Sean Hardie – Un posto per ogni cosa, ogni cosa al suo posto

0
1640

Hexham, Inghilterra

Sono nato nella prima settimana del marzo 1947, nel bel mezzo della peggior tormenta del peggior inverno da oltre un secolo. I fiumi erano ghiacciati, le strade interrotte da muraglie di neve di oltre sei metri e in tutto il Paese i treni si bloccavano per il freddo. Sulla linea Settle-Carlisle quaranta signore, di ritorno da Leeds dopo una pantomima, riuscirono a sopravvivere continuando a cantare le canzoni di Puss in Boots per tredici ore di fila, sino a quando giunsero finalmente i soccorsi. Era proprio quell’inverno – quello con gli scioperi, i razionamenti, le interruzioni di corrente, i disordini in India e in Palestina; quello in cui ci stringevamo gli uni agli altri per riscaldarci, con indosso la biancheria presa con la tessera a punti, e vivevamo in case dai tetti di lamiera ondulata o nei prefabbricati, e mangiavamo carne di maiale o di balena in scatola, e attendevamo dal nuovo governo socialista la fondazione della Nuova Gerusalemme. I primi anni del dopoguerra, celebri per il grigiore, la fame, la tetraggine. Ma almeno non eravamo diventati tedeschi.

Mio padre è un pastore anglicano. Discende da una lunga linea di vicari, avvocati e medici, membri della tribù nomade dei funzionari imperiali, né particolarmente ricchi né particolarmente poveri, privi di una specifica provenienza, ma che si adattavano senza sforzo ai posti della gerarchia sociale loro destinati in uno qualsiasi dei luoghi dove gli ordini venivano impartiti in inglese, che ad esempio potevano includere le Isole Samoa, il Kenya, l’Australia, la Giamaica, o anche un angolino nelle Isole Britanniche. Quelli di mia madre erano protestanti di Dublino che avevano dovuto rientrare precipitosamente armi e bagagli in Inghilterra negli anni Venti, quando i Feniani avevano preso il potere, trovando una nazione completamente mutata nei quattrocento anni in cui erano stati lontani. In Irlanda erano stati sempre visti come inglesi, in Inghilterra erano irrimediabilmente irlandesi. Questa confusione di identità significò per molti di loro l’impossibilità di crearsi una discendenza.
Verso il 1944, quando Bill and Sheelagh si stabilirono a Hexham-on-Tyne con i miei tre fratelli più grandi, era giunto il momento di trovare una sistemazione definitiva. Non erano mai stati nel Northumberland. Mio padre vi aveva trovato lavoro grazie a una sua conoscenza di Cambridge. Così andavano le cose: suo padre stesso era stato trasferito da una parrocchia piovosa e impegnativa nel sud del Galles a un arcivescovato vacante nelle Indie Occidentali perché un amico degli anni della scuola, in cui un giorno si era imbattuto a Londra, l’aveva trovato un po’ giù di corda, e aveva ritenuto che il clima dei Caraibi e un carico di lavoro non troppo pesante l’avrebbero potuto rallegrare.

