Uccellacci e uccellini

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Il film si apre con una falsa citazione: Dove va l’umanità? Boh! (Succo di un’intervista di Mao a Mr. Edgard Snow) e con piani sequenza alternati e primissimi piani che mostrano Totò e Ninetto che percorrono una strada tutta da costruire.

La metafora del viaggio della vita è molto chiara, resa ancora più evidente dall’andamento circolare che unisce la scena iniziale a quella finale, realizzando al tempo un omaggio al cinema di Charlie Chaplin. Il tono è surreale, da fiaba metaforica, accentuato dalla presenza di falsi cartelli stradali che lungo il percorso indicano la direzione da Istanbul e da Cuba, ma anche finti nomi di strade in borgata: via Benito la Lacrima, disoccupato; via Antonio Mangialapasta, scopino; via Antonio Mastralenzola, scappato di casa a 12 anni.

Pasolini descrive la Roma che ama, quella del sottoproletariato urbano, delle borgate, scrive un non racconto on the road per le strade di un raccordo anulare in costruzione e di un’umanità dolente che ama e sente vicina, immortalando volti ed espressioni che sono simbolo di un’epoca. Vediamo un bar di periferia (improbabile Bar Las Vegas) con i ragazzi che ballano ritmi americani alla moda in attesa di prendere la corriera, quindi un duplice omicidio tra marito e moglie, con Totò che si ferma a osservare la morte mentre Ninetto fugge verso due possibili amori, immortalato dalla macchina presa.

La storia è intrisa di poesia, come consuetudine nel cinema di Pasolini, in uno dei suoi lavori più ispirati, alternando campi lunghi, panoramiche, primi piani e dissolvenze, tra sole e polvere, campi coltivati e in lontananza la città, avvolta in una spirale di nebbia. Ogni frase, ogni situazione ha un significato e un significante, quel che conta non è il racconto ma quel che il racconto vuol far capire.

La fotografia in bianco e nero di Delli Colli e Bernardo calza a pennello con il racconto, così come la colonna sonora di Ennio Morricone, tra sonorità western e brani sociali, completa il tono fiabesco dell’opera. La scenografia è lunare, quasi surreale, pure se ci troviamo nelle borgate romane, Pasolini sceglie il cantiere di un’arteria in costruzione per mostrare il cambiamento dei tempi, il consumismo, la scoperta del nuovo durante il viaggio. Il cammino incomincia e il viaggio è già finito, diranno i protagonisti.

A un certo punto padre (Totò) e figlio (Ninetto) devono fare i conti con un personaggio nuovo, Il Corvo (voce di Francesco Leonetti), che si unisce nel cammino e comincia a pontificare, a fare discorsi da intellettuale di sinistra, accompagnato dalla musica partigiana di Fischia il vento. Il Corvo dice di essere figlio del signor Dubbio e della signora Coscienza, parla come un poeta – filosofo, a tratti ricorda Pasolini e sembra una sua proiezione nella storia, mentre in alcuni passaggi sembra più integralista, più marxista. Il corvo racconta una storia del 1200, una sorta di parabola, con San Francesco che manda due poveri frati – Ciccillo e Ninetto (ancora Totò e Ninetto) – a convertire gli uccelli.

Dopo molte peripezie Ciccillo, il vecchio frate, riesce a parlare sia con i falchi che con i passerotti portando un messaggio d’amore divino, nonostante tutto un falco si lancia su un passerotto e lo divora, dimostrando che la natura resta malvagia. San Francesco conclude che i due frati non hanno fatto niente portando l’amore, quel che va fatto è cambiare il mondo, modificare la natura delle cose, diffondere un messaggio di pace tra chi è diverso. Una parabola esplicita, dal significato chiaro, che mette in gioco la forza della scienza e della fede, criticando la superstizione e chi fa mercato delle azioni dei santi. Un episodio che mostra tutta la religiosità umana di Pasolini, lontana mille miglia dalle gerarchie ecclesiastiche ma vicina alla chiesa evangelica e missionaria.

Divertente e simbolica la scacciata dei mercanti dal tempio a tempi di fast – motion per far capire che la religione è fede, non superstizione, citando il cinema comico del periodo muto. Pasolini usa la commedia grottesca per dire cose importanti, cita il Cantico dei Cantici di San Francesco versione romanesca, intonato da Totò, infine si abbandona a una pacata riflessione sul bisogno di cambiare il mondo, eliminando le disuguaglianze tra classi e nazioni.

Molto surreale e fiabesco l’incontro con un circo vagante e il parto di una donna incinta durante lo spettacolo, con i compagni che commentano: un’altra bocca da sfamare! Ma la nascita è pur sempre una festa. Il Corvo commenta sarcastico, ammonisce a non fare troppi figli perché c’è fame nel mondo. Per concludere con due citazioni epocali come il crepuscolo delle grandi speranze e l’esclamazione: Sono passate di moda le ideologie!. La metafora della guerra tra poveri e della lotta tra padroni e proletari torna in presa diretta nel racconto, quando Totò e Ninetto invadono il terreno di un contadino e vengono scacciati a colpi di doppietta, mentre il comico napoletano si cala sempre più in un personaggio simile a Charlot e fa capire quanto sia grande il bisogno di pace.

