L’enigma della realtà: un incontro con Nikolaj Gogol’

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Il salotto è immerso in una luce incerta, come se la realtà stessa tentennasse tra sogno e veglia. Nikolaj Vasil’evič Gogol’ siede su una poltrona dal velluto scolorito, avvolto in un cappotto troppo pesante per la stagione. Il suo sguardo si accende a tratti di febbrile entusiasmo, per poi smarrirsi in un punto indefinito del soffitto. Ha accettato di parlare della sua scrittura, della letteratura, ma con la sua tipica esitazione, come se il mondo stesso potesse sgretolarsi sotto il peso delle parole.

Signor Gogol’, qual è il segreto per raccontare una storia che, come le vostre, afferri l’anima del lettore?
Voi chiedete segreti… Ma ditemi, avete mai visto un naso andarsene in giro da solo, come un gran signore, mentre il suo legittimo proprietario si torce le mani per la disperazione? O una carrozza che rotola nella notte, senza che nessuno sappia se trasporta un vivo o un morto? La scrittura non si svela a chi la cerca con domande dirette. Essa si insinua nei vicoli della mente, si annida tra le ombre delle case, bisbiglia tra i bottoni scompagnati di un cappotto logoro. Non c’è un segreto, solo la capacità di vedere.

Vedere che cosa?
Il grottesco nascosto nel quotidiano. Il tragico che ride di se stesso. La miseria di un impiegato che, una volta perduto il cappotto, non è più nulla – ah, “Il cappotto”! (Ride sommessamente). Avete notato come la vita umana dipenda da cose tanto misere? Un cappotto, un documento, una firma mancata. Ma, sotto questa farsa di cianfrusaglie e scartoffie, vi è un abisso. E la letteratura deve mostrare quell’abisso.

Nei vostri scritti c’è sempre una tensione tra il riso e l’orrore. È questo il vero cuore della vostra poetica?
Cos’è il mondo se non una farsa di spettri? (Si china in avanti, abbassa la voce). Credete forse che “Anime morte” sia solo la storia di un truffatore che compra i nomi dei defunti? No, no! Io ho scritto della Russia stessa, di ciò che si muove sotto la sua superficie: un grande carro postale che viaggia senza mai arrivare, un sogno che si disfa al mattino. E la risata… la risata è la sola arma che ci resta contro il nulla che ci aspetta alla fine del corridoio.

Eppure, i vostri personaggi sembrano vivere di una loro realtà allucinata. Che rapporto c’è tra il reale e il fantastico nella vostra scrittura?
Voi credete che il fantastico sia un’alterazione del reale, ma siete certi di sapere cosa sia il reale? Vi dirò questo: un giorno, mentre scrivevo, ho udito un fruscio dietro di me. Mi sono voltato e – per Dio! – ho visto la mia stessa ombra ridere. Si è scostata dal muro ed è uscita dalla stanza, lasciandomi lì, con la penna a mezz’aria. Ora ditemi: è più reale ciò che scriviamo o ciò che viviamo?

Molti sostengono che con I racconti di Pietroburgo avete rivelato il volto nascosto della città. Era quello il vostro intento?
Pietroburgo! Città di nebbia e di cartapesta, nella quale un uomo può svegliarsi una mattina senza più il proprio naso, nella quale le insegne delle botteghe ridono beffarde al passante affamato. Ho raccontato Pietroburgo come si racconta un sogno febbricitante: vi si trovano alti funzionari e piccoli impiegati, nobili decaduti e folletti invisibili, e ciascuno danza la sua ridicola tragedia sotto il cielo grigio. Ma è forse solo Pietroburgo? O tutta la Russia è un vasto teatro di ombre?

In Memorie di un pazzo, seguiamo la discesa nella follia di un umile impiegato che finisce per credersi re di Spagna. La sua voce è al contempo comica e tragica, ma la sua alienazione sembra dire molto di più. Cosa volevate raccontare con questo personaggio?
Ah, la follia! Ma siete certi che sia lui a esser pazzo? Oppure è il mondo intero che ha perso ogni logica, e solo lui, con i suoi deliri, ne ha compreso il segreto? Guardatevi intorno: ogni giorno uomini insignificanti si danno titoli pomposi, credono di governare qualcosa, si illudono di avere un posto nell’universo. E cosa fa il mio impiegato? Non fa altro che seguirne l’esempio, ma con maggiore sincerità! Chi può dire che non sia davvero il re di Spagna? Chi può dire che la realtà che vediamo non sia solo un errore del nostro sguardo? Forse il suo unico peccato è stato quello di leggere troppo a lungo le lettere dei cani… (Ride sommessamente).

