La lunga notte del ‘43

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Florestano Vancini (1926 – 2008) debutta alla grande con un film tratto da una delle Cinque storie ferraresi (Premio Strega, 1956) di Giorgio Bassani e ambienta in una Ferrara nebbiosa e spettrale, una vicenda drammatica che ricorda uno degli ultimi eccidi fascisti. Una storia d’amore e morte, un dramma esistenziale che si compone neorealisticamente tra le rovine di una guerra perduta, mentre il dottor Pino Barillari (Salerno) – vittima della sifilide – osserva lo scorrere dei giorni e accetta con rassegnazione il tradimento della bella moglie (Lee) con Franco Villani (Ferzetti). Il cuore della pellicola sta tutto nella repressione fascista comandata dal federale Sciagura (Cervi) che per vendicare l’assassinio del console – ordito dallo stesso federale che voleva liberarsene – fa fucilare una decina di capri espiatori antifascisti. Tra questi c’è l’avvocato Villani, padre di Franco, evento luttuoso che convince l’uomo a fuggire dall’Italia. Passano gli anni, siamo nel 1960, Ferrara è cambiata, Franco torna con moglie e figli francesi per vedere la lapide dove fucilarono il padre. Va in farmacia, gli dicono che il dottore è morto e che la moglie è andata via da Ferrara, ma in compenso trova Sciagura e lo saluta come se niente fosse. “Credo che non abbia mai fatto niente di male”, dice alla moglie nell’ultima triste sequenza. Feroce atto di accusa che Vancini lancia, diciassette anni dopo un tragico evento, per dire che molti fascisti dispensatori di morte non sono stati puniti, sono ancora tra di noi, mascherati da persone per bene.

Non ci sono personaggi positivi nel dramma neorealistico di Vancini. Franco sceglie la fuga e non vuol sapere chi è l’assassino di suo padre. Pino vede tutto dalla finestra ma non denuncia ed è complice dei fascisti con un silenzio vigliacco. Anna è la migliore perché vorrebbe convincere il marito a confessare, ma anche lei è un traditrice che abbandona il marito a una morte solitaria. Un film a metà strada tra il melodramma e il resoconto bellico, un’opera che risente di influenze neorealistiche  e intimistiche che Vancini gira nella sua Ferrara, regalando a pubblico e critica un piccolo gioiello narrativo. Tutto nasce da un fatto vero – una rappresaglia fascista – e per questo motivo la realizzazione della pellicola incontrò non pochi ostacoli. Vietato ai minori di sedici anni per alcune sequenze giudicate scabrose che vedono protagonisti Belinda Lee (moglie di Gualtiero Jacopetti, scomparsa giovanissima) e Gabriele Ferzetti. Vancini ha sempre manifestato il dubbio che il divieto sia stato imposto per ostacolare la visione di un film così radicalmente antifascista.
La lunga notte del ’43 è girato in studio a Roma e in una Ferrara notturna ricostruita con eccellente fotografia e dovizia di particolari scenografici. Molto bravi gli interpreti, su tutti Enrico Maria Salerno – uomo macerato dai rimorsi e dalla malattia -, molto intensa Belinda Lee, in un ruolo da donna distrutta dagli errori della vita. Ferzetti e Cervi sono due grandi professionisti, perfetti rispettivamente come vigliacco e persecutore in doppio petto. Raffaella Carrà fa una piccola parte ed è presente nei credits con il suo vero nome (Pelloni). Ottima la musica che si fregia di alcune canzoni del ferrarese Oscar Carboni e – nel finale – dell’inno fascista Vincere, interpretato da Michele Montanari.

Regia: Florestano Vancini. Soggetto: Giorgio Bassani (racconto Una notte del ’43). Sceneggiatura: Ennio De Concini, Pier Paolo Pasolini, Florestano Vancini. Fotografia. Carlo Di Palma. Montaggio: Nino Baragli. Effetti Speciali: Esplovit di Stacchini. Scenografia. Carlo Egidi. Costumi: Pier Luigi Pizzi. Trucco: Tea Boggiato. Musiche: Carlo Rustichelli. Produttori: Antonio Cervi, Alessandro Jacovoni. Case di Produzione: Aiace Film, Euro International Film. Distribuzione: Euro International Film. Bianco e Nero. Drammatico. Durata: 106’. Interpreti: Belinda Lee (doppiata da Lydia Simoneschi) (Anna Barillari), Enrico Maria Salerno (Pino), Gabriele Ferzetti (Franco Villani), Gino Cervi (Carlo Aretusi, detto Sciagura), Andrea Checchi (farmacista), Nerio Bernardi (avv. Villani), Loris Bazzocchi (Vincenzi), Raffaellà Pelloni (Carrà) (Ines Villani), Alice Clements (Blanche), Carlo Di Maggio (console), Isa Querio (moglie Avv. Villani), Silla Bettini, Tullio Alatamura, Romano Ghini, Mario Bellini, Gabriele Toth, Franco Cobianchi, Cesare Martignoni, Nino Musco.Premi: Premio Opera Prima alla XXI Mostra di Venezia (1961), Nastro d’Argento a Enrico Maria Salerno – Miglior attore non protagonista – (1961).

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Gordiano Lupi (Piombino, 1960), Direttore Editoriale delle Edizioni Il Foglio, ha collaborato per sette anni con La Stampa di Torino. Ha tradotto i romanzi del cubano Alejandro Torreguitart Ruiz e ha pubblicato numerosissimi volumi su Cuba, sul cinema e su svariati altri argomenti. Ha tradotto Zoé Valdés, Cabrera Infante, Virgilio Piñera e Felix Luis Viera. Qui la lista completa: www.infol.it/lupi. Ha preso parte ad alcune trasmissioni TV come "Cominciamo bene le storie di Corrado Augias", "Uno Mattina" di Luca Giurato, "Odeon TV" (trasmissione sui serial killer italiani), "La Commedia all’italiana" su Rete Quattro, "Speciale TG1" di Monica Maggioni (tema Cuba), "Dove TV" a tema Cuba. È stato ospite di alcune trasmissioni radiofoniche in Italia e Svizzera per i suoi libri e per commenti sulla cultura cubana. Molto attivo nella saggistica cinematografica, ha scritto saggi (tra gli altri) su Fellini, Avati, Joe D’Amato, Lenzi, Brass, Cozzi, Deodato, Di Leo, Mattei, Gloria Guida, Storia del cinema horror italiano e della commedia sexy. Tre volte presentato al Premio Strega per la narrativa: "Calcio e Acciaio - Dimenticare Piombino" (Acar, 2014), anche Premio Giovanni Bovio (Trani, 2017), "Miracolo a Piombino – Storia di Marco e di un gabbiano" (Historica, 2016), "Sogni e Altiforni – Piombino Trani senza ritorno" (Acar, 2019).

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