Evelina Miteva – Il sospetto

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Novembre è, e lunghe
sono le sere buie
le notti mie sono piene
con lo sforzo, sgorgante,
riempite
le stelle sono leggere,
le coperte fredde
volano, la notte è
bianca, follia lucida,
Che notte! –
per cacciar le streghe.

– Cosa sono questi messaggi? – Lei teneva il suo telefono e sembrava un po’ agitata, per di più confusa, e comunque parlava con calma. Con quella calma finta che lui conosceva già, e in cui si avvertivano già i primi attacchi di follia. Con quello stesso tono, un anno prima, l’aveva cacciato fuori dalla casa dei suoi genitori – lui e suo figlio che stava con il padre per le feste. Tutti si erano riuniti per festeggiare insieme, era il loro primo Natale in famiglia come coppia.
– Quali? – chiese; in parte davvero non aveva capito, in parte stava guadagnando tempo.
– Questi.
– Ah, questi. Una conoscente.
– La tua conoscente dice di rispondere domenica alla sua mail. Non prima. Dice che è importante.
– E tu cosa ci vedi di scorretto qui?
– A che tipo di mail devi rispondere? – La calma con scintille di follia diventava sempre più insistente. Cominciò a capire che non sarebbe stato in grado di indovinare le risposte corrette in questo interrogatorio. Se ce ne fossero state.
– Ascolta, è una conoscente, stavamo lavorando su un progetto insieme. Vuole sapere quando riprendiamo, ma io non posso adesso, sono indaffarato, non mi va affatto di occuparmi del suo progetto.
Questo, inizialmente, sembrava aver portato un po’ di sollievo, e lui allungò la mano per riprendere il suo telefono; ma ovviamente era stato precipitoso. La donna, di mezza età, ansiosa, afferrò il telefono ancora più forte e lo sfilò dalla suo mano. Il suo sospetto era basato su una pura intuitizione. Anche la spiegazione sembrava quasi credibile. Solo il suo gesto era stato affrettato. Non troppo, ma abbastanza. Per di più, la perdita del telefono l’aveva infastidito e fece un secondo errore.
– Come ti permetti di sfilare il mio telefono? È roba mia personale.
Lei lo guardò di scatto, gli occhi socchiusi, non disse nulla, si voltò e scivolò nel bagno. Girò la chiave da dentro. Lui rimase fuori, davanti alla porta, e sentì che gli stava salendo il panico. Cosa c’era nel suo telefono? Il suo cuore batteva forte, non riusciva a pensare chiaramente, non sapeva se c’era qualcosa di veramente compromettente. Non ne era sicuro. Non sapeva se difendersi, scusarsi o fingere che non gli importava, come se davvero non ci fosse nulla di importante, nulla di pericoloso.
Non sapendo cosa fare, taceva. Era in attesa di ciò che sarebbe accaduto dopo. Tornò in cucina, si versò un bicchiere d’acqua. Bevve in modo assetato e rumoroso. Era spaventato, era arrabbiato, era indifeso.
In quel momento udì il telefonino squillare nel bagno. Il suo telefono. La chiave scattò nella serratura un’altra volta e, con un tono quasi rallegrato nella voce, Clara gli offrì il cellulare, con la mano tesa verso l’alto: “La tua conoscente ti sta cercando. Dev’essere per il progetto”, aggiunse maligna mentre gli passava l’apparecchio.
Lui però lasciò suonare il telefono finché non tacque. La chiamata non si ripeté. André rimase in silenzio, cupo, con il telefono in mano. Ancora non sapeva cosa fare. Avrebbe voluto aprire i messaggi e vedere cosa c’era dentro, ma non osava. Qualunque cosa ci fosse dentro, Clara l’aveva già letta. Spense il telefono e, amareggiato, lo lasciò sul bancone in cucina. Ancora malignamente gongolante, Clara lo osservava, attendeva, si aggirava per la casa, deliziatа dal suo piccolo trionfo. André, tuttavia, si limitò semplicemente a tornare al suo computer e a continuare a lavorare. Era quello che sapeva fare meglio: prendere le distanze da ciò che gli accadeva intorno e immergersi nel lavoro, abbandonare tutto come se non avesse niente a che fare con lui. Clara si infuriò.
– Mi tradisci e ora mi stai ignorando? – La sua voce era incredula, minacciosa.
– Non ti ho tradita – mormorò André.
– Cosa? – La voce di Clara si stava alzando. André percepì l’isteria che si stava avvicinando, e a quel punto tutto gli apparve infinitamente noioso.
– Non l’ho tradita. Voglio dire – non ti ho tradita. Non ho tradito nessuno! – André fece una pausa per riprendersi dalla confusione. – Inoltre, devo lavorare. Non ho proprio nessuna voglia di queste storie in questo momento!
Clara stava già piangendo, silenziosamente, nervosamente, tenendo il telefono e rileggendo gli ambigui messaggi: confrontava date, controllava a che ora erano stati inviati, quando André aveva risposto, cercava di ricordare cosa stessero facendo loro due in quel momento, se fossero stati insieme. Doveva ammettere che non c’era molto materiale per l’isteria, ma Clara non era quel tipo di donna! Rinunciare a dimostrare la colpa di André? No. Lui era colpevole e lo avrebbe interrogato fino a quando non l’avesse ammesso, e poi si sarebbe disperata e avrebbe pianto offesa finché lui non si fosse sentito veramente in colpa, colpevole come un bambino che ha versato il latte sul tavolo, fino al cestino del pane, e ora il pane non era nemmeno più commestibile.
– Chi è lei? – chiese tra i singulti.
– Te l’ho già detto. – André non ce la faceva più, la noia cresceva in lui ad ogni minuto che trascorreva.
– Perché ti sta scrivendo queste cose? Guarda qui: ‘Sono una strega, non lo sapevi’ E tu le rispondi: ‘Mi stai facendo paura.’ E poi lei ancora: ‘Solo ora?’ – con un occhiolino! C’è stato qualcosa con questa donna!
– Non c’è stato nulla. Abbiamo giusto scherzato un po’. Ma se ti dà fastidio, non le rispondo più. – André cominciava a sentire come la presa si stesse allentando: alla fine Clara non aveva nulla a cui aggrapparsi. Lei comunque non si era ancora arresa.
– E il vostro progetto? E la mail? Non intendi risponderle? – insisteva lei con derisione, provocando.
– Quale mail? Ah, sì. Il progetto. Non lo so. Probabilmente rispondo quando trovo il tempo. – E si avvicinò a Clara, la baciò con sollievo e tornò al suo computer. Clara stava in piedi in mezzo alla stanza, con le braccia cadute, mentre lui si era seduto al computer, dandole le spalle. Le aveva voltato le spalle come se né lei, né la sua gelosia, né il suo possibile tradimento significassero nulla.

