Leone l’africano: un uomo tra due mondi

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Leone l’Africano fu un personaggio complesso dalla vita ricca e avventurosa. In realtà non era africano, ma un arabo nato a Granada nel 1485, pochi anni prima del culmine della Reconquista cristiana della Spagna, quando Isabella e Ferdinando, I re cattolici, espulsero l’ultimo dei governanti musulmani dalla penisola, e prima della spedizione verso il Nuovo Mondo, evento con il quale, convenzionalmente, si conclude il Medioevo e inizia l’Età Moderna.
Il suo vero nome era al-Hasan ibn Muhammad al-Wazzan al-Fasi e fu un grande viaggiatore, geografo ed esploratore.

Per un arabo nascere in Andalusia in quegli anni significava avere un destino da esule e fuggitivo. Dopo la caduta di Granada, la sua famiglia si trasferì in Marocco, a Fez, e lui studiò presso l’Università al-Qarawiyyin, antico centro educativo che svolse un importante ruolo nelle relazioni culturali e accademiche tra il mondo islamico e l’Europa medievale. Lo studente più famoso, non musulmano, fu il filosofo e teologo ebreo Ibn Maymūn, meglio noto come Maimonide.
Leone ebbe una brillante ascesa sociale, grazie allo zio diplomatico al servizio del sultano di Fez; iniziò presto una serie di viaggi verso l’Oriente, in Asia centrale, e in Africa, nelle regioni e negli Stati a sud del Sahara. Fez era il centro nevralgico del commercio carovaniero transahariano, di cui manteneva il controllo: l’antica via commerciale, lunga più di 2000 chilometri, andava dalle montagne dell’Atlante al Sudan occidentale, fino al golfo di Guinea; mentre l’impero di Bisanzio era crollato di fronte all’espansione turca, il versante occidentale dell’Africa vedeva l’Islam sulla difensiva per le scorrerie portoghesi e spagnole. Fu in questo quadro storico che visse al-Hasan.

Nel 1518, durante uno dei suoi viaggi, la nave su cui stava rientrando venne assalita e lui fu catturato dai corsari spagnoli, portato a Roma e imprigionato a Castel Sant’Angelo. Quando i suoi  carcerieri si resero conto della sua importanza venne liberato e presentato al papa Leone X. A seguito di questo incontro, nel 1520, fu battezzato col nome di Ioannes Leo nella Basilica di San Pietro. È probabile che Leone l’Africano sia stato bene accolto alla corte papale perché il Pontefice temeva un’invasione della Sicilia e dell’Italia meridionale da parte dei musulmani, e un collaboratore informato poteva fornire notizie utili sul Nord Africa.

Dopo la morte del Papa (dicembre 1521), Giovanni Leone rimase in contatto con la curia e i personaggi  della cultura del tempo. Intorno al 1523, libero di muoversi anche al di fuori di Roma, incontrò a Bologna l’ebreo Jacob Mantino, medico, traduttore di Maimonide e di Averroè, con cui collaborò a un dizionario ebraico-latino-arabo; in seguito avrebbe composto un trattato di grammatica e di metrica araba e una serie di altri testi, di carattere storico, biografico e geografico. Leone si trovò al centro di giochi diplomatici in un periodo di grandi turbolenze: la riforma protestante si stava estendendo dalla Germania e l’Inghilterra si stava staccando dall’influenza cattolico-romana; da oriente Solimano, dopo aver conquistato l’Egitto, minacciava i Balcani.
Alla morte dell’umanista Leone X era succeduto Adriano VI, un papa rigido, poco amante dell’arte e delle bellezze di Roma: pare che, sotto il suo mandato, Giovanni Leone sia stato perseguitato e che solo con l’avvento di Clemente VII  abbia ritrovato il favore di un tempo.
Ma il destino di Roma era segnato: nel 1527 vi fu la discesa dei Lanzichenecchi e il saccheggio della città.  Leone decise così di tornare a Tunisi, dove trascorse gli ultimi anni della sua vita in pace. Morì nel 1554.

