Erano i primi di febbraio del 1941.
Nel deserto faceva già caldissimo. La staffetta portaordini, due bersaglieri motociclisti pieni di sabbia fino agli occhi, ci raggiunse al sorgere del sole mentre eravamo accampati a nord di Antelat, sul costone roccioso dal quale si controllano le piste carovaniere lungo la depressione desertica della Cirenaica. Noi ufficiali ci disponemmo in cerchio, escludendo la truppa. I bersaglieri vi entrarono e fecero rapporto.
Si erano mossi di notte – ci dissero – per sfuggire alle avanguardie degli inglesi. Non potendo usare la radio per non segnalare al nemico la propria posizione, il comando generale della 10ma Armata aveva fatto ricorso alle staffette per comunicare con le unità dislocate sull’altopiano. In poche, rapide parole i bersaglieri ci informarono che Derna era caduta due giorni prima, e che il nemico stava avanzando rapidamente verso ovest. L’ordine del generale Graziani a tutte le unità era di ripiegare con la massima celerità verso la Tripolitania.
«Non andate a Bengasi. Non è più sicura» ci urlò infine uno dei due bersaglieri
mentre riaccendevano i motori e stavano per rombare via verso la pista carovaniera che portava ad Antelat.
«Prendete la strada costiera. Direzione Agedabia».
La nostra compagnia era raccogliticcia,
come tante, ormai. Non più di settanta uomini, qualche mortaio, una mitragliatrice, munizioni, viveri e tre autocarri. Dopo la perdita di Tobruk era stata formata mettendo insieme i soldati provenienti dai pochi battaglioni superstiti della Catanzaro, e un gruppo di fanti della Cirene, cui appartenevamo Giorgio e io.
Giorgio aveva il grado di tenente, ed era l’unico ufficiale medico della compagnia. Anch’io ero tenente, ma di truppa, ed ero di freschissima nomina, dal momento che, dopo i colpi pesantissimi inferti dagli inglesi all’Armata nei primi giorni dell’offensiva, i posti vacanti da ufficiale erano diventanti d’improvviso numerosissimi. La potenza di fuoco degli inglesi – li avevo visti in azione prima a Bardia e poi a Tobruk – era davvero insostenibile per noi. I loro carri armati molto più grandi dei nostri. E che velocità di spostamento le loro unità. Sembravano ovunque.
Un giorno, molti anni dopo, avremmo appreso dai libri di storia che quegli inglesi erano “splendidi soldati”. E avremmo letto della genialità dell’Operazione Compass, dei Topi del Deserto della 7ma Divisione corazzata, dei carri Matilda e del Generale Richard O’Connor.
Ma quella non era l’epoca del rispetto reciproco.
Il rispetto si dà volentieri solo a guerra finita. In quel momento gli inglesi erano solo un nemico duro e violento, il cui fuoco intensissimo faceva a pezzi i nostri soldati. Per noi erano più che nemici, erano messaggeri di morte; non sentivamo alcun rispetto per quei soldati, nessuna cavalleria.
Credo che così fosse anche per loro. Da entrambe le parti solo rabbia e odio, mescolati con la paura.
Io e Giorgio eravamo di Milano, entrambi di Lambrate. Ci conoscevamo sin da ragazzi. Avevamo frequentato tutte le scuole insieme, dalle elementari fino al liceo. Poi Giorgio si era iscritto a Medicina, e io avevo iniziato a lavorare con mio padre e mio fratello maggiore, nell’agenzia di assicurazioni che gestivamo per conto delle Generali.
Quando Mussolini aveva dichiarato guerra a Inghilterra e Francia, noi due eravamo sotto le armi, in fanteria. Poco più tardi avevamo fatto insieme domanda per andare a combattere in Libia. Insomma, eravamo volontari. Eravamo fascisti. Credevamo nel fascismo e, soprattutto, in Mussolini.
Non, come si è detto dopo, perché ci piacesse la violenza, o per odio alla democrazia. Noi non pensavamo di prendere a manganellate i bolscevichi, o a insegnare l’educazione con l’olio di ricino agli operai un po’ riottosi. Quelle erano cose da fanatici, da squadristi, accadute molto tempo prima, negli anni Venti, erano fatti che non ci avevano nemmeno sfiorato.
Io e Giorgio ci sentivamo fascisti nuovi.
