Claudia Beltramella – Treno verso la libertà

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La stazione di Gyumri era gremita di gente che correva verso le banchine per salire sui treni in attesa. In quei giorni turbolenti, gli armeni scappavano il più lontano possibile: il conflitto con l’Azerbaigian per la regione del Nagorno-Karabakh, che si protraeva da più di dieci anni, era esploso negli ultimi mesi a seguito dello sgretolamento dell’URSS.
Andrey Medovka accompagnò sua moglie Lidija e la piccola Vera fino alla carrozza loro assegnata. Avrebbe voluto fare il viaggio con loro, ma lavorava nella polizia locale e, in quei giorni, la sua presenza era indispensabile. Si abbracciarono per un’ultima volta prima che Lidija, controvoglia, salisse sulla vettura con le lacrime agli occhi.
Il convoglio avrebbe attraversato quasi tutta la Turchia e, dopo un cambio di treno nella stazione di Ankara, Lidija e Vera sarebbero arrivate a Istanbul. Lì avrebbero preso un traghetto per l’Italia, dove le attendeva Nika, la sorella minore di Andrey, e dove sarebbero rimaste fino a quando gli scontri in Armenia fossero finiti.
Nika si era sposata con un giovane addetto all’ambasciata tedesca in Armenia, che poi era stato trasferito in Italia.
Il Dottor Aamir Kond salì per ultimo. Era il medico di famiglia, oltre che un carissimo amico di Andrey fin dai tempi dell’università.
«Caro amico», lo salutò Andrey stringendogli la mano, «ti prego di prenderti cura di loro e di farmi avere notizie non appena sarete arrivati».
«Non preoccuparti, andrà tutto bene. Ci vedremo al mio ritorno».
Il treno partì puntuale alle cinque e mezzo del mattino e avrebbe impiegato più di sedici ore prima di giungere a destinazione.
Trascorse un’ora di viaggio. Vera, con il dondolio della carrozza, si addormentò in grembo alla madre. Era una bambina bellissima, e una massa di riccioli neri le incorniciava il visino dalle guance paffute. Aveva appena compiuto tre anni. Lidija e Andrey desideravano che iniziasse la scuola materna in un ambiente pacifico e sereno.
Non si era spaventata per la separazione improvvisa dal padre: i suoi genitori la amavano e le avevano spiegato che papà le avrebbe raggiunte presto a casa della zia Nika.
Era nata nel settembre del 1988, il giorno in cui Michail Gorbačëv aveva assunto la carica di capo dello Stato Sovietico. Per Lidija e Andrey non era stato facile concepirla. Gli esami fatti negli ultimi dieci anni di matrimonio avevano rivelato una totale normalità dei loro organi riproduttivi e una buona salute in generale. Nonostante ciò, entrambi si erano sottoposti a parecchi trattamenti affinché Lidija potesse rimanere incinta. La notizia della gravidanza era stata un dono.
Gli scompartimenti del treno erano affollati. Faceva caldo, e di tanto in tanto alcuni passeggeri uscivano sul corridoio per prendere una boccata dell’aria fresca che entrava dai finestrini.
Lidija piangeva ancora: non avrebbe voluto lasciare Andrey in mezzo agli scontri della città e temeva per lui, ma doveva proteggere Vera.
Dopo qualche ora la stanchezza e il sonno fecero addormentare anche lei.
Sul convoglio viaggiavano anche uomini, ma in gran maggioranza erano donne e bambini sconcertati, che si guardavano intorno pieni d’interrogativi. C’era gente di varie religioni: cristiani ortodossi, cattolici, yazidi.
Una coppia sulla cinquantina si scambiò un’occhiata sorridendo con malinconia per poi deviare lo sguardo. Erano cittadini benestanti: il loro status traspariva dall’eleganza dei loro abiti e dal grande zaffiro incastonato sull’anello, che la signora portava all’anulare destro, oltre che dal loro compartimento contegnoso. L’uomo occultava l’angoscia volgendo lo sguardo verso il paesaggio, che scorreva veloce fuori dal finestrino.
Più avanti, alcuni giovani dibattevano animatamente gli avvenimenti politici ed economici degli ultimi tempi, mascherando dietro quel dibattere il desiderio di un futuro che sognavano di costruire in un paese lontano e la speranza di trovare opportunità ad attenderli. Tutti cercavano qualcosa alla fine di quel viaggio: la libertà di uscire per le strade senza essere travolti dalle rivolte civili o militari.
Lidija si svegliò mentre Aamir tornava da una passeggiata sul convoglio. Al risveglio di Vera condivisero dei panini.
«Aamir, come credi che andrà a finire il nostro Paese?»
«Stai tranquilla. Tutto si risolverà per il meglio e Andrey si riunirà con voi al più presto».
Nonostante le rassicurazioni, Lidija era preoccupata. Non era così convinta che le cose sarebbero andate bene. La stessa preoccupazione era dipinta anche sulle facce degli altri passeggeri che erano saliti sul treno a Gyumri.
Sei ore dopo la voce dell’altoparlante annunciò l’arrivo del treno alla stazione di Ankara.
«Aspettatemi giù», disse Aamir, «ci penso io ai vostri bagagli».
Vera si stiracchiò in braccio alla madre mentre scendevano dalla vettura.
«Eccomi. Adesso prenderemo i biglietti del treno per Istanbul e del traghetto, dopodiché andremo a mangiare qualcosa di decente».
«Grazie per tutto quello che stai facendo per noi, Aamir. E sai che non mi riferisco solo al fatto che ci hai accompagnate fin qui».
Lasciarono le valigie nel deposito bagagli e si recarono in biglietteria. L’orologio segnava le ventidue: avevano due ore a disposizione, poiché a mezzanotte le donne sarebbero ripartite per Istanbul e Aamir avrebbe preso il treno di ritorno.
Uscirono dalla stazione e si sedettero a un tavolino all’esterno di una trattoria poco distante. Ordinarono “dolma di sarma” condite con yogurt e spezie, due bicchieri di vino bianco e un tè freddo alla frutta per Vera.
Ritornati alla stazione, ritirarono i bagagli e Aamir le accompagnò al treno.
«Addio, e grazie di tutto!» disse Lidija commossa.