La Descrizione dell’Africa e delle cose notabili che ivi sono fu il libro che rese noto Leone e gli assicurò la fama negli anni a venire: redatta in italiano con il supporto di alcuni redattori, venne pubblicata per la prima volta a Venezia nel 1550 da G. B. Ramusio, diplomatico, geografo e umanista italiano della Repubblica di Venezia, che la diffuse all’interno della sua opera più importante, il monumentale trattato dal titolo Delle navigationi et viaggi.  Considerato il primo trattato geografico dell’età moderna, pubblicato fra il 1550 e il 1606, riunisce più di cinquanta memoriali di viaggi e di esplorazioni dall’antichità classica fino al XVI secolo.
L’opera di Leone, composta sulla base dei suoi ricordi di viaggio, venne poi ripubblicata, sempre a Venezia; fu tradotta in francese, in latino, in inglese e olandese. Suddivisa in nove libri, il primo contiene nozioni generali sull’Africa e sui suoi popoli, poi descrive l’Africa di Nord Ovest, la Terra negra (il Sudan), l’Egitto dal mare ad Assuan, e gli animali, le piante e i fiumi dei territori delineati; all’interno di questo trattato si narrano anche gli avvenimenti storici, gli usi, i costumi e i prodotti delle singole località. Della Descrizione esiste un manoscritto acquistato nel 1932 dalla Biblioteca Vittorio Emanuele di Roma, il quale, tuttavia, presenta alcune differenze rispetto all’edizione ramusiana da cui derivano tutte le altre stampe e traduzioni. Sebbene l’explicit dell’edizione ramusiana e del manoscritto romano portino la data del 1526, l’esame dell’opera consente di ritenerla già compiuta non più tardi del 1523.

Alcuni studiosi sostengono che Leone ebbe una doppia vita e che fece ricorso alla dissimulazione: nell’Islam, l’antica dottrina sciita della taqiyya (occultamento della propria fede, ovvero la possibilità di nascondere o addirittura rinnegare esteriormente il proprio credo per sfuggire a una persecuzione o a un pericolo grave) era stata utilizzata dai musulmani andalusi costretti ad accettare il battesimo. Probabilmente quella di Leone non fu una finzione volontaria, ma imposta dall’intolleranza dei due mondi, islamico e cristiano, in bilico tra i quali trascorse la sua vita.
Nella vita egli nacque e morì nella fede islamica, e la fase cristiana che lo vide battezzato e nominato Giovanni Leone fu una parentesi in cui si iscrisse la sua produzione culturale conosciuta. Dopo la sua fuga da Roma, sulla vita di Leone e sui suoi lavori regna grande incertezza: non si conoscono opere da lui scritte nel successivo periodo africano. L’eredità culturale di Leone è dunque racchiusa negli scritti rimasti in Europa, e il testo più fortunato rimane la Descrizione dell’Africa, che gli ha garantito una fama duratura. Infatti, è alla storia di questo personaggio che si ispira il romanzo dello scrittore libanese Amin Maalouf, Léon l’Africain, pubblicato in Francia nel 1986; Maalouf, anch’egli uomo di due mondi come al-Hassan, ha spesso narrato le vicende di uomini in viaggio tra terre e culture, e si è immedesimato nella vita di Leone fino a crearne una ricca biografia immaginaria.
La lettura dell’opera di Leone apre a una visione non intransigente della religione e alla curiosità per i costumi dei popoli, che sottende alla creazione di legami e allo scambio di culture come alternativa pacifica in un mondo diviso dalla violenza.

Il suo lavoro offre una descrizione completamente nuova di luoghi fino ad allora considerati leggendari e misteriosi, addirittura popolati da mostri; di ogni territorio che visita, Leone dà un resoconto dettagliato, tratteggiando con precisione non solo ciò che vede con gli occhi, ma anche ciò che sente: assaggia i cibi e osserva le abitudini delle popolazioni locali, in una miscela di approvazione e disapprovazione delle comunità che racconta. E narrando di cibo e di modi di vivere, di manifestazioni culturali e religiose, Leone realizza un’opera, utile ai mercanti e ai politici dell’epoca; ma, superando il tempo, persino agli studiosi moderni, che hanno la possibilità di attingere al suo trattato come fonte documentale e operare, così, un confronto sulle evoluzioni attuali dei Paesi da lui descritti.
Come quando narra della leggendaria e famosa città di Timbuctu, capitale dell’impero Songhai, fondato nel VII secolo; il suo impero si estendeva dal Niger al Mali, sino a una parte della Nigeria attuale. La bella e fiorente Timbuctu, punto di incontro tra l’Africa nera e l’Africa araba, era considerata una città santa dell’Islam e restò per molto tempo proibita ai viaggiatori non musulmani. Per secoli fu il maggior centro di cultura arabo-berbera, ospitando l’università islamica, parecchie scuole coraniche, artigiani famosi per la lavorazione del cuoio, dell’oro, delle stoffe.
L’opera di Leone – al-Hassan l’africano rimane ancora oggi un documento di grande valore storico. Ciò che colpisce è la sua modernità: la sua storia è la testimonianza di un mondo di scambi, non solo commerciali, e dimostra che un aspetto dell’identità è anche la cultura: certo non si può scegliere il luogo in cui nascere ma, aprendosi alla curiosità per la conoscenza e al rispetto che essa merita, ci si può avvicinare alla comprensione di culture, lingue e religioni diverse dalla propria.