La sera fecero del sesso, e tutto sembrava come era sempre stato. André si addormentò; sembrava calmo, e questo era buono. Calmo e indifferente – questo era meno buono. Clara si sentiva trascurata, e in più non riusciva a togliersi dalla testa la piccola strega. “Ma perché piccola?” si chiese Clara. “Contieniti! Probabilmente è una vecchia stregaccia, una strega vecchia, fuori di testa e solitaria che sta dando fastidio al caro André.” Nonostante ciò nella sua testa risuonava la voce allegra della piccola streghetta, quasi una voce con l’occhiolino. Il caro André stava dormendo e persino russava leggermente e delicatamente nel sonno. Clara si rigirò nel letto. André aveva scritto a quella donna, sì, quella strega che aveva cercato di sedurlo. Aveva scritto mentre erano insieme, le aveva certo risposto raramente, ma lei lo conosceva, sapeva che lui era una persona impressionabile, un artista, uno che viveva attraverso le immagini. E quella donna che stava ancora oscurando i pensieri di Clara, lei sì che aveva un’immagine. Una donna che lo cerca. Lo seduce. Gli parla con trepidazione e lo prende anche un pochino in giro. Una strega amorosa. Che incubo: la stessa parola “strega” stava già volando sfrenatamente nella sua testa, in sella a una scopa. Eppure André stava sempre dormendo e forse la stava sognando… Clara si sentì esausta, niente più aveva senso… Non aveva nemmeno senso che lei l’avesse cercato di nuovo, che si fossero rimessi insieme. Tutto sarebbe finito come prima: perché riprovare?

Clara dormì inquieta, si svegliò ancora più esausta di come si era addormentata. Era di malumore, e anche André aveva fretta. Era gentile e allegro come al solito, le preparò il caffè, ma in realtà cercò di sbarazzarsene frettolosamente; meno male che Clara stessa doveva andare di corsa al lavoro, quindi cercò di convincersi di essere lei ad aver fretta di andarsene. Camminava per la strada, si affrettava, si arrabbiava. Perché si era di nuovo messa con quell’uomo? Non sapeva forse come era fatto? Sospirò. Lo sapeva eccome. Era distratto, inaffidabile e la teneva a debita distanza. Questo la faceva impazzire, ma nel contempo era ciò che di lui l’attraeva. Però l’aveva già ferito una volta, l’aveva lasciato. Poteva farlo ancora, e questo pensiero le dava forza. Lui dipendeva da lei. Era lui che aveva bisogno del suo calore, non lei. Era lui che viveva da solo e non aveva nessuno con cui parlare la sera, ricordò a se stessa. Lei invece aveva suo figlio, e questo era un bene. Suo figlio era la sua forza: non era sola, aveva una famiglia. Invece André… poteva tenerlo o lasciarlo, quindi avrebbe fatto meglio a trattarla bene. La piccola strega non aveva alcuna importanza.
La piccola strega non aveva certamente importanza, però André e la sua continua mancanza di tempo, il suo desiderio di avere Clara a propria disposizione, ma solo quando era comodo ai suoi piani, quello invece contava. Clara si sentiva vulnerabile, irrequieta. Gli faceva dei piccoli appunti, si irritava; le venne in mente di pulire il suo appartamento, che André probabilmente aveva messo in ordine non più di una volta, quando si era trasferito in quella casa. Alla fine lei non fece altro che spostare i mucchi di vestiti e di scarpe da una parte all’altra, poi si arrese e il caos rimase, solo che ora André non riusciva a trovare nulla, specialmente i calzini. Entrambi erano innervositi, stanchi; Clara non dormiva più bene da quando la piccola strega era volata con sua scopa tra la sua vita e la sua immaginazione.