Altri due episodi sono metaforici. Totò che minaccia di sfratto una famiglia poverissima che non ha niente da mangiare e non può pagare l’affitto, subisce la stessa angheria da un ricco padrone che esige da lui identico pedaggio. La profezia del corvo si avvera: il pesce grosso, in questo mondo, si mangia il pesce piccolo, per concludere che i padroni sono sempre gli stessi, niente li potrà cambiare. Pasolini trova il modo di inserire nel contesto alcune immagini da lui girate durante i funerali di Palmiro Togliatti, immortalando operai in lacrime e volti di proletari affranti, una folla commossa che rende omaggio all’ultimo grande comunista. Ormai non ve lo chiedo nemmeno più dove andate, commenta Il Corvo. Ma è la vita, in fondo, il cui itinerario non è mai così chiaro e determinato. L’incontro con la prostituta Luna (una giovanissima Femi Benussi) produce l’inganno tra padre e figlio per profittare entrambi dei suoi favori, all’insaputa l’uno dell’altro (ma è soltanto ipocrisia). Il finale è ancora una volta metaforico. Il Corvo afferma che i professori vanno mangiati in salsa piccante, però chi li mangia diventa un po’ professore anche lui. Il Corvo continua a parlare, le sue parole cadono nel vuoto, mentre piange su se stesso. Ed è in quel momento che Totò decide di mangiarselo: Tanto se non me lo mangio io lo mangerà qualcun altro. Il profeta ha il destino segnato. Totò e Ninetto si allontanano in dissolvenza lungo la strada polverosa, come nel finale di un film di Chaplin, mentre Il Corvo spennato è stato giustiziato.

Pasolini pare prevedere il suo destino, facendo la metafora del saggio che – come Cassandra – racconta la verità e non solo non viene creduto, né seguito, ma risulta persino osteggiato, infine soppresso. Un piccolo capolavoro, considerato uno dei 100 film italiani da salvare, anche se quando uscì nelle sale destò un coro di mugugni e proteste – come Il Corvo avrebbe previsto –  per l’interpretazione insolita di Totò e per alcune scene giudicate eccessive. Assurdo divieto ai minori di anni diciotto. Due nastri d’argento a Pasolini (soggetto) e Totò (attore). Premiato a Cannes. Sergio Citti, aiuto regista, imparerà molto da questo film, riprodurrà identiche atmosfere in diverse pellicole successive, con il tema del viaggio senza meta, soprattutto riprodurrà nei suoi lavori il tono poetico da fiaba metaforica. 

Totò è interprete straordinario che viene del tutto destrutturato da Pasolini andando oltre la consueta maschera comica tradizionale, cosa che sconcerta il pubblico medio ma che permette al cinefilo di apprezzare la vera anima di attore comico e drammatico del grande napoletano.  Totò diventa un personaggio neorealista, una via di mezzo tra Keaton e Chaplin, accompagnato da un perfetto giovane lestofante come Ninetto Davoli. Molti volti sono presi dalle borgate e dal sottoproletariato romano, alcune presenze – come Femi Benussi – faranno strada nel cinema basso, ma con Pasolini tutto assume il senso di una grande opera poetico – sinfonica.

La colonna sonora è diversa dagli altri film di Pasolini che era solito chiedere ai compositori rielaborazioni di pezzi classici di Bach e Mozart. Morricone non si piega a tale logica e ottiene carta bianca per comporre una sua musica, pure se cita l’Aria del perdono dal Flauto magico di Mozart e la canzone partigiana Fischia il vento. Pasolini taglia alcune idee astratte, delle bagatelle weberniane che il compositore giudica suggestive, ma è soddisfatto del lavoro compiuto, soprattutto della musica a base di strumenti popolari (mandolino e chitarra) che bene si accostano al sapore popolare del film. Unica e insolita l’idea dei titoli di testa cantati da Domenico Modugno (in un primo tempo avrebbe dovuto cantarli Totò), su rime dello steso Pasolini e musica da ballata composta da Morricone.

