Iva
Da quando la sua casa era stata bombardata, Iva passava le giornate nel cortile della moschea.
Sembrava sempre indaffarata a sistemare le quattro cose che aveva salvato e che trasportava in giro usando un carrello della spesa preso da un market chiuso per sempre.
Sarajevo non era più la città in cui era cresciuta.
Adesso, davanti a lei le strade si presentavano devastate e ingombre di macerie.
Iva non era spaventata dalla guerra.
Per lei era come una specie di evento casuale e naturale. Come quando piove, per esempio.
Nella sua mente, sarebbe finita un giorno o l’altro, proprio come finisce l’inverno. Da solo. Per forza.
Iva aveva un’età indefinibile.
Era una donna alta e corpulenta, coi denti ormai radi e i capelli neri legati stretti in una coda dietro la nuca: unico elemento, insieme al grande seno, che la identificava come donna.
Aveva sempre vissuto con i genitori fino alla loro morte, poi la gente del vicinato aveva cominciato a occuparsi di lei, facendole compagnia e assicurandosi che stesse bene.
Aveva una pensione d’invalidità che le permetteva di comprarsi da mangiare e, ongi tanto, qualche vestito nuovo.
Le piaceva agghindarsi come una bambola. Prediligeva camicioni rosa con maniche a sbuffo, gonne con pizzi e merletti che stridevano con il suo aspetto fortemente androgino.
Nonostante la sua età, la sua mente era pura come quella di una bambina.
Nessuno si aspettava la guerra. All’inizio sembrava impossibile che proprio lì scoppiasse un conflitto, perché a Sarajevo le persone avevano sempre vissuto in pace. Insieme. Non c’erano mai stati un quartiere musulmano, uno cristiano e uno ortodosso. Lo spazio era condiviso senza badare alle distinzioni religiose. Suonavano le campane e, dopo, il muezzin chiamava alla preghiera.
Quando ci furono i primi bombardamenti, la gente era disorientata.
Le autorità avevano subito detto che era stato un errore e che non sarebbe mai più successo e tutti si illusero che fosse davvero così: era più facile credere al bene che al male.
Poi cominciò l’assedio.
Le colline intorno furono occupate dai nemici, che bombardavano la popolazione civile.
Cominciò il coprifuoco.
Ma Iva non aveva paura.
I suoi compiti erano semplici: ogni giorno doveva procurarsi almeno tre pasti e la sera sistemare un cartone e le coperte nella corte della moschea, dove altre persone avevano costruito una specie di accampamento per quelli che non avevano più una casa. Come lei.
Non era difficile trovare qualcosa da mettere sotto i denti. Tutti erano pronti ad aiutare. La cosa più scocciante era andare a lavare i vestiti al fiume, per questo cercava di non sporcarsi troppo.
Iva aveva una zia, ma per raggiungerla a casa sua avrebbe dovuto passare per uno stradone della città nuova dov’erano appostati i cecchini, persone cattive che sparavano a quelli che passavano e potevano fare molto male.
A Iva non piaceva il dolore, e nemmeno il sangue.
Gli aerei che passavano sopra la città invece le piacevano. Facevano un rumore assordante e tutti si fermavano a guardarli. Le ricordavano quando andava a vedere i fuochi d’artificio con i suoi genitori e non aveva paura come gli altri bambini e il papà era orgoglioso del suo coraggio.
A un certo punto, però, parve chiaro che la situazione stava diventando assurda.
Assurda e drammatica.
Lì, nel cuore dell’Europa, quasi nel secondo millennio, Sarajevo era sotto assedio.
I serbi, dalle alture che circondavano la città, sparavano granate sulla gente, inerme.
I bambini morivano mentre giocavano vicino a casa, i cecchini sparavano a chiunque senza porsi domande.
Darjan
Darjan era un bambino di nove anni, con la faccia sfigurata da una granata, che si attaccava alle gambe delle persone per spaventarle e non le lasciava fino a quando non gli mollavano qualche spicciolo.
