King Crimson – In the Court of the Crimson King

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Ricordo ancora il primo ascolto: un’emozione travolgente mi investì, portandomi in un’altra dimensione.
Avevo preso in prestito il cd di In the Court of the Crimson King dalla biblioteca comunale della mia città, dopo aver letto il nome del gruppo, all’epoca a me sconosciuto, in un libro. L’impressione di avere tra le mani uno scrigno misterioso si era fatta largo già a partire dalla copertina, tanto enigmatica da risvegliare paure ataviche, e, una volta aperto, quello che ne uscì fu sicuramente, per me, qualcosa di inaudito.

Sulla copertina non compaiono né il titolo dell’album, né il nome del gruppo, oltretutto allora all’esordio. Due colori soltanto: i primari rosso e blu, a dare forma a un volto più che mai iconico, opera di Barry Godber, morto qualche mese dopo l’uscita del disco a soli 24 anni. Quel volto riempie claustrofobicamente il riquadro della copertina, in un muto urlo di orrore, guardando forse all’ignoto, al futuro (alla nostra destra nella rappresentazione spaziale del tempo) o in un atto di introspezione. Sul retro, infatti, troviamo la prosecuzione del volto, che sembra liquefarsi nell’universo, forse in quello della mente umana stessa. Il protagonista della copertina viene accreditato come L’Uomo Schizoide del XXI Secolo (21st Century Schizoid Man), che ci viene presentato nella traccia di apertura, mentre la suadente figura all’interno della gatefold cover sarebbe proprio il Re Cremisi, che ci invita con una mano a seguirlo all’interno della propria corte, mentre con l’altra ci indica che sta parlando o benedicendoci, come da convenzione iconografica.

In the Court of the Crimson King venne pubblicato nel 1969, anno d’oro della musica in assoluto, totalmente rivoluzionario nel sound e primo risultato a fuoco di un genere, il progressive rock, che proprio in quegli anni andava delineandosi. Figlio del suo tempo, getta uno sguardo disincantato e un’aspra denuncia nei confronti della guerra del Vietnam e del modello consumistico propagandato dagli Stati Uniti.

L’album si compone di sole cinque tracce, ma dalla durata decisamente non pop, superando i sei minuti ciascuna. L’ascolto, che ha nell’insieme la compiutezza tipica dei concept album, vede tre picchi emotivi, sapientemente compensati dalle due armoniose ballate I Talk to the Wind e Moonchild, che ridanno respiro, intervallando tre cattedrali di suono come 21st Century Schizoid Man, Epitaph e la conclusiva The Court of the Crimson King.

È un gioco di estrema complicità quello tra gli strumenti, che si muovono tra virtuosismi tutt’altro che asettici, in un dialogo fortemente emozionale. Il quartetto formato da Robert Fripp (chitarre), Ian McDonald (flauto, sassofono, clarinetto, vibrafono, tastiere, piano, organo, mellotron e cori), Greg Lake (basso e voce) e Michael Giles (batteria, percussioni e cori) si esprime sfruttando l’intero spettro delle dinamiche musicali, andando dall’urlato acido del sax e della voce distorta in 21st Century Schizoid Man al sussurro flebile come una fiamma sul punto di spegnersi in Moonchild, fino all’epilogo maestoso, epico, che ci invita a unirci al corteo per giungere al cospetto del Re Cremisi.

È un disco intrinsecamente cupo, che parla di angosce esistenziali, di morte; allo stesso tempo, però, restituisce un senso di pace, di armonia, di perfezione che non incutono affatto timore, anzi sembrano indurci ad abbracciare serenamente la fine, come un insetto che non può fare a meno di avvicinarsi alla luce, sebbene gli sia fatale. È un ascolto catartico, quanto mai adatto a questo periodo buio e quasi apocalittico, così come profetizzato dagli stessi King Crimson.

In the Court of the Crimson King divenne, inconsciamente, la maschera delle mie angosce e paure verso il futuro. Mi accompagnò in quel salto nel vuoto che è la fine della scuola, dove terminano i sicuri, per quanto odiati, sentieri tracciati dagli adulti; momento in cui si diventa, a pieno titolo, agenti del proprio destino, con i suoi vantaggi e le sue criticità.

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