Silvia Accorrà – Questo pomeriggio la guerra

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Abbiamo avuto tutti, nessuno escluso, la stessa reazione isterica di non credere che fosse scoppiata una guerra. Pur correndo a rintanarci, a nasconderci, a scappare in parti della città ignote ai più (e per questo, pensavamo, anche ai nostri inseguitori), non riuscivamo a renderci conto che stesse davvero accadendo. C’erano delle persone e delle macchine che stavano cercando di farci la festa, di massacrarci, di annichilirci tutti.
Avevo un appuntamento nel pomeriggio con una persona: l’appuntamento di una realtà urbana lavorativa e ordinaria, una consumazione al bar più adatto alla chiacchierata di lavoro – tutto è stato spazzato via dagli incendi, dalle bombe, dalle mine e dal crollo di intere facciate di edifici. A un certo punto ho pensato a mia sorella, che nel pomeriggio avrebbe dovuto andare a prendere i bambini a scuola, ed era stata fermata o uccisa dall’esplosione della strada su cui camminava. E così come noi tutti quanti, fermati per sempre nelle loro intenzioni, in una normalità cittadina stabile e perfino sonnolenta.
Tutti abbiamo dovuto allontanarci di corsa, metterci a correre, recuperare le poche cose in nostro possesso. L’indifferenza di questo attacco è stata pari alla sua ferocia improvvisa. Non avevano intenzione di risparmiare nessuno. Eravamo tutti bersagli, dovevamo tutti essere disgregati e fatti sparire. In un palazzo antico sede di una scuola, ovviamente deserta, e che dava l’idea di essere abban-donata da secoli… ecco che mi sto nascondendo sotto le strette scale della soffitta, e ogni tanto sento un gemito – e per questo capisco che ci sono dei sopravvissuti, che non conosco ma che mi sembrano i più cari esseri viventi, per cui vale la pena sacrificare tutto. Cerco di proteggerli, di tamponarne le ferite, di portarli via. Sono uomini donne ragazzi vecchi. Sono bambini, ma pochi, perché la loro fragilità e la loro lentezza li ha fatti cadere prima degli altri.
Una ragazzina adolescente con il viso sporco di fuliggine e polvere è conficcata come me tra le travi delle scale in solaio. Ci sono muri rotti, un fumo terribile e pungente, buio anche se è giorno (e adesso penso: cosa ci hanno riservato per la notte? Gli attacchi notturni saranno ancora più letali), e mi accerto che lei stia bene. Come con me, è lo sbalordimento più totale a trasparire dal suo sguardo e dalle cose che dice. Non può credere che ci stia succedendo tutto questo.
Non posso crederci neanch’io. Dovevo fare delle cose questo pomeriggio, e nella mia mente si replica il film della strada gialla, la luce gialla, una leggera polvere perché è estate e si alza dai marciapiedi quando c’è brezza; vetture sornione per la strada, nessuno di corsa. Una donna cammina dieci passi davanti a me precedendomi, qualcuno scende la scalinata del Palazzo degli Uffici alla mia destra e lungo il Corso la luce aumenta, come se la distanza rendesse gli oggetti più rarefatti. Ma è così, qui: la luce dell’estate è implacabile e morbida allo stesso tempo. Ci siamo adattati a fare le cose con precisione e tranquillità.
E poi sento i primi scoppi, vedo una sottile colonna di fumo alzarsi dal marciapiede bianco quando la donna in tailleur davanti a me cade per terra, chiazzando il pavimento con una lunga macchia rossa nervosa. Mi volto rapidamente per capire che cosa stia succedendo, e una specie di maglio (non ho capito di cosa si sia trattato) piomba molto vicino ai miei passi, sgretolando il cemento del mar-ciapiede. Io corro, e sento sibilare dei vettori rapidi nell’aria, senza capire di cosa si tratti. Penso a mia sorella che sta andando a prendere i bambini – sono le quattro del pomeriggio –, penso alla persona che lavora con me in ufficio che ha un appuntamento di lavoro.
Penso alla gente che dorme, che sta in ospedale, che cammina, che legge un libro. Penso che non c’è stata anticipazione per questa strage, per questo massacro senza senso. Non abbiamo nemici che possiamo identificare, non esiste nessuno al di fuori di noi, che siamo racchiusi nella città e compiamo i gesti di tutti i giorni come se tutto fosse normale; e non so cosa pensare di questo attacco inspiegabile e micidiale.


Tratto dalla raccolta di racconti di Silvia Accorrà Entropie,
pubblicato per gentile concessione di Calibano Editore e dell’autrice.

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Silvia Accorrà è poeta, narratrice, fotografa. Ha pubblicato tre sillogi di poesia, "Mezzoforte" (Cultura Duemila, 1991), "Pesce di terra" (Lietocolle, 1995), "Città non nostre" (Libreria Croce, 2007) e due raccolte di racconti, "Rosso nucleare" (Atì 2008) ed "Entropie" (Calibano, 2023). Ha pubblicato una trilogia di romanzi di ambientazione giapponese, "Tokyo Love" (Damiani, 2014), "Hikari" (Prospero, 2017) e "Pareti sottili" (Prospero, 2019). Ha inoltre partecipato ad alcune antologie poetiche e narrative. Ha avuto una personale di fotografia nel 2006, una nel 2010 e una nel 2018. Lavora principalmente come traduttrice, ma anche come insegnante di lingua. Vive a Milano dalla nascita (1969), ma il suo cuore è altrove.

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