Imputazione di omicidio per uno studente (1972) di Mauro Bolognini

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A mio figlio Daniele che sta diventando un uomo

Mauro Bolognini (1922 – 2001) è un regista sorprendente e versatile, specializzato in commedia brillante, partendo dal neorealismo rosa (Marisa la civetta), senza disdegnare lavori di impegno civile al fianco di Pier Paolo Pasolini (La notte brava) e soprattutto le trasposizioni letterarie (Il Bell’Antonio, Agostino, Senilità, Un bellissimo novembre, Gli indifferenti), il grottesco (Gran bollito) e il comico puro (Dove vai in vacanza?) che anticipa la commedia sexy (La venexiana). Il segno distintivo del grande regista pistoiese è la sua abilità nel tradurre in immagini capolavori letterari e opere di narrativa, restando fedele allo spirito della parola scritta.

Una pellicola atipica nella sua produzione resta Imputazione di omicidio per uno studente (1972), che si giustifica soltanto imputandola alla sua grande versatilità di autore. Film legato al periodo storico, molto politico, scomodo, controcorrente, che si propone di indagare il difficile rapporto genitori-figli, lo scontro generazionale amplificato da divergenze politiche, ma che cerca di mettere il dito nella piaga dei metodi violenti di una polizia capace soltanto di reprimere. Vediamo la trama.

Fabio Sola (Ranieri) è uno studente universitario che simpatizza per un gruppo extraparlamentare, ma è anche figlio di una famiglia borghese composta dal giudice Aldo (Balsam) e da Luisa (Cortese). Un giorno, durante uno scontro con la polizia, uccide con un pugno di ferro un militare, ma nello stesso disordine di piazza resta ucciso anche un ragazzo. La polizia arresta l’incolpevole Massimo Trotti (Diberti), che i due commissari (Ferro e Colizzi) cercano di incastrare, mentre il giudice Sola dirige le indagini sui due fronti, cercando di capire anche quale poliziotto abbia ucciso lo studente. Finale altamente drammatico con la scoperta da parte del giudice di avere un figlio rivoluzionario e persino omicida, il ritiro dalla magistratura e la decisione di non voler più giudicare ma soltanto capire quei figli così diversi dai padri.

Imputazione di omicidio… non è un film immune da elementi calligrafici e retorici, non è neppure opera del tutto risolta, perché la sceneggiatura di Pirro e Liberatore risente di troppi dialoghi retorici e artefatti. Resta importante soprattutto come documento storico di un tempo in cui lo scontro generazionale era basato anche su elementi politici. “Le idee sbagliate fanno più paura della droga”, dice un profetico giudice istruttore che prevede la deriva rivoluzionaria. Ma il figlio replica: “E chi lo dice quali sono le idee sbagliate?”.

Molto ben girate tutte le scene di azione, gli scontri di piazza con cui si apre la pellicola, i cori realistici a base di Lotta dura senza paura! scanditi da studenti in rivolta, le riunioni segrete passate a stampare con il ciclostile giornali clandestini. Tutte cose che la mia generazione ha vissuto e ancora ne porta addosso le ferite.

Il realismo è la cifra stilistica di un film importante non tanto per la retorica politica di cui è intriso, quanto per il contrasto familiare, per il dramma personale di un giudice che si trova costretto a giudicare il proprio figlio e di una madre affranta che tenta disperatamente di salvare il frutto del suo seno. Tutta la parte politica è molto datata, ma il dramma familiare e piccolo borghese è ancora attuale, porta lo spettatore ad appassionarsi alla vicenda, condividendo la decisione del padre. Perfetto il finale con la macchina da presa che inquadra il giudice mentre getta nel Tevere l’arma del delitto, la prova definitiva che avrebbe incastrato il figlio.

Imputazione di omicidio… non è certo un poliziottesco, anche se utilizza tecniche tipiche del cinema di genere, ma è cinema di impegno civile sulla scia delle opere di Elio Petri, pur meno rigoroso e pervaso di una pietas tipica di Bolognini. I poliziotti non ne escono bene, i due commissari sono macchiette stereotipate di una polizia pseudo-fascista che sa soltanto usare il manganello e non comprende gli studenti. Molto meglio il magistrato, figura complessa di uomo tormentato dal dubbio che cerca di affermare verità e giustizia pure se resta uomo di destra, borghese fino al midollo, incapace di capire le istanze rivoluzionarie.