Io sono il più piccolo della famiglia, rosso di capelli e con le lentiggini, l’ultimo di cinque, uno dei quali, Padraig, era stato accidentalmente soffocato dalla bambinania quando ancora stavamo a Londra. Venni battezzato nel grande fonte di pietra, proprio sotto le insegne dei reggimenti e il monumento ai caduti nella cavernosa navata gotica di Hexham Abbey. Sono l’unico Seán che si può incontrare nel Northumberland; chi sa pronunciare il mio nome non sa di quali lettere è composto; chi ne conosce le lettere non sa pronunciarlo.
Seán dal drammaturgo Sean O’Casey, Padraig dal poeta e martire repubblicano Padraig Pearse. Oltre alla sua passione di avviare conversazioni non richieste con gli estranei, questi sono gli unici indizi delle origini irlandesi della mamma, che altrimenti lei tiene ben nascoste. Di questi tempi essere irlandese in Inghilterra significa essere cattolico, cameriera d’albergo, manovale, ubriacone, ignorante, poco pulito, indisciplinato, superstizioso e ingovernabile. La stessa vita di mia madre è una spaventosa confusione fra desiderio di stabilità e desiderio di ribellione. Ammira chi ha successo e nomina le sue conoscenze famose, ma continua a fare amicizia e ad adottare i poveri, gli ammalati, i confusi e tutti coloro la cui vita non è quella che avevano sperato. Odia essere la moglie di un pastore e aspira a qualcosa di più grande, di più stimolante, di meno convenzionale della vita in una parrocchia di provincia. Così cerca un rifugio alternativo nella lettura, divorando pile e pile di biografie di poeti bohémien, di pittori e di avventurieri. A notte alta, incapace di prendere sonno accanto al pacifico russare di papà, condivide con Hemingway una soffitta di Parigi, con Lawrence d’Arabia il cammello, e porta a Byron la colazione a letto.
Al contrario papà ama il suo lavoro. È un uomo tranquillo, e il ritmo lento della città e dei suoi abitanti gli vanno a pennello come un vecchio maglione preferito.
«Non hai idea di che inferno sia stato», mi disse mia madre dopo gli ottant’anni, poco prima che l’Alzheimer la portasse via in un completo altrove, «essere la moglie di un uomo amato da tutti».
Ha ragione: tutti vogliono bene a papà, e perché no, poi? È gentile, di buon carattere, con una certa dignità, di bell’aspetto con il suo colorito bruno, in qualche modo è innocente e un po’ pigro. Ha maniere impeccabili, un umorismo spiccato ma sempre benigno, un’avversione ai litigi e ai conflitti e un’aria naturale di quieta e confortante autorità, che danno sicurezza e lo rendono sempre ben accetto. Per quanto ne so, non nutre grandi ambizioni nella vita se non la felicità di Sheelagh (ma, poiché non ne comprende le necessità, ha in ciò un’alterna fortuna) e, più tardi, il grande desiderio di vedere Margaret Thatcher morire di una morte lenta e dolorosa. Suppongo che lei sia la sua nemesi, la personificazione di tutto ciò che ha scelto di evitare nella vita – rabbia, aggressività, avidità, gelosia, egoismo, sciovinismo, maleducazione.
Il suo credo è il Sermone della Montagna, il suo Gesù preferito è quello gentile, beatifico e benigno. Ama Dio e non trova nulla di strano – e neppure degno che se ne parli – nei misteri e nelle contraddizioni della sua fede. Le sue prediche sono volutamente brevi e, quando il tempo è bello, riduce le preghiere del Mattutino (“Tralasciate i versetti dal due all’undici…”) in modo che noi possiamo uscire al sole e godere dei doni generosi del Signore. Il Giardino Pasquale  di sassi e muschio dell’Abbazia è talmente carico di barattoli di primule e di campanule che a fatica si nota l’inopportuna agonia della Croce del Calvario piantata sulla sommità. Lui e la mamma conoscono la sofferenza – lei da piccola ha perso il padre e l’amatissimo fratello, caduto sulla Somme, e non ha mai veramente superato la morte di Padraig (che non viene mai menzionata), ma penso che nessuno dei due creda nel male. Il peggio che mai possano dire di qualcuno è che sia “difficile”.
Il santo prediletto di Bill è il mite e modesto Cutberto, che guariva gli ammalati e serviva i poveri, e che trascorse l’età estrema su una roccia nelle isole di Farne predicando alle anatre di mare. Il tema dei suoi sermoni, spesso riciclati senza vergogna, non cambia mai:
…apprezziamo i doni del buon Dio attorno a noi, ovverossia i nostri amici, questa bella Abbazia, il cibo che mangiamo, la campagna, gli uccelli, le api, i fiori, le colline, ecc.; e, così facendo, non dimentichiamo mai le persone sole/i poveri/i perseguitati/gli ammalati/chi ha sofferto un lutto/i senza casa/quelli che hanno paura/che hanno preoccupazioni/le persone esauste, ecc.; a volte la vita può essere un po’ dura ma, anche se le cose possono sembrarci tanto brutte, noi sappiamo che Dio ci ama, ci perdona e benedice ogni cosa e ognuno di noi nei secoli dei secoli, e possa la pace di Dio, che supera ogni umana comprensione, mantenere i vostri cuori e le vostre menti nella conoscenza e nell’amore di Dio, e di suo Figlio Gesù Cristo Nostro Signore.
Nemmeno una volta l’ho sentito predicare di san Vilfrido, il contemporaneo di Cutberto, dogmatico arrogante e peccatore, temibile sostenitore delle Brevi Papali, che fondò il monastero di Hexham nel 672. I devoti di Vilfrido capiscono, come i commercianti, l’importanza del luogo: la posizione che egli destinò a Hexham, appollaiata sopra il Tyne, a metà strada fra il Mare del Nord e l’estuario del Solway fu un bene immobiliare di primaria importanza per la Chiesa, in quanto controllava l’incrocio fra due direttrici di commercio, la strada nord-sud lungo il crinale dei Monti Pennini e le alture di confine, e la strada est-ovest fra la foce del Tyne e l’estuario del Solway. La chiesa di Vilfrido fu saccheggiata dai Vichinghi. L’abbazia agostiniana che la sostituì fu data alle fiamme in sei successive occasioni dagli Scozzesi. Enrico VIII abolì il monastero e ne demolì i chiostri. Ma la struttura dell’abbazia attuale – delle dimensioni di una cattedrale guarnita da torri quadrate – è, a parte la navata, ancora medioevale e la sua massa di pietra arenaria ancora domina la città. Nel dodicesimo secolo la sua imponenza in quel paesaggio scarsamente popolato e con qualche casetta di legno deve essere stata veramente impressionante. Oggi non sarebbe più possibile ottenere la licenza edilizia per costruirla.
L’Abbazia sorge nel nucleo più antico non solo della città ma anche della mia infanzia: da quando iniziai ad andare a scuola ne conosco ogni pietra e ogni finestra, dalle are romane sfregiate e riciclate come lastre di pavimentazione, dalla volta della cripta con l’intonaco rosso sangue di bue, alle foreste di massicci archi gotici, ai segni delle bruciature sulle larghe e maestose scale del dormitorio, consumate dai passi di generazioni di monaci mezzo addormentati. Ho indossato gli elmi arrugginiti dei crociati appesi nella navata, so come stare in equilibrio sulle pesanti misericordie di rovere del coro e dove trovare il gancetto segreto della porticina che conduce alla tribuna dell’organo.
Il passato, scrisse Cechov in Lo studente, è legato al presente da una catena ininterrotta di eventi che fluiscono uno dall’altro. E gli sembrava di aver appena visto le due estremità di quella catena: e che, quando toccava un’estremità, l’altra si mettesse a vibrare.
Ho appreso tutto sull’abbazia dal sacrestano, un fossile dickensiano, aggrottato e dal naso gocciolante, chiamato Taylor (sembra non abbia un nome di battesimo) che una volta, durante il Mattutino, volò sull’assemblea come uno dei rabbini di Chagall quando l’argano, su cui si avvolgeva la corda della campana che stava suonando, girò completamente su se stesso e lo sollevò nell’aria a un’altezza di dieci metri. La torre campanaria piena di pipistrelli che stava per ammazzarlo è un posto degno di una scena del terrore di Edgar Allan Poe, come essere intrappolati dentro a una gigantesca sveglia. La scala che vi giunge è lunga e tortuosa. Appena entrati si hanno quindici minuti di tempo per aprirsi un varco fra le travi piene di cigolii e le pulegge e per salire una scaletta altissima e traballante fino alla botola sul tetto, ma ne vale la pena per la vista sulla città dai parapetti ventosi e incrostati di cacca di piccione e, più in là, sulle colline ondulate che segnano le frontiere allettanti della terra incognita.