Fascisti moderni o, sulla scia dello stesso Mussolini, che era pur sempre un antico massimalista, fascisti rivoluzionari. Sin da bambini il fascismo ci aveva conquistati per il senso dell’onore che aveva restituito alla Patria, per la decisione con cui si era schierato contro i soprusi delle potenze dell’Occidente, per l’impulso di energia e giovinezza che aveva infuso nel popolo italiano.
Ma, soprattutto, per quell’impeto di ribellione contro il vecchio mondo, e per l’attenzione che Mussolini sempre riservava agli umili, ai semplici, ai poveri. Come il suo, il nostro fascismo andava verso il popolo. Insomma, il fascismo che noi volevamo era sì un sogno di grandezza, ma anche di prosperità, di felicità, di uguaglianza e di benessere per tutti.
Però oggi, accampati sull’altopiano desertico a nord di Antelat, non eravamo più fascisti. O forse non lo eravamo come all’epoca del liceo, quando ogni atto di Mussolini, ogni sua parola, ci elettrizzava, riempiendoci di orgoglio. Almeno, non ero più fascista io.
Non solo a causa della guerra.
La guerra, anche se era una prospettiva atroce, io me l’aspettavo, e forse la ritenevo inevitabile, data l’avversione che, da anni, inglesi e francesi ci dimostravano.
No, non era stata la guerra. Erano la disorganizzazione, il disordine, lo schifo di quella campagna di Libia ad avermi stomacato. Sin da quando, sei mesi prima, ero sbarcato a Tripoli, e avevo preso contatto con gli alti gradi dell’esercito e con i membri del partito, avevo visto troppa furbizia, troppi ladrocini, troppe prevaricazioni. Bastava che qualcuno di loro avesse un po’ di potere, anche minimo, e potevate stare certi che l’avrebbe usato solo a proprio vantaggio.
E il popolo?
Il popolo sembrava che per loro non esistesse neppure. Erano come ciechi. A Tripoli facevano i milioni, si divertivano con le loro feste in ambasciata e le parate, ma ogni contatto con la gente comune era stato perso, ormai. Nessuno era così lontano dal popolo come i fascisti di Tripoli. E dov’era Mussolini, mi chiedevo? Qualcuno gli aveva riferito che cosa stava succedendo a Tripoli agli ideali del fascismo? No, glielo avevano nascosto. Certamente non lo sapeva.
A Tripoli i capi del partito rubavano i soldi della Patria, si pavoneggiavano come pagliacci in sahariana e pennacchio, gozzovigliavano con le amichette, di tanto in tanto facevano persino impiccare qualche ribelle locale, e poi andavano alle esecuzioni come a uno spettacolo.
Intanto, in Cirenaica,
male equipaggiati e peggio guidati, i soldati della 10ma Armata venivano inesorabilmente spezzati dal piombo inglese. Dov’era andato a finire lo slancio della Patria verso i suoi destini più alti? Dov’era il fascismo moderno, il fascismo mio e di Giorgio? No, in questo fascismo corrotto e putrido ormai non credevo più.
Non credevo più neppure nell’esercito. Non credevo più a niente. Nessun sogno di grandezza, di prosperità, di benessere. Troppo schifo, troppa morte, troppa sabbia avevo incontrato, in Libia.
Anche Giorgio era cambiato
in quei mesi. In un modo diverso dal mio, però. Sembrava infatti che i pagliacci in sahariana di Tripoli non lo irritassero come capitava a me. Giorgio si era come spento, illanguidito, appannato, al punto che faticavo a riconoscere in questo ufficiale pallido, assente, e a volte pervaso da un’inspiegabile fantasticheria, l’amico ilare e spensierato con cui avevo condiviso i miei vent’anni.
Giorgio tornava se stesso soltanto in combattimento, quando assolveva ai suoi doveri in modo perfetto. Mai visto un ufficiale medico migliore di lui, così controllato, efficiente, serio. Ma fuori dalla battaglia, non era più lui.
Di sicuro, al pari di me, Giorgio era, o era stato, fascista. Come me, aveva ammirato e forse ancora ammirava Mussolini. Come me, amava l’Italia. Tuttavia, da quando eravamo arrivati in Libia, era come se una malattia si fosse impadronita di lui. Una malattia che lui stesso, medico, non riusciva nemmeno a intuire, ma che a me era apparsa evidente sin da quando, nei campi di addestramento della Tripolitania, più di una volta lo avevo scoperto immobile, con occhi sognanti, davanti al deserto, mentre calava la sera.
