Facile come chiacchiere alla festa di un bambino, faccio gruppo come una di loro.
Quando gli uomini svaniscono, l’attenzione si sposta da donna a donna, da grembo a grembo.
Non lascio il mio bambino alla stretta comune.
“Sei stanca? È di tre mesi?”
Quanto mi formano queste parole. Mi hanno messo in un letto d’ospedale,
avvolta, pressata, tra sudore e saliva quando le contrazioni aumentano,
lacrime quando il lavoro del mio corpo è terminato.
Due piccole domande assumono la forma del mio grembo,
la formazione del latte, una sana alimentazione
data alla bambina che affonda le gengive nel tessuto che ricopre la mia spalla.
L’appropriatezza richiede che la mia risposta sia la mia mancanza
di sonno, i capezzoli sciupati, i condotti gonfi,
tutti i lividi e le ricuciture del parto. Mormoro un canto e cullo la bimba,
sapendo il momento in cui la mia interlocutrice mi vede attraverso.
La linea delle labbra dice che conosce la menzogna del mio corpo,
vede il camuffamento nel peso in eccesso sui miei fianchi, il sotterfugio
nella curva e nella mollezza dei miei seni. È la sua perlustrazione finale che lo fa,
il suo esame incrociato dei tratti, la mia faccia di contro a quella più piccola.
La vedo controllare le mie misure, la distanza
dagli occhi agli orecchi, dalle labbra al mento, la fessura che non ho.
La vedo tenere questi fatti sciolti come monete nel suo palmo,
La vedo mettere quelle parti di me tra i denti
e bloccarsi, non trovando altro che un metallo leggero,
un anello vuoto, un falso, contraffatto.