Kenji Nakagami – Il mare degli alberi morti

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Il mare degli alberi morti di Kenji Nakagami è una lettura di sconcertante impatto, romanzo possente di un autore contemporaneo annoverato tra i grandi del Novecento ma poco noto in Italia.
Un giovane operaio rifiuta di accettare l’idea che il suo vero padre si riveli essere un uomo che detesta; la sua inquietudine finisce per riflettersi anche sul rapporto con la fidanzata, mentre intorno a lui anche gli altri membri della sua famiglia allargata devono vedersela con drammi e miserie.

Il mare degli alberi morti descrive un Giappone lontano anni luce da quello delle geisha e delle cerimonie del tè cui ci ha abituato certa narrativa, che strizza l’occhio al bisogno di stereotipi dei lettori occidentali. Fondamentale, per la narrazione, è il luogo dove si intrecciano le storie che animano la trama, che permea il romanzo di una ferma volontà di denuncia sociale: l’autore sceglie il ghetto di Shingu, ma potrebbe essere Scampia o un sobborgo di Calcutta, o ancora la famigerata Pine Ridge Rez del Sud Dakota; luoghi dove è facile sprofondare e la cui realtà in pochi sanno raccontare senza scadere nel pietismo o nel paternalismo – errori nei quali non incorre Nakagami, che invece descrive Shingu con l’intento di metterne in luce i vari aspetti ed evidenziarne le ingiustizie. I personaggi del romanzo sono, infatti, tutti hinin, i paria della società, retaggio di un’antica divisione in caste che fa ancora sentire i suoi effetti nel Giappone contemporaneo, sotto forma di degrado sociale e di ghetti malsani dai quali sembra impossibile uscire.

Il peso di questa condizione di reietto grava anche su Akiyuki, il giovane protagonista, ossessionato dall’idea che nelle sua vene scorra il sangue di un noto malavitoso – del quale ha innegabilmente ereditato la corporatura massiccia – nonché dal sospetto di condividere la follia di uno dei tanti fratelli; divorato dal dubbio, tormentato dalla ricerca di un’identità che allo steso tempo desidera e rifugge, Akiyuki, originale figura di eroe tragico nel senso classico del temine, vaga attraverso quel microcosmo di povertà umana e degrado sociale che è il ghetto dei burakumin, dove tra diverse vicende di bassezze morali c’è sempre, comunque, un po’ di spazio per la pietà e la compassione che lega gli ultimi della terra.
L’ossessiva ricerca di identità, che si trasforma in condanna, suggerisce inaspettati rimandi faulkneriani e rende Il mare degli alberi morti una lettura impegnata, resa ancor più interessante dai suggestivi termini di paragone. Lo consiglio.

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