Per me il deserto era il caldo,
la sete, il sudore che appiccicava l’uniforme alla pelle; era il disordine, era la dissoluzione, era la morte per consunzione o per le imboscate del nemico. A Giorgio, al contrario, il deserto sembrava una fonte inesauribile di fascinazione.
Da quando eravamo stati trasferiti da Tripoli in Cirenaica, e la guerra ci aveva spinti in luoghi desolati, dove i paesaggi, di una bellezza quasi maligna, erano ancora più aspri e più selvaggi, Giorgio era come caduto in preda di un incantesimo. Nel corso dell’ultimo mese di guerra sull’altipiano, quando veniva la sera, e la nostra compagnia si accampava presso qualche pozzo dall’acqua torbida, lo vedevo fuori della sua tenda, lontano da tutti, con un’espressione stralunata sul volto, la barba lunga, e gli occhi azzurrissimi, guardare verso occidente quelle estensioni di rocce e sabbia, che esplodevano di tinte rossastre sotto la luce del tramonto.
Proprio la sera prima
che la staffetta portaordini ci comunicasse l’ordine di ripiegare, mentre nel solito atteggiamento contemplava il tramonto, mi ero avvicinato silenziosamente a lui e, per la prima volta, lo avevo udito parlare. Parlava da solo, proprio come si dice che facciano i matti, biascicando frasi smozzicate, di cui non riuscivo a cogliere il senso. Amico mio, ricordo che pensai, ormai sei andato. Il prossimo a morire sarai tu. Di pazzia. E subito dopo morirò io. Ucciso dagli inglesi.
All’alba del giorno successivo, ripartita la staffetta, ormai non era più tempo per le fantasticherie. Tutta la compagnia, ufficiali e truppa, aveva capito all’istante che l’unica possibilità di salvezza era ritirarsi in fretta. Impartiti gli ordini ai reparti, ci predisponemmo a muoverci, anche se era chiaro che non saremmo andati troppo lontano: la strada costiera, che ci avrebbe portato in Tripolitania, era a quasi duecento chilometri di distanza e, con le scorte di benzina che ci erano rimaste, non avremmo potuto farne che centocinquanta o poco più.
Il resto del tragitto avremmo dovuto percorrerlo marciando nel deserto. La scarsità di benzina era una delle piaghe peggiori di quella guerra: eravamo in settanta, con armi, cibo e munizioni, e anche motorizzati: ma non c’era benzina sufficiente, perché se l’erano fregata i nostri comandanti per fuggire più velocemente verso il mare. Di sicuro saremmo rimasti a secco, anche se, come facemmo, avessimo abbandonato al suo destino uno dei tre autocarri.
I due autocarri superstiti
si fermarono con ironica puntualità dopo quattro ore, più o meno nello stesso punto, a poche centinaia di metri l’uno dall’altro. Noi ufficiali ci eravamo già resi conto di avere sbagliato i calcoli, perché non avevamo considerato quanto fossero sconnesse le piste carovaniere da percorrere. In realtà non avevamo fatto che un centinaio di chilometri. La costa era ancora lontanissima.
Demmo ai soldati l’ordine di scendere dagli autocarri, di raggrupparsi, e di partire subito. Ora non ci restava che marciare nel deserto. Almeno due giorni di cammino per raggiungere il mare, pensavo.
Nel pomeriggio la compagnia giunse,
dopo oltre otto ore di marcia, a un ampio spiazzo, circondato da ciuffi di vegetazione rinsecchita, e dominato da un’altura rocciosa. Al centro del pianoro polveroso un abbassamento repentino del terreno, quasi una buca, ci fece capire che quella, un tempo, era stata una sorgente. Ora, però, la profonda pozza appariva asciutta, con le pareti di argilla screpolata, disseccata dal sole. Il nostro occhio passava su quelle sponde giallastre, profondamente incise da crepe; i nostri piedi toccavano quella terra disperata, che si sbriciolava friabile sotto di noi, secca e raggrumata in fragili zolle. Il posto non era ospitale, ma la notte stava per giungere: decidemmo di accamparci lì.
La sera iniziò a calare languida e lenta come una cortina traslucida mentre i soldati alzavano le tende. Poco dopo, io e Giorgio ci sorprendemmo vicini e, dopo tante occasioni in cui ci eravamo tenuti accuratamente distanti, ci accoccolammo l’uno accanto all’altro, presso la sorgente disfatta. Forse era il richiamo della nostra antica amicizia, forse la sensazione che quelli sarebbero stati i nostri ultimi momenti insieme, forse era solo la mia curiosità di scrutare i suoi strani gesti ad attirarmi ancora una volta verso di lui.
