Anna Ettore – L’omino del tempo

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Non era stato così facile rendersene conto: gli capitava spesso che le sue giornate finissero troppo in fretta. Da principio non sembrava nemmeno che fosse quello il vero problema: il tempo, si sa, corre veloce, eppure una sensazione si aggirava inquieta dentro di lui.
Un giorno, però, Diego ebbe la certezza che qualcosa nella sua vita non andava. La convinzione che il tempo gli sfuggisse di mano lo tormentava: gli impediva di fare progetti, di gustarsi la vita.
E così, un bel mattino, incominciò la giornata con le idee molto chiare: bisognava controllare tutto, ogni ora, ogni istante per evitare distrazioni.
Uscì per andare in banca, come sempre, ma era già riuscito a non indugiare nel letto o mentre faceva colazione. Andò rapidamente a prendere l’autobus e, a passo veloce, arrivò in ufficio. Come ogni giorno, ma con un’attenzione diversa.
Nella tarda mattinata, purtroppo, gli capitò di distrarsi un attimo e già l’istante successivo si rese dolorosamente conto che tutti i suoi buoni propositi si erano dileguati nella frenesia quotidiana. Come al solito, come da troppo tempo, era successo qualcosa.
Poco a poco l’idea che dimorava in un angolo nascosto della sua mente prese una forma più distinta: “Strano, come è possibile? Eppure,  non può essere altrimenti”.
Gli sembrava di subire un furto senza posa, come se, in qualche oscuro luogo della sua esistenza, vivesse un ladro. Certo, l’idea era folle, ma almeno aveva un punto di partenza su cui ragionare, anche se  non poteva parlarne con nessuno.
Ci aveva provato con la moglie, in un disperato tentativo di confidarsi. «Eva», le aveva detto una sera, «non ce la faccio più».
«Di cosa stai parlando, Diego?», gli aveva domandato lei, stupita.
«La mia vita è un disastro».
«Che cosa ti succede?».
«Tutto quello che cerco di fare mi sfugge dalle mani. Il tempo mi fa paura, corre in modo spaventoso e non riesco a fermarlo».
Aveva esitato un attimo, poi aveva continuato: «So che il tempo non si può fermare, ma… C’è qualcosa di più. Mi sembra che qualcuno me lo stia portando via».
Aveva taciuto nell’eco delle proprie parole, rendendosi conto della stranezza di quello che aveva detto.
Eva lo aveva scrutato accigliata, poi gli si era avvicinata con dolcezza e gli aveva sorriso, accarezzandogli i capelli. «Non ti preoccupare, sei solo stanco. Le cose cambieranno. Quando sarai meno impegnato tutto ti sembrerà diverso».
Era rimasta abbracciata a lui ancora per un po’, poi aveva ripreso le faccende domestiche, considerando chiuso l’episodio.
Ma per lui non era così.
Quella notte cercò di ideare un piano. L’unica cosa che poteva tentare era organizzare al meglio ogni istante della propria giornata: era ciò che principalmente lo torturava, ed era da lì che doveva cominciare.
Il giorno successivo comperò un orologio di precisione, una specie di cronometro, e un taccuino nuovo da dedicare alle sue registrazioni. Per programmarsi al meglio, oltre alle ore, doveva misurare anche i minuti e i secondi che così insidiosamente sfuggivano al suo controllo; alla fine del suo esperimento,  nero su bianco, avrebbe visto come si disperdeva la sua giornata.
Trascorse così i primi giorni, tracciando impegni e cifre sulle pagine bianche e controllando l’orologio quasi di continuo. Piano piano riuscì a formulare lo schema di una giornata tipo: 17 minuti di viaggio in media, 22 quando pioveva; 3 minuti e 45 per il caffè al bar, 50 secondi, 60 al massimo, per entrare in ufficio; da qui in poi, fino alle 18.30, aveva l’agio di fare quello che voleva. Poteva persino concedersi di perdere tempo, almeno finché era lì dentro. Poi, una volta uscito…
All’inizio fu veramente faticoso, ma dopo un po’ ebbe la soddisfazione di riuscire a incastrare tutto, come in un mosaico perfetto. Un giorno arrivò addirittura ad avanzare una specie di credito, una rimanenza di tempo positiva che decise di spendere in una bella passeggiata improvvisata. Per rilassarsi un po’.
