Mills

Sono cresciuta con una visione ferocemente romantica del nazionalismo irlandese. Le storie mi entusiasmavano, tutte – la ribellione, il dissenso, i discorsi infuocati dal molo, o pronunciati su tombe spaventosamente aperte. La religione ci aveva insegnato ad apprezzare l’idea del martirio, e qui lo stesso principio veniva trasferito alla politica – ma ero andata troppo lontano nel linguaggio e nell’immaginario di entrambi per individuare la sovrapposizione.
La Rivolta di Pasqua. Bene. Il simbolismo era quasi perfetto come chiunque può immaginare. La retorica del sacrificio. I pochi contro i molti. Un pugno di coraggiosi che fronteggia l’ira di un esercito imperiale e la tiene a bada per una settimana intera, conquistando in ultima analisi la libertà per tutti noi, dando la vita per il proprio paese. Roba elettrizzante.
Ma una cosa che mi ha sempre dato il formicolio era la nozione risaputa che i Dublinesi fossero ostili alla Rivolta. Dopo tutto, Dublino era l’unico posto dove abbia avuto luogo una qualsiasi Rivolta efficace. Dublino insorse, e Dublino pagò il prezzo, e c’è la posterità che si lamenta perché alcuni Dublinesi – assolutamente non tutti – erano arrabbiati.
Io prendo le difese della mia città.

Sono venuta a sapere qualcosa sulla storia letteraria e sociale del tempo perché nel secolo scorso ho avuto un assegno di ricerca e di insegnamento presso UCD e il mio compito era quello di riscoprire le scrittrici dimenticate (1885-1915). Molte di quelle donne sono state attiviste politiche e/o sociali. È stato un momento emozionante in Irlanda – sull’orlo del cambiamento, con l’apertura verso un futuro pieno di possibilità. Le donne stavano conquistando il diritto a una formazione universitaria e avrebbero presto conquistato il diritto di voto. La storia della Rivolta era dura e pura come il cuore del cristallo, in assoluto il punto di svolta del nostro destino come nazione. Inattaccabile. È il nostro mito di fondazione e ne siamo orgogliosi. Orgogliosi degli uomini e delle donne che la realizzarono. E giustamente.
Ma.
Per quanto ne sapevo, nessuno nella mia famiglia ebbe nulla a che fare con la Rivolta – nonostante io venga da un tipo di famiglia in cui perfetti sconosciuti risultano essere cugini di primo grado, e antenati solitari (almeno così credevamo) si sono poi rivelati essere fratelli, fratellastri e fratelli acquisiti di cui non sapevo nulla. I miei genitori erano della generazione che “qualunque cosa tu dica, non dire niente”.
Un giorno ero seduta in macchina in fondo a Dominick Street, in attesa che il semaforo diventasse verde, e all’improvviso fu come se i muri intorno a me – negozi nuovi, condomini, fast-food, appartamenti, alberghi, cinema – sbiadissero e la città vecchia prendesse il loro posto, fatiscente, fuligginosa e tenuta insieme da cuciture marcite. E mi sono resa conto che stavo guardando, più o meno direttamente, il luogo in cui è nata mia madre: sopra il negozio, in Parnell Street. Il semaforo diventò verde e io me ne andai via, pensando intensamente.
Una serie di nonni erano lì in Parnell Street, dove l’esercito britannico si ammassò nel 1916 per buttar fuori dal GPO l’ultimo dei combattenti. I genitori di mio padre erano in Merrion Row in una situazione molto simile: c’erano intensi combattimenti attorno a Stephen’s Green e allo Shelbourne Hotel. A quel tempo mia nonna era incinta di mio padre. Entrambe le famiglie vivevano e lavoravano proprio al confine della zona dei combattimenti. Entrambe avevano bambini piccoli. Le loro imprese avrebbero chiuso, avrebbero vissuto la penuria di cibo e i saccheggi; la legge marziale, con i soldati e i posti di blocco nelle strade; le cannoniere sulla Liffey; metà della città in fiamme. Deve essere stato terrificante.
Ho allontanato il pensiero, ma sapevo che ci sarei tornata. Ebbi una vaga idea che avrei potuto scrivere un romanzo sulle vite di alcuni attivisti che avevo studiato. Ma quando arrivai a iniziare quel romanzo, anni dopo, non riuscivo a trovare un modo per entrarci. Ogni parola che usciva dalla bocca dei personaggi suonava ampollosa e didascalica e politicamente corretta. Avevano un sapore legnoso. Così, a poco a poco, ho messo da parte gli attivisti e ho lasciato che Katie (il personaggio principale) fosse libera di muoversi negli spazi tra di loro. Lei non sa cosa sta succedendo, o come andrà a finire. Quando inizia la Rivolta lei è ancora scossa dalla notizia che suo fratello gemello è stato ucciso in guerra.