In giro lo chiamavano il Piccolo Napalm.
Piccolo Napalm era un bambino cresciuto in fretta. Aveva le abilità e l’intelligenza di un uomo adulto, al contrario di Iva, che era vecchia fuori e bimba dentro.
La prima volta che si incontrarono, si accorsero che erano simili. Entrambi si sentivano soli e avevano bisogno di una famiglia.
Darjan capì che doveva proteggerla o non sarebbe rimasta viva per un giorno di più. Così se la portò dietro nella cantina di una casa abbandonata dov’era andato a vivere da qualche mese.
Per giorni l’aveva studiata. Era anche l’unica persona che era riuscita a tirarlo fuori dal suo guscio ostinato.
Forse era tenerezza, quella che provava. Gli altri del rifugio erano adulti o avevano qualcuno che si occupasse di loro.
Lui sapeva di essere in grado di badare a se stesso. Lei, invece, era sprovvista di un qualsivoglia senso del pericolo e di autoconservazione.
Darjan si sentiva obbligato a prendersi cura di lei. Come se fosse sua nonna, o sua sorella. E poteva sembrare tutte e due allo stesso tempo.
Qualche volta, la sua inettitudine lo faceva arrabbiare: «Ma sei scema o cosa?».
«Non sono scema! Il mio papà mi diceva sempre che io sono speciale come gli angeli!».
Darjan la guardava incredulo, concentrato a capire con chi avesse a che fare. Voleva essere certo di potersi fidare di quel donnone vestito da bambola. E decise che, dopotutto, avrebbe potuto darle una chance.
«Cos’hai fatto alla faccia?» chiese lei.
«Una granata».
«Oh, mi dispiace! Ti fa male?».
«Adesso non mi fa più male niente. Quel giorno il mio cuore è morto e io non soffro più».
Iva scoppiò a ridere. «Vedi che sei tu che sei scemo? Se uno ha il cuore morto non può vivere!».
Darjan alzò le spalle. Forse ha ragione lei, pensò. Non sono morto del tutto, in fondo.
Era buffo. Aveva trovato una nonna e una bambina in un corpo solo.
Il mercato
«Dove vai?» chiese Iva a Darjan, che si era alzato dal giaciglio e si era infilato le scarpe.
«A comprare da mangiare».
«Vengo con te».
«No, è pericoloso».
«Pericoloso? Perché?».
«Non hai capito che siamo in guerra? Ma allora sei davvero scema!».
A Iva si riempirono gli occhi di lacrime e si girò verso il muro.
Darjan alzò lo sguardo al cielo. «Stai lì e non uscire. Ci penso io al pranzo».
Se fosse rimasto qualche minuto in più, avrebbe capito che Iva non aveva nessuna intenzione di starsene buona e zitta come voleva lui.
Anche lei voleva fare qualcosa di bello per Darjan.
Nella sua borsetta di pizzo aveva trovato una banconota della sua pensione.
Chissà da quanto tempo stava lì! Non ci guardava da anni, o così le sembrava.
Per arrivare al punto di distribuzione delle scorte alimentari mandate dall’Onu, bisognava attraversare i viali che dalla città portavano all’aeroporto.
I viali dei cecchini.
Andare e tornare vivi era già una fortuna. Riuscire a recuperare qualcosa sarebbe stato quasi un miracolo.
L’altra possibilità era il mercato.
Per comprare qualcosa però ci volevano soldi, e lui aveva un metodo infallibile per procurarseli.
Trasformava il suo viso storpiato dall’esplosione in risorsa. Riusciva sempre a strappare qualche moneta.
Decise per il mercato.
Era quasi mezzogiorno. La lunga via Maresciallo Tito non era lontana dal loro rifugio.
Avrebbe percorso le gallerie scavate nelle colline per sfuggire agli spari.