La sua vita stava incominciando a seguire il giusto corso.
Una mattina però, mentre attraversava un incrocio a passo spedito, gli cadde a terra uno dei guanti che stava tirando fuori dalla tasca. Si fermò di colpo e, mentre si chinava per raccoglierlo, i suoi occhi si posarono involontariamente su un ometto che camminava dietro di lui: piccolo di statura, con un cappello calato sulla fronte e un’aria talmente ordinaria da apparire singolare. Per un istante i loro occhi si incontrarono, ma subito l’ometto abbassò lo sguardo e continuò a camminare.
Diego riprese la sua strada, preoccupato di far tardi.
Si dimenticò dell’uomo per i due giorni successivi, ma il terzo giorno, mentre guardava di sfuggita la propria immagine riflessa in una vetrina, gli parve di scorgerlo dietro di sé. Lì per lì ancora non ci fece caso ma, nei giorni seguenti, si accorse che continuava a incrociare quell’omino.
Per strada, ovviamente, ma anche nei negozi, al ristorante, al cinema. Si rese conto che era ovunque fosse lui. Una presenza discreta, difficile da notare a un primo sguardo; eppure, ora che il suo occhio si era abituato, riusciva a coglierlo rapidamente anche negli angoli più improbabili: seduto su di una panchina nell’ombra del parco, seminascosto da uno scaffale in biblioteca, in fila al supermercato pigiato tra i clienti.
Sempre lontano, sempre dietro di lui. Non aveva un’aria minacciosa: sembrava che lo osservasse con cautela, come per tenerlo d’occhio.
Per un po’ Diego credette di vivere un’allucinazione: vedeva quella figura curiosa davanti ai propri occhi, innocua ma irreale. E a volte, quando sbatteva le palpebre per guardare meglio, non la trovava più.  Eppure sapeva che era sempre con lui.
Fu quella certezza che incominciò a creargli disagio.
Gli era capitato di vederlo anche a casa, in fondo al corridoio, quando passava da una stanza all’altra. Che cosa poteva volere da lui? E perché non gli si avvicinava, non cercava di parlargli?
Col passare dei giorni questi interrogativi gli fecero dimenticare il suo problema precedente: ora che aveva smesso di prestarvi attenzione, il tempo aveva ricominciato a trascorrere come prima, a una velocità spaventosa; stava nuovamente perdendo il controllo della sua vita. Ma ormai ciò che più gli importava era riuscire a parlare con quell’uomo. Per qualche misteriosa ragione, però, non lo rivide. Non subito, almeno. Sembrava che l’omino avesse capito quali erano le sue intenzioni.
Una sera, uscito sul balcone per fumare, riuscì a scorgerlo mentre spuntava, curioso ed esitante, dall’angolo del caseggiato in fondo alla via. Diego ebbe un sussulto quasi di gioia. Lo guardò negli occhi mentre l’altro lo osservava, o così gli parve, poi si ritirò in casa, sicuro che se avesse insistito quello sarebbe nuovamente sparito. Ma aveva intuito che l’omino aveva bisogno di lui e che sarebbe tornato.
Infatti due giorni dopo, mentre camminava per recarsi da un amico, lo rivide: distante, un po’ defilato, con la sua aria indifferente.
Diego si girò di colpo e corse verso di lui. L’omino fu colto alla sprovvista, esitò un istante, ma, appena realizzò che cosa stava accadendo, si voltò e si diede alla fuga.
«Fermati!» gli gridava. «Ti voglio parlare!».
Inutile: l’omino correva come un forsennato e non era intenzionato a farsi prendere. Diego continuava a inseguirlo e, quando ormai disperava di riuscire a bloccarlo, l’ometto imboccò una viuzza laterale e finì col chiudersi in una strada senza uscita. Era con le spalle al muro.
«Adesso non puoi più scappare», disse Diego avvicinandosi. «Dimmi chi sei!».
L’altro taceva.
«Perché mi stai seguendo? Che cosa vuoi da me?», aggiunse in tono minaccioso.
Il reiterato silenzio lo esasperò. «Parla, maledetto!», gli intimò alzando un pugno come per picchiarlo.
L’omino non si scompose: non sembrava aver paura. Rispose con una vocina appena percettibile: «Mi vuoi aggredire?», e fissò i suoi occhietti vitrei sul volto di Diego, che implacabile non abbassava il braccio. Poi aggiunse, rassegnato: «Io sono il tuo uomo del tempo, visto che lo vuoi sapere. Non è da ora che ti sto seguendo. Sei tu che non ci hai mai fatto caso prima».