Un’opera come Taras Bul’ba, immersa com’è in un eroismo arcaico e brutale, appare molto diversa dal resto della vostra produzione. Che cosa vi ha spinto a scriverla?
“Taras Bul’ba” è un canto di guerra, un inno a una terra feroce e indomita! (Gli occhi brillano di un’ombra antica). Io volevo raccontare l’anima cosacca, la sua forza, il suo orgoglio, il sacrificio di chi vive solo per la spada e per la libertà. È forse così distante dagli altri miei scritti? Non sono anche gli impiegati di Pietroburgo, in fondo, dei guerrieri sconfitti, anime erranti senza armatura? Solo che, al posto della sciabola, brandiscono un calamaio, e al posto del campo di battaglia affrontano il gelo delle scrivanie, l’impersonalità delle burocrazie. Ogni epoca ha i suoi eroi… e i suoi fantasmi.

La scrittura, dunque, ha il potere di svelare la verità?
(Sorride, enigmatico). La verità, la verità… La verità è come un cocchiere ubriaco: vi dice che vi porterà a casa, ma vi scarica nel bel mezzo della steppa, tra il vento e i lupi. Chi scrive non rivela la verità, semmai ne solleva il velo appena per un istante, prima che ricada ancora più fitto.

Eppure, c’è chi dice che i vostri scritti abbiano influenzato la coscienza del vostro Paese. È questo lo scopo della letteratura?
Se così fosse, sarebbe un compito troppo pesante. Io scrivo perché il mondo mi appare come una grande scena di teatro in cui gli attori si sono scordati la parte. Perché rido quando dovrei piangere, e piango quando dovrei ridere. La letteratura non cambia il mondo, ma lo riflette come in uno specchio deformante, uno specchio in cui la faccia di un ministro può rivelarsi identica a quella di un mendicante.

Un’ultima domanda. Se oggi vi fosse data la possibilità di scrivere ancora, che cosa scrivereste?
Ah! Scriverei il seguito di “Anime morte”, certo! Ma non più della Russia che ho conosciuto, bensì di una Russia che non esiste ancora, una Russia di spiriti vaganti, di case che si costruiscono da sole, di città fatte di carta e di fumo. E forse, forse… aggiungerei un capitolo su di me, su un certo scrittore che un giorno si svegliò senza più la sua anima, come un personaggio di una sua stessa storia.

L’intervista si conclude con un silenzio inquietante. Gogol’ osserva la stanza con un’aria assente, come se non fosse più certo di essere davvero lì. Poi, senza dire altro, si alza e si avvolge nel suo pesante cappotto. Prima di uscire, si ferma un istante sulla soglia e sorride, ma è un sorriso strano, ambiguo e furbo allo stesso tempo, come quello di un uomo che abbia appena intravisto qualcosa che gli altri non possono vedere.


Serie: Le interviste impossibili

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Heiko H. Caimi, classe 1968, è scrittore, sceneggiatore, poeta e docente di scrittura narrativa. Ha collaborato come autore con gli editori Mondadori, Tranchida, Abrigliasciolta e altri. Ha insegnato presso la libreria Egea dell’Università Bocconi di Milano e diverse altre scuole, biblioteche e associazioni in Italia e in Svizzera. Dal 2013 è direttore editoriale della rivista di letterature Inkroci. È tra i fondatori e gli organizzatori della rassegna letteraria itinerante Libri in Movimento. ha collaborato con il notiziario "InPrimis" tenendo la rubrica "Pagine in un minuto" e con il blog della scrittrice Barbara Garlaschelli "Sdiario". Ha pubblicato il romanzo "I predestinati" (Prospero, 2019) e ha curato le antologie di racconti "Oltre il confine. Storie di migrazione" (Prospero, 2019), "Anch'io. Storie di donne al limite" (Prospero, 2021) e, insieme a Viviana E. Gabrini, "Ci sedemmo dalla parte del torto" (Prospero, 2022) e "Niente per cui uccidere" (Calibano, 2024). Svariati suoi racconti sono presenti in antologie, riviste e nel web.

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