Quando ho cominciato a fare ricerca per il romanzo, sono rimasta scioccata nell’apprendere l’entità della violenza della Rivolta, il danno per la città, il numero di vittime. Sono state uccise più di 440 persone. Quasi 1.500 sono state ferite gravemente. Si dovette prestare soccorso a 100.000 persone. Se a quel tempo i Dublinesi erano arrabbiati – e ci sono prove che dimostrano che molti di loro erano in sintonia e sostenevano gli insorti – avevano ragione di esserlo. La rabbia non durò a lungo: l’opinione pubblica si modificò abbastanza velocemente, con le esecuzioni. Ma mi chiedo perché la gente insista ancora a riferirsi ai 16 uomini che vennero giustiziati come se fossero gli unici che persero la vita, quando la verità è piuttosto diversa.
Leggendo degli irlandesi che combatterono nella prima guerra mondiale – di coloro che ci andarono perché fare il soldato era l’unico modo in cui potevano dar da mangiare alle proprie famiglie affamate, e di quelli che sinceramente credettero che combattere avrebbe aiutato a realizzare l’indipendenza irlandese – mi arrabbiavo per loro. Vennero traditi assolutamente da tutti, dopo la Rivolta. Dall’esercito in cui avevano combattuto, dal governo britannico, in ultimo dal nostro governo. Dopo pochi anni divennero una verità scomoda di cui non si poteva parlare.
Sono andata in molte scuole, quindi ho un campione ragionevole su cui basarmi: quando alla mia generazione veniva insegnato della Rivolta, la storia veniva pesantemente modificata. Tutto l’accento veniva posto sui diritti e sui torti della cosa. Tu stavi da una parte o dall’altra, a favore o contro, giusto o sbagliato. Non ho mai sentito parlare della conta delle vittime né una sola parola sulle molte persone che uscirono sotto il fuoco per portare in ospedale i feriti o per spegnere gli incendi, o di coloro che aprirono le proprie case agli sconosciuti come rifugio temporaneo per le vittime, non importa da quale parte stessero. Questo è un inferno di silenzio, quando dobbiamo insegnare ai giovani quali scelte facciamo nella vita, che tipo di persone vogliamo essere.
Cominciai a mettere in discussione, sul serio, la visione patinata che veniva data ufficialmente degli eventi. Avrò sempre un nodo in gola a Stonebreakers’ Yard; o pensando a Connolly, legato a una sedia in modo che gli potessero sparare; o a O’Rahilly che scrisse un’ultima nota a sua moglie in un portone, sapendo che stava per morire. Le storie – di Asgard, o di Grace Gifford che sposò Joe Plunkett nella cappella a Kilmainham qualche ora prima della sua esecuzione – saranno sempre emozionanti. È il nostro mito di fondazione, e lo amiamo. Ma quando scrivevo Fallen ho abbandonato il mito per chiedermi come realmente possa essere avere la tua città che esplode in una violenza improvvisa, quando non hai la minima idea di quello che sta succedendo, o del perché.
Il romanzo è ambientato nel passato, ma è una questione contemporanea. L’altro giorno ho sentito un giornalista alla radio fare un reportage dall’Ucraina. Ha detto che ci sono estremisti da entrambe le parti, ma la stragrande maggioranza della gente comune cerca in modo disperatamente faticoso di mantenere un corso della vita normale. Questo è ciò che i personaggi Fallen cercano di fare, mentre il mondo che conoscono cade a pezzi.
Katie è un personaggio completamente inventato, ma la sua confusione e il suo conflitto di lealtà si sentono in modo più vero rispetto a qualunque tipo di proselitismo che avevo assegnato ai personaggi nelle prime bozze. Lei non sa come rimettere di nuovo insieme la sua vita, o se le importa abbastanza provarci. Trovando riparo in casa di amici dalla violenza della strada, incontra Hubie, un’altra vittima della guerra. Illusioni infrante, ogni lutto un futuro rubato, lottano per dare un senso alla disgregazione del loro mondo e per immaginare una via attraverso il caos che ne consegue – e quando le vecchie regole non valgono più, cominciano a rivelarsi nuove possibilità.
Sebbene Fallen si svolga in un luogo e in un tempo determinati, sullo sfondo della Rivolta a Dublino, in realtà riguarda l’amore e il dolore. Due persone danneggiate cercano di cavarsela di fronte al più antico e al più difficile dei dilemmi umani: come vivere.

Fallen di Lia Mills è stato pubblicato da Penguin Ireland (paperback, € 14,99) il 5 giugno 2015 ed è stato presentato da Anne Enright al The Gutter Bookshop, Temple Bar, Dublino, il 10 giugno alle 18:30.

Questo testo è pubblicato per gentile concessione di The Irish Times, dove è apparso Giovedi 5 Giugno 2014

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