Diego non capiva. «Ma perché mi segui?».
«Mi  nutro del tempo che tu sprechi. Vivo di quello che tu hai sempre buttato via».
Diego lo guardò sconcertato, senza sapere che cosa dire.
«Ho sempre preso un po’ del tuo tempo», proseguì quello. «Non ti sei mai reso conto di tutto quello che buttavi via e, fino a quando non hai cominciato a dargli importanza, non ti accorgevi della mia presenza. Poi non so che cosa sia successo».
Diego ascoltava senza parlare.
«È cambiato qualcosa. Non riuscivo a prenderne quasi più, non mi potevo nutrire perché tu eri sempre in guardia. Hai cominciato ad accorgerti delle mancanze e hai pensato a un furto».
«Ma non può esistere una cosa come questa», balbettò sbigottito.
«Credi che io sia l’unico?», gli domandò l’ometto, serio e tranquillo. «Che non ne esistano altri come me? Ti sei mai guardato intorno?».
In quel momento Diego capì. Vide la corsa forsennata della vita, l’ansimare drammatico di ogni essere umano. Dischiuse le labbra per chiedere ancora ma, quando alzò lo sguardo, l’omino era scomparso in fondo alla via.
Tornò sui propri passi mentre la sua mente continuava a rimuginare su quanto aveva appena scoperto. Allora tutto quello che aveva intuito era vero! Non era il tempo a essere così veloce: il problema era il ladro che se ne nutriva! Ma se era così per lui, lo era anche per gli altri?
Decise di tornare a casa: tanto l’omino, per quanto ne sapeva, poteva essere o non essere ovunque. Rientrò e si chiuse nel suo studio a riflettere, prima che arrivasse sua moglie. Doveva considerare anche questo: l’avrebbe preso per pazzo se le avesse parlato chiaramente; o, nel migliore dei casi, ci avrebbe scherzato sopra, facendolo sentire ancora peggio.
Quando Eva rincasò, Diego cercò di non far trapelare niente della sua inquietante scoperta. Meglio saperne qualcosa di più, prima. Si comportò come di consueto, ma osservava la moglie come se la volesse studiare: anche lei doveva avere un suo omino, o forse una donnina del tempo. E probabilmente non se ne era mai accorta.
Le si avvicinò mentre era in cucina, indaffarata con la cena. «Come è andata oggi?» le domandò con aria casuale.
«Come al solito», rispose lei sovrappensiero. «E tu?».
Parlarono per un po’ del più e del meno; poi lui disse, lasciando cadere l’osservazione come se fosse casuale: «Sto riflettendo molto in questi giorni. Non ti è mai sembrato che il tempo corresse troppo in fretta? Voglio dire… Non hai mai avuto l’impressione che ogni secondo ne costasse due, il doppio?».
La moglie gli rivolse uno sguardo interrogativo. Rimase a fissarlo per un istante, come nel tentativo di concentrarsi sulle sue parole; forse trovava un barlume di senso in quel dire. Poi sorrise, come a voler scacciare un pensiero, e riprese a cucinare.
Quella notte Diego non poté prender sonno. Si rigirava nel letto, angosciato e furioso. «Ladro maledetto! Ti stai rubando la mia vita.  Mi stai uccidendo!», ripeteva  nel dormiveglia.
Fu un tormento senza fine. Poi, però, ebbe un’illuminazione.
Il mattino successivo si alzò come al solito. Uscì di casa e avvisò in ufficio che non sarebbe andato al lavoro. Si appostò dietro l’angolo del palazzo e aspettò che anche Eva uscisse. La porta si aprì e la donna scese sul marciapiede, avviandosi rapida verso il proprio luogo di lavoro.
“Ci siamo”, pensò Diego. E incominciò a pedinarla.
Da principio non notò nulla di strano. Eva giunse al lavoro, parlò con i colleghi, uscì per pranzo, fece un giro e così fino a sera.
Non era facile scoprire qualcosa, anche perché non sapeva esattamente che cosa dovesse aspettarsi di vedere. In compenso il suo omino era sparito di nuovo.
Trascorsero altri giorni come il primo, fatti di attese, di pedinamenti e di occhiate ansiose.