La critica. Pier Paolo Pasolini (interpretazione autentica): “Un film raccontato in prosa con delle punte poetiche, cosa che è tipica delle favole”. Paolo Mereghetti (tre stelle e mezzo): “Fantasioso apologo umoristico sul ruolo dell’intellettuale e sulla trasformazione del proletariato, dove l’eccesso di didascalicità è compensato da una libertà di scrittura – il cinema di finzione si mescola a quello diaristico e documentaristico – davvero moderna. Riflessione metaforica sulla crisi della sinistra italiana (…) perché la vera essenza del messaggio pasoliniano è proprio nella religiosità sottesa al suo rapporto con il reale, sintomo di una verità arcaica e naturale, unico vero terreno in cui svolgere una presenza politica attiva (Volpi)”. Grande prova mimica di Totò, spogliato di ogni facile cliché comico e premiato al festival di Cannes. Pasolini tagliò l’episodio di circa 8’ di monsieur Corneau dove rispondeva a un critico francese che l’aveva attaccato”. Pino Farinotti (tre stelle, con un giudizio molto superficiale e poco condivisibile): “Come in tutte le favole, non c’è una storia ben definita (…) l’allegoria è chiara; il film una tardiva possibilità che Pasolini offrì al grandissimo Totò”. Morando Morandini (quattro stelle/due per il pubblico): “Film – saggio di stimolante originalità, il quarto film lungo di PPP, operetta poetica nella lingua della prosa, propone in brevi favole e in poetici aneddoti una riflessione sui problemi degli anni Sessanta: crisi del marxismo, destino del proletariato, ruolo dell’intellettuale, approssimarsi del Terzo Mondo. Con la sua divagazione evangelico – francescana, è anche un apologo umoristico che in alcuni momenti ha l’umiltà e la densità del capolavoro”.


I titoli di testa della pellicola vanno riportati nel modo originale in cui vengono presentati e cantati da Domenico Modugno (voce fuori campo), perché fanno parte integrale del racconto. Alfredo Bini presenta l’assurdo Totò, l’umano Totò, il matto Totò, il dolce Totò nella storia Uccellacci e uccellini, raccontata da Pier Paolo Pasolini, con l’innocente, con il furbetto Davoli Ninetto. Quindi l’elenco dei restanti attori: Femi Benuissi, Umberto Bevilacqua, Renato Capogna, Alfredo Leggi, Renato Montalbano, Flaminia Siciliano, Lena Lin Solaro, Giovanni Tarallo, Vittorio Vittori. Nel triste girotondo, nel lieto girotondo Luigi Scaccianoce architettò, Danilo Donati acconciò, Nino Baragli montò e rimontò, Ennio Morricone musicò, Mario Bernardo e Tonino Delli Colli fotografò, Fernando Franchi organizzò, Sergio Citti da filosofo aiutò. In maniera più ordinaria si citano gli altri tecnici: Gilberto Scarpellini (ispettore di produzione), Enzo Ocone (segretario di produzione), C. Morandi e V. Cerami (assistenti regia), F. Di Giacomo e G. Valle (operatori alla macchina), Rossana Maiuri (assistente al montaggio), Piero Cicoletti (aiuto costumista), Dante Ferretti (aiuto architetto), Vittorio Biseo (truccatore), Divo Cavicchioli (fotografo). Producendo rischiò la sua posizione Alfredo Bini. Dirigendo rischiò la reputazione Pier Paolo Pasolini. Titoli di coda più normali. Fonico: Piero Ortolani. Microfonista: Armando Bondani. Direttore d’Orchestra: Bruno Nicolai. La canzone Quelli come noi Amedeo Cassola. Pellicola: Ferrania. Teatri di Posa: Incir De Paolis Negativi e Positivi/ Effetti Orttici: S.P.E.S. dir. E. Catalucci. Doppiaggio C.D.C.. Mixage: Emilio Rosa. Registrazioni Sonore: International Recording. Durata: 85’. Genere: Commedia, Grottesco.
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Gordiano Lupi (Piombino, 1960), Direttore Editoriale delle Edizioni Il Foglio, ha collaborato per sette anni con La Stampa di Torino. Ha tradotto i romanzi del cubano Alejandro Torreguitart Ruiz e ha pubblicato numerosissimi volumi su Cuba, sul cinema e su svariati altri argomenti. Ha tradotto Zoé Valdés, Cabrera Infante, Virgilio Piñera e Felix Luis Viera. Qui la lista completa: www.infol.it/lupi. Ha preso parte ad alcune trasmissioni TV come "Cominciamo bene le storie di Corrado Augias", "Uno Mattina" di Luca Giurato, "Odeon TV" (trasmissione sui serial killer italiani), "La Commedia all’italiana" su Rete Quattro, "Speciale TG1" di Monica Maggioni (tema Cuba), "Dove TV" a tema Cuba. È stato ospite di alcune trasmissioni radiofoniche in Italia e Svizzera per i suoi libri e per commenti sulla cultura cubana. Molto attivo nella saggistica cinematografica, ha scritto saggi (tra gli altri) su Fellini, Avati, Joe D’Amato, Lenzi, Brass, Cozzi, Deodato, Di Leo, Mattei, Gloria Guida, Storia del cinema horror italiano e della commedia sexy. Tre volte presentato al Premio Strega per la narrativa: "Calcio e Acciaio - Dimenticare Piombino" (Acar, 2014), anche Premio Giovanni Bovio (Trani, 2017), "Miracolo a Piombino – Storia di Marco e di un gabbiano" (Historica, 2016), "Sogni e Altiforni – Piombino Trani senza ritorno" (Acar, 2019).

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