Silvio Donà – Il grande Bucalossi

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Borgolabigonza non è propriamente una metropoli; la Bigonzese, quindi, ha sempre militato in una di quelle serie così infime che a “Novantesimo Minuto” neanche ne sospettano l’esistenza. Ha sempre avuto, però, un pubblico affezionato, che nell’anno in cui è ambientata questa storia (e cioè quando io ero ragazzo, un bel po’ di anni fa) soffriva di bestia per la stagione più maledetta che si ricordasse dalla fondazione della squadra.
Alla decima giornata, nonostante il cambio dell’allenatore, non aveva fatto neanche un punto. Gol all’attivo nessuno, e se quelli al passivo non si contavano in tre cifre era solo grazie al Ginetto, il figlio della fruttivendola, portiere dallo stile discutibile ma di indubbia efficacia.
Ginetto non bloccava un pallone neanche a minacciarlo di tortura, ma respingeva coi piedi, con le mani, con la pancia e, all’occorrenza, anche con gli zebedei. Erano gli altri dieci mentecatti che completavano la formazione ad essere senza speranza. Non valeva manco la pena buttare i soldi per mandarli a Lourdes.
Nel bar della piazza i “superesperti” sacramentavano intorno al sancta sanctorum dei chiacchieratori di calcio: il biliardo, consolandosi con ferocissime partite a boccette e generosi bicchieri di vino rosso.
«Ritiriamoci, che è meglio!» grugniva il farmacista, noto disfattista.
«Macché ritirarsi, bisogna battersi fino all’ultimo uomo!» saltava su dal suo angolo “Caporetto”, che aveva novant’anni ed era rimasto alle guerre mondiali.
«Ci vogliono giocatori nuovi» diceva l’oste da lontano che, pur smanettando intorno alla macchina dell’espresso, con l’anima era sempre presente in mezzo a loro.
Successe così che un mercoledì sera il Marolla si schiarì la voce. Si fece immediatamente un silenzio di tomb. Il Marolla, infatti, era il superesperto dei superesperti. Di professione faceva, per l’appunto, il conoscitore di calcio; come hobby teneva la contabilità di una fabbrica di piastrelle. Ad incoronarlo quello che “ne sapeva di più” di calcio era una foto con dedica di Gianni Brera, suo lontano parente, foto che egli mostrava di tanto in tanto, con comprensibile parsimonia, ad un pubblico scelto.
Come ogni vero espertissimo che si rispetti il Marolla si teneva rigorosamente fuori da discussioni e battibecchi. Sedeva in disparte, sorseggiando un Fernet e limitandosi a sorridere di tanto in tanto, con aria di compatimento, quando gli capitava di sentirne una particolarmente grossa. Quando si schiariva la voce era segno che intendeva parlare, oppure che stava partorendo uno scaracchio di apprezzabili dimensioni. Valeva comunque la pena di tacere per verificare se si trattasse della prima ipotesi.
Quel mercoledì sera era, per l’appunto, una delle rare volte.
«Ormai il calcio è solo una questione di soldi!» sentenziò. E tacque. Non diceva mai più di otto o dieci parole al massimo; ma quando parlava era Cassazione.
Tutti si buttarono immediatamente a interpretare il Marolla-pensiero, al fine di distillarne fino all’ultima goccia di preziosa saggezza calcistica contenuta.
«È vero, guardate in serie A» urlava il Bacci, capo meccanico in cassa integrazione», le squadre più forti ce le hanno tutte i presidenti coi miliardi!». E giù un bestemmione da rannuvolare il cielo della provincia.
«E da noi la squadra la gestisce il Comune… che non la vuole nessuno» sottolineava il farmacista, cupo.
«Ci dobbiamo arrangiare coi giocatori del paese, che son tutti brocchi» contribuiva la voce del barista, intento a schizzare un cappuccino. E giù un bestemmione da far piovere lapilli su mezza regione.
«Perché, l’allenatore allora?» rincarava il Bacci, che aveva una storia di confini non rispettati con Boccaccini, geometra del catasto, attuale allenatore della Bigonzese.
«Ci vuole uno coi soldi che si compri la squadra» sintetizzò Lucio, il vigile urbano, che controllava il traffico (e spesso faceva anche le multe) dall’interno del bar, affacciato alla finestra.
La discussione era così giunta al dunque, perché di gente coi soldi non è che ce ne fosse molta in paese. C’era Bartezzaghi, il vecchio notaio, ma a quello del calcio non poteva fregargliene di meno neanche a mettersi di impegno.