Un pomeriggio, finalmente, vide una donna seduta su una panchina nel giardino di fronte all’ufficio di Eva. Aveva un viso anonimo, ma la notò perché rimaneva ostinatamente seduta laggiù nonostante la giornata fosse piuttosto fresca. E anche per l’aria impassibile e concentrata che aveva mentre osservava senza sosta la porta del palazzo in cui lavorava sua moglie. Era una creatura molto piccola, con un corpo da bambina: una specie di donna in miniatura, avvolta in un cappotto chiaro. Sarebbe stato difficile notarla in mezzo alla folla che camminava.
Quando Eva uscì, si alzò anche lei. Diego ebbe la certezza che era proprio quella la donna che stava cercando. Per fortuna non si era accorta di lui. E, se si comportava come il suo omino, non avrebbe avuto occhi che per la persona che stava pedinando.
Si mise quindi alle sue spalle, a una certa distanza, e incominciò a seguirla a sua volta. Era un punto di osservazione completamente diverso: da lì poteva vedere le espressioni, i comportamenti e le scelte di quella creatura. Notò che sostava ogni volta che Eva si fermava sulla strada o in un negozio. A volte arrancava sbuffando, e in altri momenti sembrava muoversi più tranquillamente. In certe situazioni assumeva persino un’espressione che poteva sembrare felice.
Quando Eva approdò sul marciapiede sotto casa, la donna si arrestò quasi di colpo e rimase nell’ombra a guardarla mentre varcava il portone d’ingresso.
Diego, dietro di lei, rimase ad osservarla per un poco ma, vedendola rigida nella sua posizione, se ne allontanò e rientrò anche lui.
Quella sera non disse niente alla moglie. Rimuginava su quello che aveva scoperto per trovare una soluzione.
Il giorno dopo riprese l’inseguimento. Voleva raccogliere il maggior numero possibile di informazioni su quella donnina. La prima differenza che notò tra lei e il suo omino era nel fatto che la donna era costretta a fermarsi davanti a molti più ostacoli di  quanto non facesse l’altro.
A Diego infatti era capitato di vederselo anche in casa, in ufficio, ovunque. Al contrario, quando sua moglie era a casa o impegnata a fare qualcosa la donnina doveva restare fuori. Non poteva passare.
Entrò in un bar da cui riusciva a controllare la situazione e attese. Verso sera Eva uscì dal lavoro e la piccola creatura si staccò dall’ombra della via, ricominciando a trotterellare velocemente dietro di lei.
Uscì dal bar e si incamminò anche lui. “Allora è vero quello che mi ha detto! Ma cosa vogliono da noi?” si chiedeva Diego, scrutando i volti della folla per vedere se riusciva a riconoscerne altri.
“Saranno tutti piccoli e anonimi?”.
“Nascono e invecchiano con noi? Da dove vengono?”.
Le domande di Diego, però, non avevano risposta.
Eva arrivò nuovamente sotto casa, aprì la porta ed entrò. La donnina si fermò all’esterno, nella penombra del solito edificio, e Diego decise che avrebbe continuato a spiarla anche in quel frangente. Aveva capito che di giorno la creatura aspettava Eva per seguirla: era in grado di restare immobile e concentrata per ore, ma quando camminava dietro di lei sembrava felice, come qualcuno che possa finalmente respirare a pieni polmoni dopo avere trattenuto a lungo il fiato. Pareva quasi aumentare le proprie dimensioni.
Il tempo passava; tutti e due restavano appostati nel proprio nascondiglio.
Dopo quasi due ore di attesa, l’ombra di fronte a lui fu attraversata da un raggio di luna e Diego riuscì a scorgere la donna in viso. I suoi occhi erano vacui, l’espressione assorta e tutto il corpo pareva composto in una tensione suprema. Ormai per lui era tempo di rientrare -non ce la faceva più a sopportare il freddo-, ma restò a fissarla ancora. Vide che stava cambiando: i tratti del viso sembravano meno definiti, il corpo si assottigliava e, in poco tempo, la donnina scomparve. Si dissolse letteralmente nell’aria.
«Ecco cosa succede!» esclamò Diego.
Quando finalmente tornò a casa, trovò l’appartamento sprofondato in un’insolita tranquillità.
“Ma dov’è andata Eva?” si chiese.