Per qualche minuto restammo immobili,
entrambi silenziosi di fronte alla gloria del sole che moriva ad occidente. Poi Giorgio, d’improvviso, ebbe come una scossa e prese a parlare. Parlava lento, diversamente da come lo ricordavo, e parlava parole curiose. Non biascicava. Potevo capirlo benissimo, adesso, ma faticavo a riconoscere una logica in ciò che diceva. Come in un sogno a occhi aperti, ora evocava immagini antiche, ora narrava a un pubblico invisibile i favolosi Orienti:
«Pensate a quest’acqua, quando ancora la sabbia non l’aveva soffocata. Scorreva mormorando, fluiva nei giardini fragranti di frutta, ben coltivati, ridenti. Gli uomini si affollavano felici intorno a questa pozza, qui costruivano le loro dimore, qui impiantavano i loro traffici: forse questo era il centro di un’oasi ricca e famosa, affollata di forti guerrieri e di donne bellissime e velate…».
Il suo tono di voce,
così incantato e salmodiante, mi irritò, così come mi era accaduto altre volte, quando l’avevo visto preso dalla sua fantasticheria. Gli risposi con durezza:
«Se questa è stata un tempo un’oasi, oggi se ne è perduta persino la memoria. Le donne e i guerrieri, se un tempo sono davvero vissuti qui, oggi dove sono? Estinti, finiti: anche le loro ossa sono andate perdute. Quella vita che tu esalti, ammesso che ci sia stata, oggi non è più».
Giorgio tacque,
come riscuotendosi dalla visione. Poi rispose, con tono ancora sognante ma vagamente risentito:
«Perché mettete in dubbio persino il ricordo? Perché tante incertezze su un passato che non può non essere stato, dal momento che – e indicò con un gesto vasto e lento il pianoro polveroso, che l’ombra iniziava a invadere – ne affiorano i resti, qui, in ogni momento, e anche nelle vostre coscienze, nelle vostre parole, nelle vostre azioni?».
Chi era quest’uomo? Dov’era finito l’amico di un tempo? La sua assoluta mancanza di concretezza, questo suo sdolcinato annegamento mi contrariavano nel profondo, e neppure ne capivo il perché. Volli essere il più tagliente che potevo e, quasi gridando, gli dissi:
«Che infine qualcosa ci sia o non ci sia stato, in un tempo passato, a noi che cosa può importare, oggi? Che la vita possa essere stata migliore allora, bella come in un sogno – e non questo schifo che andiamo conducendo adesso – può cambiare la nostra, ora? Apri gli occhi alla realtà e guarda dove siamo veramente: la sorgente è secca, e non c’è che il nulla davanti a te, un nulla di polvere e di sete, di sabbia arida e di cardi spinosi.
E fuori di qui, qui attorno,
c’è il nemico, che forse fra poco ci assalirà e ci ucciderà come cani. O forse è già sul mare, che ci attende, pronto a distruggerci. Svegliati, Giorgio! Siamo qui, adesso, e qui dobbiamo condurre la nostra esistenza!».
E mi interruppi, deciso a non dire altro. Neppure lui mi rispose e poco dopo, senza scambiarci parola, ognuno di noi si alzò e raggiunse la propria tenda. Appena mi sdraiai sul lettino da campo, mi addormentai di un sonno nero e senza sogni.
Il mattino seguente, quando il sole sorse, trovò la compagnia già in marcia. Implacabile, inondò a poco a poco l’intero orizzonte: a fiotti lenti, come ondate di melassa appiccicosa, la sua luce ci percosse con durezza. In poco tempo tutti fummo fradici di sudore. Davanti a noi, a qualche decina di chilometri, forse c’era il mare. Che cosa avremmo trovato ad Agedabia, sulla costa? Le nostre unità in ripiegamento, o quelle inglesi che avanzavano per tagliarci fuori? La salvezza o la morte? Nessuno di noi lo sapeva, in quel momento.
Volgendoci durante la marcia, io e Giorgio potemmo vedere ancora per qualche momento quel ciuffo di alberi rinsecchiti alle nostre spalle. Ben presto, sottratto da un gruppo di alture scabre e rocciose, esso scomparve ai nostri occhi e, eclissato dal pensiero del ripiegamento, svanì anche dalle nostre menti.
FINE