Il Jamaica è forse il locale più triste della città e, se non è il più triste, di sicuro è il più pretenzioso, con vecchie cassette spelacchiate e scomode, finte palme e ammennicoli vari a fingere Caraibi poco credibili, ma la cameriera ci conosce e la nostra pentolada è di sicuro la più alcolica di tutti i tavoli.
Oramai non ha nemmeno bisogno di chiedere: le basta guardarci in faccia per capire se l’umore è dacci dentro con il rum, tesoro oppure affogaci nel rum, cazzo.
Questa è decisamente una serata affogaci nel rum, cazzo, e così eccoci qui a rimestare in una pentola di coccio colma di pezzi di noce di cocco, ananas, mele, fragole e soprattutto rum. Tanto rum.
Io: trentasei anni, professione incerta, rompipalle per vocazione, masochista imperfetta, un anno di castità alle spalle causa cuore infranto.
L’altra: la Bertè, al secolo Nicolò Ghiringhelli, trentacinque anni, un metro e novanta per centosessanta chili, cranio rasato, pizzetto nero, tatuaggi ovunque, sguardo truce. Almeno finché non apre bocca sospirando come la Gloria Swanson dei poveri.
Siamo al minimo storico del nostro fascino. Io non ho ancora metabolizzato la fine della mia ultima storia, la Bertè si è sdrucita di fresco l’anima con l’ennesimo eteroturista.
Che cos’è un eteroturista? Ve lo spiego subito: è il peggio che possa capitare a un gay. È un etero, spesso sposato o fidanzato, che per curiosità fa un’incursione nel mondo gaio, prova il pisello e poi rientra nei ranghi perbene dell’eterosessualità. Lasciando l’omo arpionato con un palmo di naso e, a volte, il cuore in frantumi.
«Cazzo, Bertè, piantala di tirare su con il naso che mi sembri un cocainomane all’ultimo stadio. E poi ti vengono le borse sotto agli occhi se continui a frignare».
La Bertè mi guarda truce. «Io ci avevo creduto, in Arturo».
«Uno che si chiama come un gatto… dimmi quale credibilità può avere».
«Ha parlato quella che sta in gramaglie da numero mesi dodici».
«Ero innamorata. E pure tanto».
«Uh, quello giusto avevi scelto: sposato, musicista e ingegnere. La triade infernale».
STOP – DISSOLVENZA – INCISO
Da brava masochista imperfetta mi sono infilata in un considerevole numero di storie kamikaze con uomini sposatissimi e impegnatissimi che mai si sarebbero separati o sfidanzati. Almeno finché stavano con me. E con gli anni ho capito che due sono le categorie di maschi a cui non so resistere e da cui mi faccio mandare in coriandoli i quadranti cardiaci: i musicisti e gli ingegneri. L’ultimo era sposato, ingegnere e sassofonista. Cronaca di una sofferenza annunciata.
FINE INCISO.
«Si è separato».
La Bertè ha un mancamento e si porta la mano al petto: «Che cooooooosa?».
«Si è separato. Lo ha scritto sul suo blog. Quello che io non mi separerò mai nemmeno se minacciato di morte peste carestia si è separato dalla moglie e dai figli e si è messo con una sposata. Cazzo».
La Bertè rimesta nella pentola, fa rantolare gli ultimi sorsi di rum e sentenzia: «Qui dobbiamo riesumare le zoccole etiliche o, perdio, riprendo a chiamarti Dalidà».
Breve digressione: nel giro della Bertè (quelle che lui chiama affettuosamente le cule perse») ognuno ha un soprannome e quindi c’è la Bertè, la Rettore, la Raffa. Io, unica eterodonna saltuariamente ammessa alle loro serate con sentimento (film d’amore, canne, maschere antirughe e rum) mi sono beccata il soprannome di Dalidà-quella-degli-amori-infelici. Vedete un po’ voi come sto messa.
«No, ti prego, Dalidà no. Poi si è pure suicidata».
«Ma guardati: ti ho conosciuta che eri la tigre del ribaltabile e ora fai la vedova in lutto. Un anno che non scopi e nemmeno ci provi a uscire con qualcuno. In un anno hai messo su dieci chili e non so quante rughe».
Io taccio. È che ha ragione, cazzo, ha ragione.
La guardo: «Zoccole etiliche?».
«Sììììììììììììììììììììììììììììììì».
«Al Naki?».
«Tesora, fai conto di essere già lì».
E poi, felice, prende a canticchiare: «Tremate tremate, le zoccole etiliche son tornate».
Mentre la PD (pòra dona, l’autimmobile della Bertè detta anche bertemobile) ci porta al Naki, io rollo un paio di canne e intanto vi spiego che cosa sono le zoccole etiliche.
La storia risale a prima che incontrassi l’ingegner-sassofonista mannaro e io e la Bertè eravamo due sgarzoline poco più che trentenni, libere&belle.
Beh, forse più libere che belle, ma poco conta.
Squattrinate, sentimentalmente spaiate e scoglionate, in un momento di down emotivo ci eravamo inventate una vera e propria gara di piselli suddivisa in due colonne: da una parte classifica per numero di maschi che riuscivamo a portarci a letto, dall’altra classifica per centimetri.
