Il bambino che siamo stati – Intervista a Beatrice Masini

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Autrice prolifica di opere per l’infanzia, Beatrice Masini è anche una stimata traduttrice italiana. Tra i suoi lavori, la resa in italiano di alcuni dei libri della serie di Harry Potter di J. K. Rowling, per la versione pubblicata da Salani. Il suo romanzo Bambini nel bosco (Fanucci) è stato finalista al Premio Strega, nel 2010. Si tratta della prima opera per ragazzi ad aver mai concorso nella storia del premio. Con il romanzo Tentativi di botanica degli affetti (Bompiani) è stata finalista al Premio Campiello e vincitrice del Premio Letterario Internazionale Alessandro Manzoni – Città Di Lecco, entrambi nel 2013.

Lei ha scritto molti libri per ragazzi. La raccolta di racconti Più grande la paura (Marsilio, 2019) forse è un libro diverso. Ha i ragazzi e i bambini come protagonisti, certo, ma probabilmente il lettore ideale è un tipo particolare di bambino che conosciamo bene tutti e che però ignoriamo: quello che noi adulti ci portiamo dentro. È d’accordo su questo?
Il vero interlocutore silenzioso di questo libro è il bambino che siamo stati, se ci ricordiamo bene com’era. E in genere ce lo ricordiamo eccome. Oppure l’adulto che sta al gioco e vuole essere aiutato a ricordare. Coincidono? A volte sì, a volte no. Dipende da quello che abbiamo trattenuto della nostra infanzia, dalle risposte che ancora le chiediamo.

Il tema è nel titolo: la paura. È un tema che attraversa tutti i racconti, in misura differente. E non come potrebbe farlo una certa letteratura di genere. A lei non interessa la paura come meccanismo narrativo che mira a generare un “brivido lungo la schiena”. Piuttosto, è una riflessione quella che lei vuole suggerire? In quali circostanze la paura è più grande?
La paura è più grande quando è per l’altro da sé. Un figlio, soprattutto. Nessuno ti dice che, dal momento in cui tuo figlio nasce, avrai paura per lui, di quello che può succedergli, di non essere capace di proteggerlo, di non esserci abbastanza.

Lo accennavo prima: la paura è un tema che attraversa i suoi racconti, ma non solo. Non è il tema dominante di tutte le sue pagine. D’altronde l’infanzia, l’adolescenza, a raccontarle non sono solo questo. I suoi personaggi non devono soltanto superare una o più paure. Ma vivono anche molti altri sentimenti, alcuni con una profondità inaspettata. C’è “curiosità”, ad esempio nella personalità dei suoi piccoli personaggi? Loro si fanno portatori di paure, certo, ma anche di tanti altri valori, penso alla solidarietà…
Sono bambini, e dentro i bambini, come dentro gli adulti, c’è tutto: curiosità, solidarietà, cattiveria, egocentrismo, sensibilità, durezza. Non in minore, solo in proporzioni diverse, commisurate all’altezza, all’età, a quanto hanno osservato e assorbito da ciò che e da chi li circonda. Non sono carini, non sono perfetti, non sono naturalmente buoni. Sono persone intere, vere, perfette dal punto di vista fisico – gli occhi, i capelli, la pelle, la deliziosa assenza del naso, diceva Chesterton – ma anche difettose.

Prima abbiamo parlato della paura come possibile, molto probabile, tipico sentimento… ma la comunicazione è un altro tema che mi pare sia fondamentale nella scrittura di questi racconti. Tra mondo adulto e mondo bambino che lei rappresenta manca spesso un codice comune. Se è vero che il codice è quello degli affetti, lei ha tratteggiato varie disaffezioni e vari tentativi di sanarle?
Non mi arrogo certo il compito di stabilire se le relazioni tra adulti e bambini oggi siano stonate o disarmoniche, né di segnalare possibili aggiustamenti; credo che sia già molto difficile stare dentro una famiglia, la propria, ed è sempre così facile giudicare le vite degli altri, educare i figli degli altri, o i padri e le madri degli altri. Ho solo raccontato delle storie, e temo che una storia liscia liscia, in cui tutto va benissimo, sia tremendamente noiosa. Perfino nelle fiabe prima del lieto fine ci sono voragini e montagne.

