Luigi Pirandello – Suo marito

Pirandello nei meandri della scrittura femminile

Correva l’anno 1911 quando la casa editrice Quattrini pubblicò “Suo marito” di Luigi Pirandello. L’editore Treves lo aveva rifiutato, perché, a suo dire, era fin troppo palese chi si celava sotto i personaggi di Silvia Roncella e suo marito: niente meno che Grazia Deledda e il suo consorte Palmiro Madesani. Non solo: il mondo rappresentato era quello dei letterati, con le loro dinamiche, le invidie, la piaggeria.
Fu sempre questa la ragione, molto probabilmente, per cui Pirandello decise di non ristamparlo prima di averlo rivisto. Nel frattempo la Deledda aveva vinto il Premio Nobel e ciò le conferiva una sorta di sacralità.
Sta di fatto che lo scrittore siciliano morì prima di portare a termine la revisione e il libro fu pubblicato postumo dal figlio, forse con sue interpolazioni, col titolo ironico di “Giustino Roncella, nato Boggiòlo”. Questo, tuttavia, non riuscì a occultare i riferimenti al mondo letterario contemporaneo.

Questa la storia editoriale del romanzo. Ma, di certo, quest’opera non può essere ridotta a una parodia della vita e del successo della Deledda o a una critica dei letterati dei primi del Novecento.
Nel corso del romanzo, infatti, si possono notare due altri filoni.
Uno è quello relativo alla figura del marito della grande scrittrice, uomo mediocre, che si assume il ruolo di agente letterario e promotore della moglie fino al punto di attribuirsi i suoi successi e rendersi ridicolo. Pirandello, con la sua finezza psicologica, scava in questo matrimonio, nel quale i rapporti uomo-donna sono rovesciati. Una circostanza che l’autore forse vedeva profilarsi all’orizzonte grazie all’affermazione di voci letterarie femminili come, appunto, la Deledda. Quali equilibri, quali soluzioni mettere in atto quando l’uomo è la parte “debole”  della coppia e il genio è femmina? Come conciliare maternità e arte?
Giustino Boggiòlo trasforma la moglie in una macchina produttrice di parole, il cui funzionamento non deve essere impedito da nulla, neppure dal figlio. In qualche modo la prostitui­sce. Non mostra di capire come funziona il processo creativo, né di apprezzare il genio di Silvia. La usa e, da una prospettiva maschile (potremmo dire maschilista), sale al suo posto sul palcoscenico, relegandola, paradossalmente, nell’ombra.
Specularmente, la coppia Gueli-Frezzi (il grande scrittore e critico e la sua amante) vive un rapporto malato in cui lei è gelosa in modo morboso del successo di lui e lo condanna a non scrivere più.

L’altro filone è quello, a mio parere molto più interessante, in cui Pirandello analizza i meccanismi del processo creativo. Silvia Roncella è costretta, dal marito e dalla risonanza delle sue opere, a prendere coscienza di quella che prima era stata una creazione istintiva, quasi inconscia, in cui la storia si faceva da sé. Esasperata, dichiara di non sapere nulla di letteratura, di non poter fare nulla, di essere dominata dall’ispirazione. A un certo punto, tuttavia, impara a usare quegli strumenti che non sapeva di possedere. Il risultato le pare legnoso e senz’anima, ma riscuote un grande successo di pubblico. Un pubblico che siede nei teatri, come quello di Pirandello stesso. Un pubblico le cui reazioni è possibile spiare da dietro le quinte.
Di pari passo, però, il rapporto con Giustino si guasta. Nauseata dal suo modo di gestire la sua vita letteraria e privata al tempo stesso, Silvia si allontana sempre di più dall’uomo, che da un pezzo ha smesso i panni del marito per ricoprire il ruolo di manager-sfruttatore e l’ha allontanata dal suo bambino. Da modesta ragazza di campagna con il vizio per la scrittura diventa una donna moderna, che deve interfacciarsi col mondo. E non può farlo tramite il marito. Comprende che per essere scrittrice, e padrona della propria arte, deve disfarsi di lui.
Se il lettore avesse coltivato il sogno romantico di una riconciliazione, la morte del figlio sancisce la fine di tutto. D’ora in poi Silvia cessa di essere una donna per essere solo una scrittrice.

Ne valeva la pena? Pirandello non risponde a questa domanda. Vi è nei personaggi una nostalgia e al tempo stesso un senso di ineluttabilità per i passati valori. Valori che, sembra dirci Pirandello, sono incompatibili con l’arte. Ciò nonostante, Silvia non scivola in una vita immorale, non si lascia corrompere, come aveva cominciato, invece, a fare Giustino. Gli interrogativi, le conclusioni, quindi, come nella migliore tradizione pirandelliana, restano sospesi, lasciati al lettore.

Da un punto di vista stilistico il romanzo non è tra i migliori di Pirandello. In alcuni punti si avverte un disequilibrio, un’incertezza. A volte è presente una mano estranea. Ciò, però, non ne inficia la modernità e l’interesse.

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M. Caterina Mortillaro, nata a Milano, è insegnante, giornalista, editor, traduttrice e dottore di ricerca in antropologia. Nel campo della narrativa ha pubblicato “Gli amici della torre normanna” (Il Rubino, 2011) e alcuni racconti tra cui “Quid est veritas?”, secondo classificato al Premio Urania Short, “Facciamo venerdì?”, inserito nell’antologia Distòpia (Mondadori, 2020), “Mystika”, apparso su Urania di aprile 2021. Con Delos ha pubblicato “Cicerone – Memorie di un gatto geneticamente potenziato” (2019), “Bollywood Babilonia” (Premio Delos Passport 2018), “Devaloka. Il pianeta degli dèi” (2019), vincitore del Premio Odissea 2019, “La Compagnia del Pisello” (2020), e l'antologia curata insieme a Silvia Treves “DiverGender” (2019). A fine 2021 ha pubblicato il romanzo "Kali Yuga" (Calibano Editore).

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