Cinzia Petri – Pomeriggio d’agosto

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Non dimenticherai mai quel pomeriggio d’agosto. Hai nove anni e da poco hai lasciato casa per la prima volta. Trasferimento. L’avevi sentito dire dai tuoi mesi prima, mentre la zia si asciugava le lacrime in fretta, per non farsi vedere.
Tutti i giorni adesso, nella cameretta tinteggiata di fresco, dal lunedì al sabato, tua madre ti sveglia alle sette per andare a scuola, e tu lasci un sogno di gatti neri ed erba luccicante, giochi sparsi in mezzo a un prato dentro la notte fitta. Entri nel giorno in cui bisogna vivere, crescere, abbandonare l’infanzia.
«Quando torniamo?» hai chiesto a tua madre, ma lei ha guardato distrattamente una scena alla tv mentre finiva di stirare.
«Non lo so, forse per Natale», ha risposto dopo un po’.
Non le hai creduto.
Ogni volta che da casa nuova partite per il mare – dieci minuti di macchina, non ti sembra un sogno? – provi una sensazione di gioia mista ad angoscia. Corri sulla sabbia granulosa, ferendoti i piedi con le conchiglie scheggiate e gli stecchi che, da sopra le dune, finiscono sotto le onde morbide della spiaggia. Cadi dentro l’acqua, alzi schizzi alti e trasparenti in cui il tuo corpo riverbera per un attimo prima di precipitare con un tonfo. Il sole brucia la pelle su cui l’acqua si rapprende in tante piccole gocce. Vedi i gabbiani vorticare con versi striduli sopra una porzione di mare, poi tornano sulla terraferma e si aggrappano con ferocia alla sabbia, sbattendo le ali. La vegetazione sulle dune è mossa da una brezza lieve che sa di rosmarino e provi un moto di nostalgia. Se guardi dentro l’acqua bassa, limpida, vedi piccoli pesci che ti nuotano attorno, alcuni a pelo dell’acqua, altri sul fondale. Senti una rabbia semplice e pura.
«Non si può che essere contenti di stare vicino al mare», ti dicono i tuoi ogni giorno. Fissi l’orizzonte e non distingui che una sottile linea incerta che compare e scompare tra le onde. Scie alabastrine di aerei nel cielo e una barca a vela in lontananza che si trascina con una vela mezza sgonfia.
«Non si può avere tutto, o viviamo in montagna o al mare, non le due cose insieme». Mentre ripensi alla conversazione con tuo padre, rimani per un attimo paralizzato dalla sua ineluttabile semplicità.      

Quel pomeriggio d’agosto è il compleanno della mamma. In una radura pianeggiante della pineta stende le stuoie per riposare dopo aver pranzato. Sulle braccia hai i brividi, il costume è ancora umido. Senti le cicale frinire con composta disperazione. Foglie di lattuga in una ciotola di plastica arancione, pomodori già affettati, basilico fresco, peperoni conditi freddi, gialli e rossi. Allunghi una mano e prendi una fetta di prosciutto che fai sparire in bocca.
«Ci sono i fuochi, stasera». Dopo averlo detto, tua madre ti lancia uno sguardo veloce, poi torna a tagliare la mozzarella. Sulla lama del coltello si rapprende un velo di latte annacquato. Alzi le spalle, pensi al ramo del susino in montagna a cui ti piace appenderti e dondolare come un pipistrello. Tiri su col naso.                           

Lunghe colonne di formiche camminano in direzione delle briciole mentre i tuoi passi risuonano nello schiacciare gli aghi di pino morti sul sentiero per il mare. Ti hanno dato il permesso di tornarci, dopo aver dormito. Qualche uccello canta. Si sente il rumore dell’acqua. Una cicala frinisce sulla corteccia di un pino sul sentiero secondario, che si snoda tra la macchia bassa e scura, piena di rovi e arbusti contorti, dalla corteccia color fango. Sulla tua sinistra un fruscio ti fa voltare. C’è un cane, in mezzo al sentiero.
Ti guardi intorno ma non c’è nessuno, lì. Il cane è scuro, alto, ti arriverà – riesci a calcolare – all’incirca a metà busto. Pensi febbrilmente a cosa fare. «Mai indietreggiare», ti ha detto tuo padre. «Stai fermo, stai calmo».
Il cane ti osserva per qualche istante, poi ringhia. Le labbra si arricciano ai lati, vedi il biancore dei denti e la punta rosa della lingua. Pensi che attaccherà, è solo questione di tempo. Lungo la tua fronte si raggruppano lunghe lacrime di sudore che ti cadono sugli occhi, ne avverti il bruciore. Ti hanno detto mille volte di non allontanarti dalla strada.
Il cane continua a emettere dei ringhi sommessi, a brevi intervalli. Ti balena in testa l’idea che, se ti mettessi a piangere, forse si muoverebbe a compassione, così smetti di frenarti e cominci a singhiozzare piano, ti lasci andare al terrore. Le spalle si scuotono con violenza nello sforzo di non fare rumore. Tra le lacrime, vedi i pini trafitti dalla luce che ti arrivano agli occhi come se volessero cancellare il cane per impedirti di piangere.
Quando pensi che ti salterà addosso, la voce improvvisa di tua madre che ti chiama lo fa scappare dentro alla macchia da cui è comparso. La vedi mentre ti corre incontro, ti abbraccia. Le racconti tutto, singhiozzi in modo convulso; lei ti prende per mano e ti riporta alla piazzola, tu sfreghi l’avambraccio sugli occhi per non mostrare a tuo padre che hai pianto.
«Non ci voglio più stare qui». Lo dici con convinzione e, quando lo fai, il bambino diventa un adulto pieno di paura e risentimento. Tuo padre sospira.
«Vieni qua» ti dice, e ti accarezza la testa.

Quando arrivate a casa, in montagna, è una sera senza vento. La nebbia sale lieve dai campi ai due lati della strada. Ci sono rose selvatiche, biancospino e bacche nere. I corvi volano in modo disordinato sullo sfondo azzurro pallido del cielo scaldato dal sole del tramonto, con striature color ostrica e nuvole rosa pesca. «È bello essere a casa». Lo dici a te stesso ma lo pronunci a voce alta.
Quando vai a salutare la zia, sulla guancia ti dà un bacio che sa di rossetto e bicarbonato. Ti prepara lo zabaione, ci aggiunge una goccia di caffè buono e ti fa l’occhiolino. Si porta l’indice alle labbra. «Non glielo raccontare a tua madre, del caffè», ti dice.

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