Culto appassionato per il verbum
Si racconta la convivenza di alcuni reduci di guerra moribondi in un sanatorio della Conca d’Oro, nel ’46. Fra il protagonista e una paziente dagli ambigui trascorsi nasce un amore, puerile e condannato in partenza, più di parole che d’atti, il cui sbocco è una fuga a due senza senso…
È con questo piccolo universo rinchiuso fra le mura di un ospedale che Gesualdo Bufalino rende palese la sua personale liturgia della parola. Un mondo lessicale variegato, dove ogni frase esplode in molteplici riflessi e rimandi, un mosaico policromo sospeso fra Eros e Thanatos.
La parola, prima di essere cifra stilistica, diviene ossatura dell’esistenza. Per una precisa scelta dell’autore i protagonisti non rispecchiano differenze nel loro linguaggio: veleggiano tutti in un cielo punteggiato di sontuosi aggettivi.
Siamo di fronte a un’opera per larghi tratti simbolica, dove l’uso perfetto della metafora affascina a ogni pagina. Il gusto ironico per l’erudizione diventa a tratti sfarzo linguistico baroccheggiante, contagio reciproco di amore e morte, sensibilità tardo-decadente. Uno dei capolavori italiani contemporanei.