La vide seduta in salotto, assorta. A mala pena si accorse di lui. Anche a Diego bastò un’occhiata, poi salì in camera e si mise a dormire. O meglio, a riflettere.
Il mattino dopo era di nuovo pronto a ricominciare la caccia; appostamento, inseguimento e osservazione notturna.
Si accorse che aveva trascorso troppo tempo in quel modo solo quando ricevette una lettera di licenziamento dall’ufficio. “Meglio così”, pensò. “Quando avrò risolto questa faccenda, troverò un altro lavoro, Non posso stare a pensare anche a questo!”.
Di lì a qualche giorno, Diego ricominciò a vedere anche l’omino. Ne fu molto colpito. Era come un ritorno lungamente atteso.
Accadde per strada, come la maggior parte delle cose che gli capitavano in quel periodo. Era mattina, e stava pedinando come al solito le due donne, quando intravvide il profilo neutro del suo “amico”, sull’altro lato della via. Sembrava sempre lo stesso. Poco più avanti, però, venne inghiottito dalla folla e lo perse nuovamente di vista. Ma era tornato, e la cosa lo riempiva di una strana gioia.
Quel pomeriggio notò qualcosa di singolare. Mentre era seduto nel solito giardino da cui poteva tenere sotto controllo la situazione, lo vide entrare dal cancelletto e accomodarsi su una panchina distante, di fianco a uno sconosciuto.
“Strano”, pensò Diego osservando il suo omino, che pareva comportarsi come se lui non ci fosse; “mi sta ignorando”.
Subito dopo, notò che quello si era rivolto alla persona che gli sedeva accanto e aveva incominciato a parlare, o meglio, a chiacchierare allegramente con lui. E l’uomo gli stava rispondendo.
Era la prima volta che lo vedeva conversare con qualcun altro. Stupito, rimase a studiare la situazione, ma, non appena scorse la moglie uscire dall’ufficio, si buttò al suo inseguimento.
Col passare dei giorni incontrò sempre più spesso l’omino, come capitava in passato; però ora c’era una novità: l’uomo non lo inseguiva più, quasi sempre lo precedeva o si muoveva per conto proprio nei luoghi in cui si incontravano. Parlava con gli altri, gesticolava, rideva. Si comportava come una persona normale. “E’ veramente strano”, rifletteva Diego ogni volta.
Ma non aveva modo di soffermarsi a lungo su quel pensiero, indaffarato com’era nei pedinamenti.
Eva era diventata molto più distaccata nei suoi confronti. Ogni volta che lui rientrava, lei sembrava sempre meno interessata; anzi, pareva che non lo notasse nemmeno. Lui non voleva farne un dramma, anche perché non ne aveva il tempo, e si riproponeva di chiarire tutto una volta risolta quella faccenda.
Un pomeriggio passò per caso davanti al suo vecchio ufficio. Era arrivato lì seguendo la donnina che seguiva Eva, perché sua moglie aveva deciso di andare in un negozio dei dintorni.
Come al solito Diego aspettò in strada per non farsi vedere e, soffermandosi sulle vetrate familiari della sua vecchia sede di lavoro, scorse il faccino conosciuto lì dentro, mentre parlava con i colleghi.
Gettò a terra la sigaretta che stava fumando, più irritato che turbato. “Ancora tu”, disse tra sé. “Al diavolo! Ma vedrai, un giorno la faremo finita!”.
Gli girò le spalle e si rimise a fissare la porta del negozio in cui era la moglie.
“E’ finito l’inverno”, rifletté qualche sera dopo, mentre montava la guardia sotto casa.
“Adesso non fa più così freddo quando devo aspettare”. Lo pensò con una sorta di sollievo. In quella stagione ormai il buio arrivava tardi, e poteva trattenersi più a lungo. Erano le nove quando decise di tornare a casa.
Entrò.
Salutò la moglie dall’ingresso. Non ricevette risposta. Eppure si sentiva un brusio leggero nell’altra stanza. Si affacciò. Rimase impietrito. Eva era seduta sul divano. Lui, l’omino, era seduto sulla poltrona di fronte, e chiacchierava sorridendo con lei. Come se quella fosse stata la sua casa.
Lo specchio della sua mente si ruppe.
Urlò il nome della moglie. La chiamò disperato. Ma nessuno dei due lì dentro poteva udirlo.

FINE

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