Eravamo di una precisione scientifica e così avevamo stabilito anche un complicatissimo sistema per valutare le uscite che si erano risolte solo con fellatio o cunnilingus.
Dopo sei mesi, per i patiti delle statistiche, stavamo a dodici uomini per la Bertè e sette per me, con un sostanziale pareggio sui centimetri. Ero decisissima a vincere la gara, ma poi ero incappata nell’ingegner-sassofonista e addio sogni di scopate celesti.
Amen.
Il Naki è una discotecona della zona nostra, un posto dove nessuna delle due porterebbe le orecchie, abituate a musica ben più raffinata, ma ottimo terreno di caccia.
Da un lato la sala disco (età dai venti ai trenta), dall’altro la sala balli latini (età dai cinquanta in su).
Dove si rintanino i maschi chiavabili dai trenta ai cinquanta non è dato saperlo.
Quando arriviamo è presto e troviamo parcheggio quasi all’ingresso. Prima di scendere dall’auto sfilo gli slip, guadagnandomi uno zoccola dalla Bertè.
Fatte di maria come paperi, entriamo barcollando, puntando dritte al bancone del bar: mojitos, perdio!
Siamo al secondo cocktail quando la Bertè viene arpionata da un tizio sui cinquanta, uno di quelli che sono usa definire sottilmente vecchi orrendi. In fatto di uomini abbiamo gusti agli antipodi, ed è la norma che una ritenga intrombabili quelli dell’altra e viceversa.
È sufficiente uno scambio di occhiate perché la Bertè scenda dal trespolo. Prima di seguire il tizio nei cessi della discoteca, si volta verso di me e fa tintinnare i bicchieri con il nostro solito augurio: «A quella cosa!».
Citazione dal film Priscilla, la regina del deserto.
Inciso: appassionate di film, io e la Bertè siamo capaci di imbastire fino a ventun minuti cronometrati di conversazione utilizzando solo le battute dei film.
Fine inciso.
Io tiro fuori il telefono: fa parte del patto. Quando una è nei cessi a zoccolare, l’altra tiene d’occhio il telefono in caso di necessità.
Che poi: posso capire che un metro e novanta per centosessanta chili di maschio possano fare una certa impressione, ma io, col mio fisico da topo di biblioteca, posso giusto giocarmela sulla simpatia e uccidere un malintenzionato a battute cretine.
Ma tant’è.
Rimango attrespolata e mentre finisco le ultime gocce di mojito mi guardo attorno: inchiavabile, inchiavabile, inchiavabile, nemmeno se non fosse la mia.
Serata moscia.
Sto quasi per ordinare il terzo mojito quando alla mia destra mi si avvicina un ragazzotto sui venticinque, decisamente carino e decisamente brillo. Alto alto, vestito firmato da capo a piedi, Rolex al polso, portachiavi Porsche che gli sbuca dalla tasca dei jeans. Hai capito, il poveretto.
Si presenta biascicando il nome che, mi par di capire, è Marco.
Botta di fantasia.
«Piacere, Dalidà» rispondo io.
Marco-il-brillo mi offre da bere e inizia le grandi manovre di avvicinamento al mio opulento posteriore, lumando al contempo la scollatura con vista panoramica sulle tette.
Io ho in corpo: una pentolada al rum, due mojitos, non so bene quanta maria e un anno di assoluta astinenza sessuale.
Ok, bambolo, sei mio.
Lo prendo per la camicia e lo porto verso di me: «Se mi fai venire di lingua» gli sussurro leccandogli il lobo dell’orecchio «poi scopiamo».
Marco-il-brillo s’illumina d’immenso, sorride e annuisce. È impaziente, ma io gli spiego che prima dobbiamo aspettare il ritorno della Bertè, la quale, come evocata, si materializza al mio fianco.
Non ha esattamente un’espressione felice.
«Abbondanza o carestia?» chiedo alludendo alle misure del tizio.
«Ti racconto dopo,» mugugna, «adesso ho bisogno di bere».
Con un segno del capo indico Marco-il-brillo e la Bertè capisce.
«A quella cosa!».
Barcollando, io e il mio cavaliere venticinquenne arriviamo ai bagni. Subito lo dirotto in quello dei disabili, meno affollato e decisamente più pulito.
Entriamo e mi chiudo la porta alle spalle. Con un gesto imperioso della mano lo faccio accucciare davanti a me, mi sollevo la gonna e gliela butto in testa.
«Datti da fare, bambino».
Lingua sul clitoride, un paio di dita a simulare una scopata. Chiudo gli occhi e mi abbandono contro la porta.
Il ragazzo è bravino e mi sta piacendo, ma se non lavoro di fantasia, con tutto l’alcol e la maria che ho in corpo, in piedi nei cessi di una discoteca, rischio di arrivare all’orgasmo a Natale.
Mi concentro e cerco di visualizzarmi al centro di una gangbang di cinque, anzi no, otto, ma dai, non badiamo a spese, ben dieci uomini fisicati e superdotati che mi infilano lingue e dita e piselli ovunque.
