Sacha Naspini – Villa del seminario

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Già solo la mera bizzarria storica che fa da spunto al romanzo dovrebbe muovere curiosità verso questo ultimo lavoro di Sacha Naspini: una villa nel grossetano, di proprietà della diocesi, che negli anni della Seconda Guerra Mondiale viene data in affitto con regolare contratto alle autorità fasciste per essere adibita a campo d’internamento. Attorno e all’interno di essa si sviluppano le vicende di un piccolo paese e dei suoi abitanti, con le stoccate della Resistenza che si consumano nei boschi circostanti.

Naturalmente uno spunto accattivante non basta a creare un’opera d’arte, perché attorno ad esso vanno costruite idee che vanno impastate con la scrittura, ma è proprio qui che il libro acquisisce il suo senso d’essere. Perché Naspini è bravo, tanto bravo, e ciò cui dà vita è una vicenda in cui si fondono commozione, rabbia, paura, eroismo, solidarietà, grettezza. Com’è tipico dei suoi lavori, è sempre la dimensione umana, infatti, che interessa all’autore toscano: le sue bassezze ma anche le sue vette, con la Storia lasciata sempre sullo sfondo, quando non fuori campo (si sente l’eco dei cannoni alleati spargersi da Anzio, la paura vibrare da Cassino, i boschi muoversi sotto i passi delle bande partigiane). Una dimensione incentrata sulle vicissitudini di René, ciabattino del piccolo borgo immaginario di Le Case, uomo da sempre ai margini della vita – un amore mai dichiarato per la vicina di casa Anna, un atteggiamento di pavida attesa in riferimento alla guerra – che a un certo punto si troverà costretto a diventare protagonista dei propri giorni, spinto proprio dal suo sentimento per Anna, nel frattempo unitasi attivamente alla Resistenza.

Ciò che va a ribadire Naspini, però, anche grazie alla sua grande partecipazione emotiva per i suoi personaggi, non è un discorso sull’eroismo militare, il coraggio o lo sprezzo della morte; ciò che maggiormente lo interessa è piuttosto l’eroismo della quotidianità, quello degli abitanti costretti a combattere il freddo, gli stenti, la paura. E il riscatto non è necessariamente il gesto eclatante di lanciarsi contro il nemico, ma quello di prendersi cura di qualcun altro, di cucire un vestito, di onorare un’attesa. Tutto questo grazie, principalmente, al grande lavoro su una scrittura materica, pastosa, imbastardita da espressioni gergali capaci di illuminare ma anche di incidere a fondo la carne delle situazioni. Pagine da gustare, le sue, da centellinare per coglierne le finezze, per apprezzarne l’equilibrio compositivo e la misura per arrivare così allo stupore degli effetti che creano (tutto da scoprire il modo in cui il soldato fascista, nel finale, viene ridotto all’impotenza, o le modalità con cui si conduce l’incontro tra Anna e René).

In mezzo a tanti prodotti patinati i cui linguaggi tendono ad assomigliarsi – non è mia intenzione derogare alla regola che mi sono imposto di esimermi dal commentare libri che ritengo mediocri, ma di storie di guerra con sentimentalismo un tanto al chilo se ne sono lette, ultimamente… – quella di Sacha Naspini è una voce che merita tutta l’attenzione possibile.

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Ivan Zampar, nato nel 1972 a Udine, risiede da sempre a Cervignano del Friuli. Dopo essere stato avvocato e collaboratore del quotidiano “Il Piccolo”, attualmente è occupato come educatore professionale. Da sempre ama leggere, talvolta scrive. Ha pubblicato due raccolte di racconti (“Incontri”, CulturaGlobale edizioni, 2017; “Quello che ci portiamo dietro”, Besa Muci, 2022) e due romanzi scritti a più mani (“La follia dell’altrove”, con David Ballaminut, Voras edizioni, 2011; Ester – All’ombra del fiume, con David Ballaminute e Fabio Morsut, L’orto della cultura, 2021).

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