Perciò non restava che “lui”: Cuccumazzo!
Cuccumazzo era un napoletano arrivato a Borgolabigonza senza neanche il cappotto che, in una quindicina d’anni, era diventato proprietario di una fabbrica di cibo per cani, se ne andava in giro in Maserati e aveva comprato la vecchia villa del conte Degli Orpelli. “Doveva” essere lui il nuovo presidente della Bigonzese!
Fu così che Cuccumazzo, prima schifato con sistematicità dalla popolazione tutta, cominciò ad incontrare in giro, ovunque andasse, gente che gli sorrideva, gli dava gran manate sulle spalle e, come per caso, gli faceva notare come ogni industriale che si rispetti sponsorizzasse ormai qualche squadra, fosse anche una squadra di pensionati che giocano a bocce.
Insomma, per farla breve, Cuccumazzo, che era un narcisista tremendo, finì per farsi incastrare e comperò la Bigonzese. Non appena, però, furono finiti i festeggiamenti e gli “hip hip urrah”, si fece per bene i conti e realizzò con raccapriccio che l’affare poteva costargli un occhio della testa. La gente, infatti, si aspettava che lui saccheggiasse le squadrette circostanti in cerca di talenti; solo che, già allora, e anche a quegli infimi livelli, i giocatori costavano uno sproposito.
Ma Cuccumazzo era napoletano e da piccolo si era fatto le ossa vendendo Marlboro di contrabbando negli uffici della Questura, perciò non si perse d’animo. Fine conoscitore dei meccanismi della mente umana, trovò una scappatoia che gli consentisse di fare bella figura con modica spesa. Anziché comperare sette o otto campioncini giocò la carta della “vecchia gloria”.
Comperò Bucalossi!
La notizia fece il giro del paese come lo spostamento d’aria prodotto da una bomba: la Bigonzese aveva tesserato nientepopòdimeno che il “grande Bucalossi”. Tre stagioni con la Juventus, dodici presenze in Nazionale. La gente diventava matta. Misteriosamente parve scordarsi che Bucalossi aveva trentotto anni suonati, che non giocava da quattro e che, nelle ultime stagioni, era finito a scaldare la panchina in serie B. Come previsto da Cuccumazzo il nome altisonante diede alla testa a tutti.
«Ragazzi, ci pensate?» si entusiasmava il Bacci. «Bucalossi… uno che prima lo intervistava Galeazzi, mica scherzi!».
«Dategli un po’ di tempo per entrare in forma e poi vedrete» incalzava Lucio dal suo punto di osservazione davanti alla finestra, lasciando correre una Panda passata col rosso, anche perché era quella di sua cognata.
La gente non sospettava neppure la triste verità: Bucalossi era il più scoppiato dei calciatori scoppiati. Quando giocava si era mangiato tutto in donnine, macchinoni e feste da ballo e adesso era completamente al verde. E beveva. E come beveva! Cuccumazzo dava ad intendere che gli era costato una piccola fortuna, in realtà lo aveva convinto promettendogli vitto, alloggio e qualche centinaio di euro per le piccole spese.
A Bucalossi non gliene fregava niente. Negli ultimi tempi si era ridotto a dormire nel garage di un suo ex tifoso che lo teneva lì perché gli faceva pena.
Incominciò così l’attesa per l’esordio.

Passarono tre settimane, la Bigonzese perdeva regolarmente e Bucalossi non ne voleva sapere di “entrare in forma”. La piazza iniziò a rumoreggiare.
Cuccumazzo sapeva perfettamente di aver comperato uno scoppiato ma sperava che, con un po’ di allenamento, riuscisse a rimettersi in carreggiata quel tanto che bastava a tocchettare qualche palla e a buttare dentro un paio di gol prima della fine della stagione, magari su punizione. Invece una sera Boccaccini, l’allenatore, si decise a parlar chiaro; affrontò Cuccumazzo e gli disse sul muso, senza mezzi termini: «Non c’è niente da fare… rimandalo a casa!».
A parte il particolare che Bucalossi non aveva nessuna casa cui essere rimandato, Cuccumazzo ormai si era sputtanato troppo con quella storia. Tanto valeva giocarsi il tutto per tutto: ordinò così a Boccaccini di mettere in campo il “campione” nella successiva partita casalinga. Boccaccini, visto che la sua popolarità come allenatore era la stessa di Erode come baby sitter, e che quindi non rischiava niente, pronunciò il fatidico “obbedisco”!