Noi siamo più o meno a metà della scala fisica e sociale di Hexham, sulla linea di confine fra i pergolati di rose dei benestanti sopra la collina e le case a schiera degli artigiani nella depressione nebbiosa sottostante. Ma siamo ben distinti e separati da entrambi, sia fisicamente che socialmente. Ciò nonostante, tutti in città sanno chi siamo. I ricchi pensano che siamo poveri, i poveri che siamo ricchi. I parrocchiani e i loro figli sono più cauti, perchè ci sospettano buoni. Il fatto che papà lavori per conto di Dio li costringe a sfoggiare il loro comportamento migliore. Ma anche se così non fosse, a lui e alla mamma piace pensare il meglio di ciascuno, e da noi si aspettano lo stesso. Se là fuori ci fossero malizia, invidia o risentimento probabilmente non li riconoscerei.
Non è mai totalmente chiaro dove collocare il clero nello schema sociale. Dovunque vada, si sente sempre al sicuro. Io ho fiducia nelle stesse persone e nelle stesse istituzioni in cui hanno fiducia mamma e papà, il che più meno include tutto e tutti – la polizia, i medici, gli scienziati, il governo, la giustizia, la scuola, l’esercito, il Times e la BBC. Come loro, io credo nell’autorità, nell’obbedienza, nella distinzione fra il Bene e il Male, nel rispetto, nella disciplina, nel differimento delle ricompense, nel servizio pubblico, nella beneficenza, nel progresso, nella democrazia, nella regina e nella patria, nelle scarpe ben lucidate, nei capelli spazzolati, nel fare la coda ordinatamente, nelle buone maniere a tavola, nel perdono dei peccati e soprattutto nel futuro. Nel mio mondo ideale non ci saranno né povertà né malattie, ma vacanze più lunghe, e perfino funzioni più brevi in chiesa, tempo più bello, la fine del divieto di leggere quando si spengono le luci, e mai più prugne cotte, crema Junket o zuppa di coda di bue. Si dovranno inevitabilmente combattere delle guerre, ma saranno  giuste e patriottiche, il che è più o meno lo stesso. E, ciò che più conta, le vinceremo noi. Le vinciamo sempre noi.

