Questa città conserva una tavoletta Ouija nel bel mezzo di
torri cadute e cupole in rovina. Sylvia
emerge da lì tra particelle di pulviscolo luminoso. ‘Ted ed io
siamo stati qui una volta a fissarla,’ dice, ‘a immaginare
alfabeti danzanti, ad aspettare il grande cambiamento,
l’aiuto per preoccuparci meno di noi stessi e
delle passioni maledette che hanno sempre abitato le nostre parole.’
‘Il problema erano… le passioni o le parole?’
Chiedo, levitando come uno spirito più grande e leggero
di quanto pensavo di essere. ‘Nessuna delle due,’
dice. ‘Non abbiamo riflettuto abbastanza per capire quanto grandi
o piccoli fossimo destinati a essere. Non ci siamo accorti
di quanto fosse sciocco indulgere l’uno nell’altra
e in noi stessi, di quanto fosse più o meno
doloroso vivere. Avevamo vite così mal costruite,
capisci, con le parole giuste al momento sbagliato
e i corpi sbagliati per la passione giusta.’
Non geme distratta, come ce l’avrebbe mostrata
un film sulla sua vita interpretato da un’attrice
anoressica che l’avrebbe imitata con ardore dopo un attento esame di
come le si contraeva la bocca, le guizzavano gli occhi da
un sogno a un’altra immagine, le fremevano le mani per
un innato bisogno di creare, dopo ore di fatica per
interiorizzarne la voce intima e le manie,
senza riuscire mai a diventare un tutt’uno con lei.
‘Avrebbe avuto senso,’ dice Sylvia, ‘se avessimo
cancellato la vergogna dalle nostre vite,
annegato l’orgoglio e strangolato lo sconforto per risparmiarci
il marchio di cattivi esempi, o icone del suicidio,
o fieri sopravvissuti. Avremmo dovuto imparare ad affrontare
la dignità del pudore in modo da non
amarci o ferirci così tanto. Ma ahimè, ci
governavano più le nostre reazioni chimiche
dell’auspicabile cosiddetto libero arbitrio.’
Si è tramutata in polvere sottile che si muove al rallentatore
in musica che muove i pianeti,
nei concetti chiari che le sue parole postume
hanno assunto tra la polvere che non si deposita.
Traduzione di Emanuela Chiriacò
Rubrica a cura di Emilia Mirazchiyska