Una settimana trascorse. Era venerdì sera e Clara era da André. Avevano preparato la cena, lui aveva cucinato i ravioli col sugo di funghi. Aveva soffritto i funghi con delle cipolle e del vino bianco, aveva lasciato cuocere il tutto a fuoco basso finché l’odore non si era diffuso nell’appartamento, poi aveva versato della panna. Vi aveva macinato sopra del pepe e aveva versato un bicchiere di vino bianco per sé e uno per Clara.
Si sedettero l’una di fronte all’altro sul bancone rialzato nella cucina – un altro tavolo lui non lo aveva – e cominciarono a mangiare in silenzio. Clara era esausta dopo la settimana insonne, e il vino la indeboliva ancora di più. André prese a raccontare qualcosa sul progetto аl quale stava lavorando. Clara lo ascoltava, ma i suoi pensieri vagavano, masticava pensierosa. In quel momento il cellulare di André iniziò a vibrare senza suoneria dall’altra parte del bancone della cucina. Entrambi rimasero immobili e André, con falsa indifferenza, prese il telefono e lo spense. Poi continuò a chiacchierare, sembrava assorto dal proprio lavoro. Clara mangiava abbattuta. In silenzio e con un lieve senso di colpa si stava innervosendo per il suo autocompiacimento e per la sua sicurezza, come se il suo lavoro avesse del significato, del senso, dell’importanza.
André cominciò a sparecchiare. Nessuno dei due guardò più il telefono: in quel momento entrambi preferivano non sapere chi avesse chiamato. Forse aveva a che fare con il lavoro. Probabilmente era qualcosa che aveva a che fare con il lavoro. André si aggirava per la cucina, raccogliendo i piatti, i bicchieri, i resti del cibo. Clara andò in soggiorno, si fermò alla finestra e guardò fuori. La serata era fredda, per strada non passava quasi nessuno. All’improvviso, Clara notò una sagoma sul marciapiede opposto. Era la figura di una donna che stava appoggiando la schiena contro il muro dell’edificio di fronte, mezza illuminata dal lampione. Clara non riusciva a vedere bene cosa stesse facendo, forse stava guardando il suo telefono, era lì tutta immobile. Indossava un lungo cappotto scuro, sembrava alta e snella. Clara guardava fisso fuori dalla finestra, la donna stava lì come se fosse lì già da molto tempo, la sua faccia sembrava pallidissima, quasi bianca sotto il bagliore innaturale del lampione, illuminata dalla luna. Solo i suoi capelli ondeggiavano dolcemente nel fresco vento serale. La sconosciuta alzò il viso e guardò dritto nel loro appartamento. La sua faccia bianca non era né giovane né vecchia; era tesa, quasi inespressiva. I suoi occhi spiccavano, scuri. Clara osservava come ipnotizzata quella figura che stava giù, appoggiata al muro, immobile, con gli occhi rivolti verso l’alto. Invisibile nella stanza buia, Clara la guardava negli occhi e ne sentiva il potere. Guardò fissamente la donna finché non cominciò a sentire che loro due erano legate, che erano sorelle. Come se fossero entrambe lacerate dallo stesso dolore, dalla stessa speranza, invisibili l’una per l’altra, sconosciute.
La figura cominciò a tremare nella debole luce del lampione. Il vento si rafforzò e cominciò ad arruffare e a sollevare i bordi del cappotto, sembrava come se l’intera figura della donna cominciasse a torcersi e a cambiare. Il vento le sollevava i capelli, il mantello nero le volava intorno. E un istante dopo la figura tremò e scomparve, come se il vento l’avesse sollevata e portata via. Come se non ci fosse mai stata lì. Come se fosse volata via nella notte, come una strega.

Traduzione di Evelina Miteva

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Evelina Miteva è nata nel 1981 a Vilnius (Lituania) e vive a Colonia (Germania), dove insegna presso l’Università di Colonia. Ha conseguito dottorati di ricerca in filosofia e storia della filosofia presso le Università di Bari e di Colonia. È autrice di uno studio dottrinale sull’antropologia di Alberto Magno nonché di articoli, recensioni, poesie, traduzioni in bulgaro da latino, inglese, tedesco e italiano. Nel 2018 ha pubblicato la sua prima raccolta di poesie "Dvor na spokoystvieto" ("Corte della serenità", Edizioni Scalino). Nell’anno in corso uscirà una sua raccolta di racconti brevi, "Kratki razkazi za nedruzheliubni momicheta" ("Brevi racconti per ragazze poco amichevoli", Scalino). Ha quattro figli.

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