© dell’Autore

Traduzione di Michele Curatolo

 1 Il Giardino Pasquale è un giardino in miniatura che si costruisce a ricordo della Pasqua. Oltre ai fiori e alle piante comprende solitamente una collinetta con una croce per rappresentare il Calvario e delle pietre per suggerire il sepolcro vuoto.

SHARE
Articolo precedenteSilvia Accorrà – Entropie
Articolo successivoLuis Sepúlveda – Storia di un gatto e del topo che diventò suo amico
Sean Hardie è nato nel l947 . Ha lavorato per la BBC per quindici anni, inizialmente come produttore di programmi d’attualità e ultimamente nel cabaret, dove ha co-prodotto il pluripremiato programma satirico Not The Nine O'Clock New (BBCTV), che è andato in onda negli Stati Uniti come Not The Network news. Ha inoltre prodotto, diretto e scritto per Spitting Image (ITV), Bremner Bird and Fortun (Channel 4) e Video Arts di John Cleese e ha diretto The Signal Box per RTE. Oltre a due premi BAFTA (British Academy of Film and Television Arts, n.d.t.), il suo lavoro per la televisione ha vinto la Rosa d'argento di Montreux, un premio Emmy negli Stati Uniti, premi Writers Guild nel Regno Unito, il Broadcasting Press Guild, il New York e il Chicago Film Festival. Nel l985 si trasferisce nella Contea di Kilkenny per concentrarsi sulla scrittura. Da allora ha pubblicato tre romanzi ben accolti, ha contribuito con articoli e rubriche per Independent e Times di Londra, ha scritto su commissione una sceneggiatura televisiva, The Emerald State per Channel 4 e cinque sceneggiature teatrali - Moldova, Bruciando le vostre barche (Burning Your Boats), Parrucchiere di Dio (God’s Hairdresser), La vita di Wiley (The Life of Wiley) e Ken e Margaret e la Fine del Mondo (Ken and Margaret and the End Of The World). Sta attualmente lavorando a un’altra sceneggiatura e a un romanzo. Vive con la moglie, la poetessa e scrittrice di romanzi Kerry Hardie, in Skeoghvosteen, Contea di Kilkenny. E’ un cittadino irlandese.

Lascia un commento

Scrivi un commento
Per favore inserisci qui il tuo nome

inserisci CAPTCHA *