Solo che, la domenica successiva, Buccalossi si presentò al campo così fradicio di vino che non si reggeva in verticale neanche a piantargli vicino un palo per le vigne. Cantava a squarciagola canzonacce di caserma, poi piangeva, poi rideva, poi ricominciava a cantare. La gente aveva affollato il piccolo stadio comunale all’inverosimile. Bisognava risolvere la faccenda in qualche modo.
«Mettilo sotto la doccia e dagli un litro di caffè!» ordinò Cuccumazzo a Boccaccini, sudando freddo. Quindi sfoderò il suo più falso sorriso e se ne andò in tribuna a raccontare una palla stratosferica: «Abbiamo deciso di tenerlo in serbo per il secondo tempo, quando gli avversari saranno stanchi».
Ci fu persino chi saltò su a dire che era una “gran mossa tattica”.
Cominciò la partita.
In campo la Bigonzese prendeva un sacco di legnate; in panchina Bucalossi prendeva un sacco di caffè. Fu un assedio peggio di Fort Apache. Ginetto si superò parando di tutto, compreso un paio di abili tentativi di autorete dei suoi difensori. Al quarantaquattresimo, però, l’arbitro dovette fischiare per forza un rigore grande come un condominio. Il centravanti avversario tirò una nespola a fil di palo, Ginetto la sfiorò con un metacarpo, ma non fu sufficiente.
Uno a zero!
Nell’intervallo Cuccumazzo entrò come una locomotiva negli spogliatoi e sparò a Bucalossi un cazziatone tale che questi diede, miracolosamente, alcuni segni di lucidità.
Bastò per decidere di metterlo in campo.
Quando la folla lo vide comparire successe il finimondo: pareva di essere al Maracanà. Ma alla ripresa del gioco non cambiò assolutamente niente. Bucalossi soggiornava, sentinella solitaria, nella metà campo avversaria mentre tutti gli altri giocatori si accapigliavano nell’area piccola della Bigonzese. I tifosi erano francamente perplessi.
Al ventesimo, però, accadde un episodio eclatante: Ginetto riuscì a bloccare un pallone! Ovviamente rinviò il più lontano possibile per alleggerire l’assedio. Ora, siccome il campo comunale era stato ricavato da un ex orto di pomodori del cugino del sindaco, ed era piuttosto cortino, capitò che il pallone volasse fino al limite dell’area avversaria. Lì c’era Bucalossi, immobile, in leggero stato catatonico, gli occhi perduti nel nulla e una bolla di muco che si gonfiava e si sgonfiava nella narice destra. Neanche a farlo apposta la palla andò a cascargli sulla sommità della testa e da lì, con un rimbalzo imprevedibile e maligno, superò l’incolpevole portiere avversario infilandosi in rete.
Uno a uno: il primo gol del campionato!
La gente pareva essersi tirata un vagone di coca boliviana.
«Che tocco di classe!».
«La prima palla che ha toccato ha fatto gol!».
«Siamo come l’Inter di Herrera: tutti in difesa e poi zak… il gol in contropiede!».
Cuccumazzo arrivò ad un passo dal vergognarsi.
L’allenatore avversario, terrorizzato, mise subito quattro difensori fissi su Bucalossi: uno per lato. E fu una fortuna perché, in questo modo, lo tennero in piedi impedendogli di cascare giù addormentato.
Rimessa la palla al centro però, l’assedio riprese identico a prima e questo nonostante gli avversari, mancanti dei quattro marcatori messi a guardia di Bucalossi, fossero in netta inferiorità numerica. A volerla dire tutta la Bigonzese avrebbe subito l’assedio avversario anche se nell’altra squadra avesse giocato solo il portiere.
Ginetto faceva prodigi: respingeva con le sopracciglia, intercettava con le chiappe un tiro rasoterra, alzava sopra la traversa con le orecchie. Fino al quarantaquattresimo del secondo tempo. Perché in quel minuto Ginetto si ritrovò nuovamente (e miracolosamente) il pallone stretto tra le mani e nuovamente lo rinviò con tutte le sue forze il più lontano possibile (che era poi l’unico schema con cui la Bigonzese riusciva a superare la metà campo).
Per un perverso scherzo del destino la palla filò dritta verso la testa di Bucalossi, che pisolava appena un po’ fuori dall’area avversaria, sorretto dai suoi angeli custodi. Solo che stavolta, poiché stava col capo reclinato sul petto, il pallone rimbalzò con effetto contrario e ritornò indietro. Non se l’aspettava nessuno, neanche Ginetto, che si fece trovare impreparato. Così la palla lo superò e andò a cascare in porta.