Della descrizione dell’Affrica
Parte settima

V.    Tombutto, regno.

Il nome di questo regno è moderno, detto dal nome d’una città che fu edificata da un re chiamato Mense Suleiman, gli anni dell’egira seicento e dieci, vicina a un ramo del Niger circa a dodici miglia: le cui case sono capanne fatte di pali, coperte di creta, coi cortivi di paglia. Ben v’è un tempio di pietre e di calcina, fatto da uno eccellente maestro di Granata; e similmente un gran palazzo, fatto dal medesimo artefice, nel quale alloggia il re. E in questa città sono molte botteghe di artigiani e mercatanti, e massimamente di tessitori di tele di bambagio: vengono ancora a lei panni d’ Europa, portati da’ mercatanti di Barberia. Le donne di questa usano ancora elle di coprirsi il viso, eccetto le schiave, le quali vendono tutte le cose che si mangiano: e gli abitatori sono persone ricchissime, massimamente i forestieri che vi sogliono abitare; intantochè  ‘l re d’oggi à dato due sue figliole per ispose a due fratelli mercatanti, mosso dalle ricchezze loro. Nella detta città sono eziandio molti pozzi d’acqua dolce, benché quando cresce il Niger, ei se ne va per certi canali vicino alla città. V’è grandissima abbondanza di grani e di animali; onde il latte e il butirro è molto da loro frequentato: mi di sale v’è molta carestia, perciocché è portato da Tegaza discosta da Tombutto una fiata che la soma del sale valse ottanta ducati. Il re possiede gran ricchezza in piastre e verghe d’oro, delle quali alcuna è di peso di milletrecento libbre. La sua corte è molto ordinata, e magnifica, e quando egli va da una città all’altra con li suoi cortigiani, cavalca sopra cammelli, e gli staffieri menano i cavalli a mano; e se va a combattere, essi legano i cammelli, e tutti i soldati cavalcano suoi cavalli. Qualvolta alcuno vuol parlare a questo re, se gli si inginocchia innanzi, e piglia del terreno e se lo sparge sopra il capo e giù per le spalle: e questa è la riverenza che gli si fa, ma da quelli solamente, che non gli ànno più parlato, o da qualche ambasciadore. Tiene egli circa a tremila cavalli e infiniti fanti, i quali portano cotai archi fatti di bastoni di finocchi salvatichi, usando di trar con quelli velenate saette. Suole ancora spesso far guerra co’ vicini nimici e con quelli che non gli vogliono dar tributo: e avendo vittoria, fa vendere in Tombutto perinsino a’ fanciulli presi nella battaglia. Non nascono in questo paese cavalli, eccetto alcune piccole chince, le quali sogliono cavalcare i mercatanti per loro viaggio, e anche qualche cortigiano per la città, ma i buoni cavalli vengono di Barberia. E tostochè sono giunti con la carovana di Barberia, il re manda a scrivere il numero, e se passa a’ dodici, egli subito si elegge quello che più gli piace, e pagalo assai onestamente. E’ questo re nimicissimo de’ Giudei, né vuole che niuno stanzi nella sua città; e s’egli intende che alcuno de’ mercatanti di Barberia tenga con loro pratica o faccia alcun traffico, gli confisca i suoi beni. Sono nella detta città molti giudici, dottori e sacerdoti, tutti ben dal re salariati: e il re grandemente onora i letterati uomini. Vendonsi ancora molti libri scritti a mano, che vengono di Barberia; e di questi si fa più guadagno, che del rimanente delle mercatanzie. Usasi, in luogo di moneta, spendere alcuni pezzi di puro e schietto oro; e nelle cose minime cotai concoline, o diciamo cocchiglie, recate di Persia, le quali s’apprezzano quattrocento al ducato. I ducati loro entrano sei e due terzi per una dell’ once romane. Sono questi abitatori uomini di piacevol natura; e quasi si continovo ànno in costume di girarsi, passate che sono le ventidue ore, fino all’una di notte, sonando e danzando per tutta la città. E i cittadini tengono a loro bisogne molte schiave, e schiavi maschi. Questa città è molto sottoposta a’ pericoli del fuoco; e nel secondo viaggio che io vi fei, s’abbruciò quasi la metà in ispazio di cinque ore. D’intorno non v’è giardino, né luogo niuno fruttifero.

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