«Dove sono i tuoi genitori?» gli aveva chiesto Iva una volta.
L’ultima cosa che ricordava di loro era il giorno in cui era stato colpito da una granata.
Era in casa e faceva caldo. I bambini del quartiere stavano giocando in strada, come facevano anche prima di quella guerra. Li aveva raggiunti con il pallone che aveva ricevuto in regalo per il suo compleanno.
La televisione aveva detto che il bombardamento avvenuto qualche giorno prima era stato un errore; che nessuno avrebbe portato la guerra a Sarajevo, una città così turistica e importante.
Era stato facile crederci. Alle cose belle è sempre più facile credere.
Invece non era vero.
Era partita una granata e lui era stato colpito.
Si era svegliato qualche ora più tardi, in ospedale, con un dolore insopportabile al volto e al braccio.
Era solo.
C’erano voluti tanti giorni per guarire. Quando era tornato a casa, non aveva trovato più niente. E nessuno.
Faceva male restare da soli.
Aveva sofferto la fame, il freddo, la mancanza dei genitori.
Era chiuso in un bozzolo di silenzio e paura.
Qualcuno l’aveva sfamato, forse per pietà. Gli avevano portato dei vestiti caldi, qualche coperta.
Quand’era stato pronto a uscire dal bozzolo era diventato una falena. Non era più Darjan, era Mali Napalm, il Piccolo Napalm, come lo chiamavano i ragazzi che lo incontravano in giro per le piazze.
Aveva fatto la corteccia, era diventato un duro. Forse un giorno avrebbe incontrato di nuovo la sua mamma, doveva sopravvivere fino ad allora.
E adesso doveva pensare anche a Iva. Senza di lui sarebbe morta di sicuro.
A un certo punto udì un fragore spaventoso provenire dal mercato.
Fumo denso e polvere gli si alzarono davanti. La gente scappava, qualcuno con ferite aperte e sangue che colava dalle facce, dalle braccia.
Molti corpi a terra.
Era l’inferno. Lui era salvo solo per qualche metro, per qualche minuto di ritardo sulla tabella di marcia.
Tornò di corsa al rifugio, da Iva.
Quando arrivò, lei non c’era. Le sue cose erano sistemate in ordine nel carrello ma di lei non c’era traccia.
Chiese agli altri abitanti della cantina.
«Iva ha trovato dei soldi e voleva andare a comprare qualcosa per farti una sorpresa».
«Dove?» urlò Darjan, terrorizzato.
«Non so. Al mercato, credo».
«C’è stato un attentato al Markale».
«Abbiamo sentito un gran rumore! Ma lei era già fuori».
Darjan corse fuori e s’infilò nei cunicoli sotto via Itto. Tutti correvano dalla parte opposta, ma lui non poteva cedere, un terribile presentimento gli attanagliava la gola.
Iva andava sempre al Markale.
«Brutta zuccona, perché non obbedisci mai?».
La trovò sull’asfalto, il vestito rosa da bambola intatto, la coda di cavallo tirata dritta dritta dall’elastico, un buco sulla testa dal quale fuoriusciva un liquido scuro e appiccicaticcio.
Perse i sensi.
Quando si risvegliò era di nuovo nel suo bozzolo, di nuovo in un letto d’ospedale.
Un’infermiera gli stava spiegando che stava bene, che sarebbe venuto un pullman e l’avrebbe portato fuori da Sarajevo con altri bambini. Sarebbero stati portati in salvo, via. Lontani da lì.
Gli chiesero di scrivere su un foglio il suo nome e quello dei genitori e quello di tutti i parenti di cui si ricordava.
Iva era morta: non doveva più rimanere.
Il gelo gli correva dentro e conviveva con una tiepida speranza.
Forse un giorno la guerra sarebbe finita e lui avrebbe rivisto i suoi genitori.
Ecco perché non doveva morire.