Disaffezioni e naturali distacchi: lei scrive di una madre che accompagna il suo bambino fino all’ingresso della scuola e lì lo lascia andare, oltre quel limes, da solo… il figlio entra in quel portone come in una bocca spalancata. Qui il legame affettivo adulto-bambino c’è e lei lo rende, ma lo coglie nel momento altamente emotivo del suo allentamento quotidiano, del necessario saluto…?
È una scena vera, un bambino vero: mio figlio, colto nel momento in cui decide che non vuole più darmi la mano quando lo accompagno a scuola. E sono sicura che è un momento che tutti i genitori hanno vissuto. Metterlo al centro di un racconto è venuto naturale. Ma non tutte le storie che scrivo rapinano la realtà: meglio dire che sottraggono piccole cose, come fanno gli Sgraffignoli, e le trasformano in altre cose.

Una profondità inaspettata, dicevamo prima. Ho sottolineato questo passo, molto semplice: se solo i grandi ne sapessero davvero di più. Ho sentito l’eco di un Piccolo Principe. Non so se il paragone può essere appropriato. Di certo lei non tratta di prìncipi di un altro pianeta fatalmente arrivati sulla terra. Ma c’è un tratto del famoso eroe di Saint-Exupéry in qualche suo racconto? Quali sono i modelli di “bambini letterari” cui si è ispirata?
Il Piccolo Principe è un libro che mi è caro perché l’ho sempre visto in casa, l’ho anche ritradotto per Bompiani, e dal momento che oggi è proprio di Bompiani che mi occupo come direttore, è una compagnia costante. I miei bambini letterari preferiti sono sparsi in vari romanzi: Tuono a sinistra di James Barlow, Il libro dei bambini di Antonia Byatt, tutti i protagonisti di Peter Pan…

A volte è un vago ricordo, a volte è una parola o una foto vista e dimenticata… una foto poi ricordata. E così anche un suono. Insomma, le scintille da cui possono scaturire racconti sono le più diverse. La sua sensibilità di scrittrice, di solito, da cosa è più stimolata: un’immagine, un ricordo biografico, un aneddoto storico…?
Vale tutto, si porta a casa tutto, strati su strati di pensieri, frammenti, storie altrui, articoli di giornale, fotografie. Che cosa scateni che cosa è impossibile da dire. Una volta ho scritto un romanzo per bambini a partire da una casa di bambole antica vista in una vetrina, un’altra volta da una cronaca sui Kew Gardens, un’altra ancora dai documenti di abbandono dei bambini all’Ospedale Maggiore di Milano nel Seicento e nel Settecento.

Penso al racconto su Allegra Byron. Toccante. Davvero impossibile rimanere indifferenti, merito anche del suo stile, certamente. Allegra: un bel nome dato a una bambina dal triste destino. Qui lei ha combinato la storia e la finzione. Innanzitutto, partendo dal generale: quanto l’immaginazione di uno scrittore può rendere un servizio alla Storia ricostruendo la realtà delle piccole storie spesso trascurate?
La storia di Allegra Byron mi ha sempre toccato nel profondo, non avevo idea che ne avrei scritto né che ne avrei scritto così, nella misura del racconto. Ma prima ho letto tanto attorno a lei: tante cose che non mi sono servite a nulla in senso stretto, perché la maggior parte del racconto è d’invenzione, i dati storici sono pochi. Quelli però sono inequivocabili. Abbiamo questa libertà immensa, che è anche una responsabilità, di dare voce a chi non l’ha avuta. È terribile e magnifico. Penso al romanzo di Melania Mazzucco, L’architettrice, uscito da poco per Einaudi.

E poi, al di là della Storia con la S maiuscola, forse lei con questo racconto su Allegra si è sentita di rendere un servizio alla memoria di una bambina che davvero non aveva mai avuto una voce a causa degli errori di un’epoca intera, a causa di un’idea di proprietà e di identità dei figli. I figli erano dei padri e, fino a una certa età, neanche esistevano come individui dotati di diritto… Mi permetto di dire che la rievocazione di Allegra è stato un grande atto d’amore materno, una risposta oggi al bisogno di una bambina sfortunata di quel tempo. Chi è ed è stata Allegra Byron per lei?
Una bambina sola.

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