*         *          *

Aamir le abbracciò entrambe e promise di aiutare Andrey a raggiungerle quanto prima. Si allontanò solo dopo averle sistemate sulla carrozza e aver visto partire il treno, dopodiché trovò una cabina telefonica e chiamò Andrey.
«Pronto, sono Aamir. Le tue donne sono partite. È tutto a posto: arriveranno a Istanbul verso le sei del mattino. Lidija ti chiamerà prima di salire sul traghetto».
«A che ora salperà?» chiese Andrey all’altro capo del telefono.
«A mezzogiorno. Riposa tranquillo».
«Grazie, amico mio».
Aamir giunse a Gyumri a sera inoltrata, stanco, e decise di passare da Andrey l’indomani mattina, per accertarsi che la famiglia del suo amico fosse al sicuro.
Il giorno dopo prese la copia di chiavi della casa di Andrey dal tavolino all’ingresso e uscì. Camminò spedito per i due isolati che li separavano. Avrebbe comprato il giornale al ritorno.
Quando suonò il campanello non ricevette risposta. Suonò ancora. Tirò fuori dalla tasca il mazzo di chiavi e, individuata quella giusta, aprì la porta ed entrò.
«Oh, mio Dio! Ma che cosa…!». La casa del suo amico era sottosopra. Si mosse con attenzione in modo da non pestare gli oggetti per terra. Una caffettiera borbottava in cucina. Vi entrò lentamente.
«Andrey! Sei qui?».
Il suo amico era seduto con la faccia riversa sul tavolo, in una pozza di sangue. Aveva una pistola nella mano destra, il giornale nell’altra e un foro nel cranio.
Aamir non capiva. Prese il giornale e lesse il titolo della prima pagina: “Tragico incidente ferroviario in Turchia sulla tratta Ankara-Istanbul. Stanotte due treni che viaggiavano ad alta velocità si sono scontrati in una galleria a due chilometri da Istanbul. L’impatto ha provocato la morte di tutti i passeggeri. La polizia ha già identificato alcune delle vittime, i cui nomi sono elencati nella pagina centrale”.
Ad Aamir non fu necessario controllare la lista dei nomi: Lidija e Vera erano certamente morte.