Dalla bocca socchiusa mi sfugge un gemito di piacere che si trasforma in un urletto di raccapriccio: in mezzo a quel groviglio di uomini meravigliosi ho visto con chiarezza la faccia dell’ingener-sassofonista mannaro. Maledetto lui. Esci dalle mie fantasie perverse, brutto infame!
Torno a concentrarmi quando Marco-il-brillo, che forse sta andando in debito d’ossigeno, cerca si riemergere dalle mie gonne.
«Non ho ancora finito!» lo redarguisco incazzosa.
Lui torna fra le gonne e le cosce, io mi accorgo che dalla tasca firmatissima dei jeans firmatissimi gli sta scivolando fuori il portafoglio. Firmatissimo e gonfissimo.
Ok, mi dico, devo concentrarmi meglio.
In quel cesso siamo in due, ma nella mia testa siamo non so quante decine e ho esaurito tutte le combinazioni erotiche possibili e immaginabili.
Niente da fare. Non è cosa.
E ora come mi libero di questo tizio?
Fortuna che le risorse non mi mancano.
Prima fingo un orgasmo da Oscar per la miglior interpretazione orgasmica, poi, quando Marco-il-brillo-ora-anche-anchilosato si alza e mette mano ai jeans per slacciarli e liberare l’attrezzo, lo stoppo con un: «Devo fare pipì».
«E falla, no?».
«Non se tu sei qui. Mi blocco. Sono timida».
Il tizio mi sembra un po’ perplesso, ma si lascia guidare fuori dal bagno.
Mano sinistra: apro la porta.
Mano destra: lo spingo all’uscita.
Mano destra: raccolgo il portafoglio firmatissimo e gonfissimo che, a mio avviso, stava per cadergli a terra.
Mano sinistra: richiudo la porta.
Mano destra: mando un messaggio alla Bertè: all’uscita con motore acceso. SUBITO.
Non è la prima volta che esco da quel bagno in maniera alternativa, quindi apro la finestra e inizio a scavalcare, ma saranno il culo grosso, la fattanza o i tacchetti malefici dei malefici sabot, rimango impigliata col culone a mezz’aria e solo a suon di bestemmie riesco a precipitare a terra, fuori dal locale.
Imprecando e zoppicando raggiungo l’ingresso: la Bertè, che Zeus la benedica, è già pronta, col motore acceso.
«Vai vai vai!» urlo saltando in macchina.
«Nostra Signora della Santa Accelerazione, non ci abbandonare ora!» ulula la Bertè sgommando e sollevando polvere e ghiaietto ovunque. «Mi spieghi che cazzo hai combinato?».
«Non mi andava di scoparci» nicchio io.
«Tutta questa scena alla fratelli Blues per evitare una scopata?».
«Diciamo che mi son tenuta un ricordino del fanciullo». E le mostro il portafoglio. «L’ho raccolto un secondo prima che gli cadesse a terra».
«A casa mia si chiama borseggio».
«A casa mia si chiama esproprio proletario. Quello è impaccato di denaro. Io e te no. Trionfi la giustizia proletaria».
Mentre la Bertè guida come una pazza lungo la provinciale, apro il portafoglio e conto i soldi: «Minchia,» sbotto con tono assolutamente poco signorile, «quattrocento e cinquanta euro! Paparino l’ha imbottito a dovere, il caro figliolo».
La Bertè lancia un fischio lungo e acuto.
Io mi sbarazzo del portafoglio gettandolo dal finestrino. «Bertè, ho la botta di fame chimica».
A quest’ora di notte, la nostra sfigatissima zona non ha locali aperti, così facciamo rotta su un autogrill dove, dopo nemmeno mezz’ora, ci ritroviamo a mangiare panini al sapore di plastica e patatine da un godzilione di calorie l’una.
Da sotto il sedile, la Bertè tira fuori una bottiglia di vodka.
«E questa da dove spunta?» chiedo incuriosita.
«Regalino del barista» risponde lei con la faccia da santerellina. «In cambio gli ho promesso un lavoretto di bocca la prossima volta che andiamo al Naki. Cosa che a questo punto, vista la tua perfomance alla Arsenio Lupin, non avverrà prima di sei mesi».
«Ma figurati,» rispondo io alzando le spalle, «quello è così sbronzo che secondo me non si ricorda nemmeno più che faccia ho. E poi non mi ha guardata molto in faccia. Più che altro fra le gambe».
Mangiamo in silenzio per qualche minuto, poi prendo a rollare un paio di paglie.
Controllo l’ora. «Abbiamo la pancia piena, il serbatoio vuoto e quattrocentocinquanta euro in contanti che non vedono l’ora di essere spesi. Se ci sbrighiamo, tre ore e siamo sulla costa adriatica a vedere l’alba».
«Bagno all’alba, arriviamo!» strilla la Bertè.
Poi inizia a raccontarmi che cosa ha combinato qualche ora prima nel cesso degli uomini.
Racconto tratto dalla raccolta Trenta racconti indecenti e una storia d’amore (Prospero Editore).
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