Il partigiano Johnny

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Il faticoso cammino del partigiano Johnny,

dalle colline nevose delle Langhe allo schermo cinematografico, copre più di mezzo secolo di letteratura e di cultura del nostro paese.

Passando per una lunga e travagliata gestazione cartacea, il romanzo con cui Fenoglio racconta cos’erano stati i partigiani e la Resistenza in Italia venne pubblicato soltanto nel 1968, postumo e incompleto, con un titolo deciso dai curatori della prima edizione Einaudi.

L’opera, quindi, arrivò sul palcoscenico letterario quando i grandi romanzieri del neorealismo aveva già consegnato alla carta stampata le memorie della guerra (“Uomini e no” uscì nel 1944 e “I sentieri dei nidi di ragno” nel 1947). A che cosa dobbiamo questa sorte di latecomer?

Fenoglio non ha mai celato il fatto che per lui scrivere in italiano fosse una sofferenza, un lavoro innaturale, piegato sulla pagina a distorcere e ricucire pensieri che nascevano in inglese, la lingua delle letture giovanili che aveva finito per fondersi indissolubilmente con la sua attività di produzione artistica.

Il risultato di questo sforzo continuo (quasi esistenziale) di traduzione e correzione investì tutte le sue opere,  riscritte in numerose stesure (molte delle quali andate perse o bruciate per insoddisfazione dell’autore), finendo per trasformarsi in un interminabile percorso di rielaborazione dell’esperienza letteraria.

Quello che Fenoglio cercava nel Partigiano

era la creazione di una lingua magmatica e duttile, figlia di un’infinita sperimentazione, capace di emanciparsi dai canoni dell’ortodossia sintattica e lessicale.

E proprio a causa della sua natura intimamente scritta, nata da una ricerca che è prima di tutto un cammino verso la parola (e non verso l’immagine), per un lungo periodo di tempo l’opera rimase lontana dagli sguardi di registi e produttori, forse intimoriti dalla difficoltà di tradurla nel linguaggio della macchina da presa.

Dobbiamo aspettare fino al 2000 perchè Guido Chiesa, riprendendo in mano “La guerra di Johnny” (una sceneggiatura scritta già nel 1984, durante gli anni universitari), si arrischi nell’impresa di portare nelle sale cinematografiche il mondo letterario fenogliano.

Il progetto era certamente ambizioso, soprattutto in termini di budget, come testimoniato dall’alto numero delle comparse e delle location, almeno per gli standard di una produzione italiana.

Tuttavia, la pellicola raccolse una reazione piuttosto tiepida da parte del pubblico, che diventò addirittura glaciale se guardiamo gli incassi al botteghino. A difesa del cineasta, però, bisogna ammettere che lo sforzo era particolarmente arduo.

Nel caso de “Il partigiano Johnny“, infatti, il dilemma di convertire un prodotto letterario in una forma di comunicazione differente assume una rilevanza peculiare.

Come fare, infatti, a trasporre in immagini il complesso codice di neologismi, prestiti interlinguistici e costrutti ibridi che caratterizza il romanzo?

All’estremismo avanguardista di Fenoglio si poteva rispondere con una spregiudicatezza formale altrettanto innovativa, ma Guido Chiesa, fedele alla sua impostazione documentaristica, optò per una rappresentazione di grande solidità, capace di colmare alcune carenze strutturali del romanzo, dove spesso il linguaggio arzigogolato rende l’azione difficile da visualizzare.

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Locandina del Film

Considerazioni simili si impongono per la dimensione introspettiva che, all’interno dell’economia del romanzo, assume una posizione di fondamentale importanza.

Collocandosi sulla scia di una tradizione che va da Conrad a Stevenson, infatti, Fenoglio costruisce un percorso iniziatico che determinerà la maturazione del personaggio-eroe.

Partendo da un idealismo fatto di libri,

Johnny approda a un idealismo ancora più radicale, perchè forgiato sull’etica (puritana?) del “passero che non cascherà mai”, dove la lotta contro il fascismo diventa la manifestazione storica di un conflitto escatologico che nasce, prima di tutto, nei meandri della coscienza.

In questo caso, la soluzione cinematografica individuata è quella di affidare alla voce fuori campo di Johnny i suoi più intimi pensieri (“Really, I’m in the wrong sector of the right sight”), percorrendo la via di un compromesso che, però, comporta un inevitabile impoverimento rispetto alla ricchezza psicologica della versione letteraria.

Pur soffrendo di questi limiti (comuni alla maggior parte dei film con sceneggiature non originali), la pellicola firmata da Guido Chiesa riesce a lambire, almeno in alcune sequenze di grande poesia, l’ispirazione metafisica che permea le pagine del romanzo, dove una natura coleridgeana amplifica le inquietudini e le aspirazioni eroiche di Johnny.

Ma ha soprattutto il merito di traghettare nel nuovo millennio un romanzo che, grazie anche alla sua connotazione antiretorica (“Voi partigiani siete di gran lunga la parte meno importante di tutto il gioco”), si fa portatore di un messaggio di individualismo morale, prima ancora che politico, di grandissima attualità.

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Marco Pinnavaia è nato a Milano nel 1993 e vive a Cusano Milanino, una piccola città giardino che allevia lo stress della vita cittadina. All'università studia Scienze Internazionali per diventare ambasciatore. Dalla fine del liceo ha incominciato a scrivere articoli sia per testate locali ("Sprint&Sport", "Nuovasesto") che per siti online ("La Città di Cinisello", "Vogue.it"). Grazie a Hemingway, Hesse e Garcia Marquez è rinata in lui la passione per le storie meravigliose e antiche che da bambino ascoltava dagli adulti nelle sere d'estate. Così, forse un po' in ritardo, ha provato a prendere in mano la penna per raccontare i sogni e i colori della sua immaginazione. Ama viaggiare con lo zaino in spalla e tutto ciò che riesce a stupirlo. Sogna una barchetta a remi per andare a pescare e tanto tempo per scrivere.

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