Due a uno per gli avversari.
I quattro difensori si allontanarono per andare ad abbracciare i compagni. Senza più sostegni Bucalossi piombò a faccia in avanti nell’erba. E non si mosse più.
Allora anche i più imbecilli capirono.
Non ci furono proteste. Sul campo calò un silenzio di tomba. Pareva di essere al Maracanà, ma stavolta dopo la finale dei mondiali del 1950, quando il Brasile perse in casa la finale con l’Uruguay e la gente subì un clamoroso choc collettivo.
Cuccumazzo si mise a piangere.
Al cronometro dell’arbitro mancava meno di un minuto. Paella, il centravanti, il più brocco di tutti (che indossava la maglia numero nove solo perché era l’amministratore di condominio di Boccaccini e chiudeva gli occhi su un affare di verande non soggette a condono), scambiò la palla con un compagno quindi, pieno di rabbia, tirò una insensata scarpata dalle parti del portiere avversario. Questi, distratto perché non toccava palla dall’inizio della partita, se la fece sfuggire regalando un calcio d’angolo.
La gente intanto sfollava a testa bassa senza degnare di uno sguardo Bucalossi, ancora sdraiato a pelle di leone a tre quarti del campo. In quel drammatico frangente accadde l’impensabile: Ginetto, preso da un raptus, mollò la porta (tanto ormai…!) e andò a piazzarsi al limite dell’area avversaria. Il pubblico si fermò un istante, giusto il tempo di sparargli una bordata di pernacchie.
Andò a battere l’angolo tale Tonino La Fronza, garzone di fornaio. Ne venne fuori una broccolata sbilenca che si impennò paurosamente ricadendo a candela. Allora, nello stupore generale, Ginetto, simile al mitico Pelè nella scena madre del film “Fuga per la vittoria”, si inventò una doppia rovesciata volante da cineteca della Domenica Sportiva. Una roba mondiale!
Andò su che pareva avesse i razzi, cappottò in aria, prese la palla alla perfezione e sparò una bordata tale che piegò le mani al portiere, bucò la rete e andò a infilarsi nella siepe incolta che delimitava il fondo campo. Un secondo dopo, mentre ancora le terga del Ginetto non avevano ritoccato il suolo dell’ex campo di pomodori, l’arbitro fischiò la fine della partita.
Due a due. Apocalisse!
Presero Ginetto e lo portarono in trionfo per tutto il paese e un paio di quelli limitrofi.
Andò a finire che lo tolsero dalla porta e lo misero a fare il centrattacco. Al suo posto andò in porta il Paella, che si rivelò dignitoso portiere.
Grazie ai gol di Ginetto la Bigonzese cominciò a vincere qualche partita e si salvò dalla retrocessione all’ultima giornata.

            Da quella domenica sono passati molti anni. E molti gol di un certo centravanti; e molti (davvero molti) litri di vino per un altro (ex) centravanti.
Volete per forza un finale? E va bene, eccolo.
Ginetto diventò il centravanti della Nazionale…
… e Bucalossi il custode dello stadio.

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Silvio Donà è nato in Veneto l’anno in cui la sonda Mariner 4 è atterrata per la prima volta su Marte. Vive in Puglia. Ha preso (inavvertitamente) una laurea in legge e lavora nell’ufficio legale di una banca. Ha pubblicato i romanzi di ambientazione fantascientifica "Pinocchio 2112" (Leone, 2009) e il romanzo breve "Luisa ha le tette grosse" (Leone, 2011). Finalista nell’edizione 2011 del Torneo letterario Io Scrittore, ha pubblicato in formato ebook per GEMS (Gruppo Editoriale Mauri Spagnol) il romanzo "Nebbie" (2012). Ha pubblicato anche il romanzo "La ragazza che non sapeva respirare le nuvole" (Cento Autori, 2017) e collabora con svariate riviste. Ama scrivere anche storie brevi e ha pubblicato numerosi racconti. Ha vinto concorsi letterari nazionali (tra gli altri, il Premio Mondolibro e Il Premio Orme Gialle). Per il cinema, insieme a Antonio De Santis, ha scritto soggetto e sceneggiatura del film "Mi rifaccio il trullo", con Uccio De Santis e Lorena Cacciatore, regia di Vito Cea, uscito nei cinema a marzo 2016.