Bolognini usa il primo piano e lo zoom (in maniera sobria) come stile del periodo storico, dirige con mano ferma gli attori e confeziona un’opera molto teatrale con alcuni spunti fotografici di una Roma anni Settanta. Colonna sonora di Ennio Morricone – musiche dirette da Bruno Nicolai – davvero memorabile, che accompagna e sottolinea i momenti di maggior tensione. Fotografia sporca di Ruzzolini, montaggio abbastanza rapido (per i tempi) di Baragli. Interpreti molto bravi, a partire da un giovanissimo Ranieri nei convincenti panni del ragazzino borghese con simpatie extraparlamentari, per arrivare a Valentina Cortese, intensa e teatrale come madre distrutta dal dolore. Ma è il film dello statunitense Martin Balsam – giudice innamorato del figlio al punto che in una sequenza tenta persino di giocare a flipper per cercare di capirlo -, straordinario interprete di un personaggio complesso. Molto più convenzionali i ruoli ricoperti da Pino Colizzi e Turi Ferro (commissari di polizia che non comprendono i giovani), persino quello di Salvo Randone (il superiore gerarchico del giudice). Ricostruzione d’epoca perfetta, soprattutto gli scontri tra polizia e studenti, le lotte politiche tra ragazzi di destra e di sinistra, le cariche cruente a bordo di camionette nei paraggi dell’Università.

La parte intima e drammatica resta la migliore, la meno datata di un film che in ogni caso merita una riscoperta. Un dialogo tra padre e figlio rimane impresso come un monito ed è un leitmotiv che può andare bene anche per i genitori di oggi. “Che cosa sei diventato?”. “Tutto quello che tu non volevi”. Oggi che i motivi politici non separano più le generazioni, perché nessuno crede più nella politica, resta ancora un baratro a dividere genitori e figli. A volte ci chiediamo anche noi che cosa sia diventato nostro figlio e ci rispondiamo con tristezza: proprio quel che non volevamo. Proprio rivedendo questo film ci ha assalito il dubbio di aver sbagliato tutto e forse – come il giudice Sola – dovremmo avere il coraggio di fermarci a riflettere e tentare di capire.

 

Regia: Mauro Bolognini. Soggetto: Ugo Pirro. Sceneggiatura: Ugo Pirro, Ugo Liberatore. Fotografia: Giuseppe Ruzzolini. Montaggio: Nino Baragli. Musiche: Ennio Morricone. Direzione Musiche: Bruno Nicolai. Edizioni Musicali: Apollo srl. Ambientazione e Scenografia: Guido Josia. Costumi: Maria Baroni. Direttore di Produzione: Romano Dandi. Produzione: Gianni Hecht Lucari per la Documento Film. Distribuzione: Titanus. Interpreti: Massimo Ranieri (Fabio Sola), Martin Balsam (Giudice Aldo Sola), Valentina Cortese (Luisa Sola), Turi Ferro (Commissario Malacarne), Giuseppe Colizzi (Commissario Cottone), Salvo Randone (Procuratore Gentile), Luigi Diberti (Massimo Trotti), Petra Pauly (Carla Stale), Mariano Rigillo (Luca Binda), Carlo Valli (Alfio Ricci), Sergio Enria, Gino Milli, Piero Gerlini, Luigi Bonos, Aldo Ricci, Massimo Sarchielli, Sandra Cardini, Anna Fadda, Paolo Bonetti, Alessandro Francisci.

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Gordiano Lupi (Piombino, 1960), Direttore Editoriale delle Edizioni Il Foglio, ha collaborato per sette anni con La Stampa di Torino. Ha tradotto i romanzi del cubano Alejandro Torreguitart Ruiz e ha pubblicato numerosissimi volumi su Cuba, sul cinema e su svariati altri argomenti. Ha tradotto Zoé Valdés, Cabrera Infante, Virgilio Piñera e Felix Luis Viera. Qui la lista completa: www.infol.it/lupi. Ha preso parte ad alcune trasmissioni TV come "Cominciamo bene le storie di Corrado Augias", "Uno Mattina" di Luca Giurato, "Odeon TV" (trasmissione sui serial killer italiani), "La Commedia all’italiana" su Rete Quattro, "Speciale TG1" di Monica Maggioni (tema Cuba), "Dove TV" a tema Cuba. È stato ospite di alcune trasmissioni radiofoniche in Italia e Svizzera per i suoi libri e per commenti sulla cultura cubana. Molto attivo nella saggistica cinematografica, ha scritto saggi (tra gli altri) su Fellini, Avati, Joe D’Amato, Lenzi, Brass, Cozzi, Deodato, Di Leo, Mattei, Gloria Guida, Storia del cinema horror italiano e della commedia sexy. Tre volte presentato al Premio Strega per la narrativa: "Calcio e Acciaio - Dimenticare Piombino" (Acar, 2014), anche Premio Giovanni Bovio (Trani, 2017), "Miracolo a Piombino – Storia di Marco e di un gabbiano" (Historica, 2016), "Sogni e Altiforni – Piombino Trani senza ritorno" (Acar, 2019).

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