Giuseppe Berto – Il male oscuro

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Il male oscuro comincia come un sogno frequente, terribile e alle volte liberatorio: la morte del padre del protagonista. Ma non vi è una traduzione della morte in termini emotivi. Le emozioni saltano fuori, pingui e irregolari, nella descrizione, carnale, di viscere e fuoco del corpo tumorato del genitore.

Berto è senza dubbio un grande narratore che non ha avuto il giusto riconoscimento popolare di altri, stilisticamente meno innovativi e sperimentali. C’è Joyce dietro questo flusso furioso di essere e non essere. “L’ano” in pancia al padre e gli odori causati dalla malattia vengono rimarcati, dentro un pensiero che non si ferma. Che tritura tutto.

Berto è fine musicista, abile oratore. Scampoli del Portnoy di Roth, ancora di là da venire. Ma anche crudeltà dettata dall’emancipazione, che lo porta a ignorare la famiglia, a essere presente al capezzale del padre sotto lo sguardo ferocemente invidioso delle sorelle. la relazione con la sua donna francese è un non-rapporto. Il dialogo è minimo. Si fa l’amore per comprendersi. Ed è lei che gli ha insegnato a fare l’amore. Ecco come Berto racconta la società che sta per venire: la libertà sessuale e il distaccamento dai valori. L’atomizzazione.

La nevrosi è necessaria canalizzazione dell’alone del padre, con cui il protagonista fa i conti da morto più che da vivo. Esule nel mondo, l’uomo contemporaneo combatte battaglie corpose contro mostri invisibili. Non soffre più di prima. Ma, per via della sua emancipazione, sente di più rispetto alle generazioni precedenti. Così in Berto l’esperienza della nevrosi è anche necessità di cura. La psicologia svolge, in questo libro come nella reale vita dello scrittore, il compito insito nei suoi strumenti: non guarire, ma aiutare. Non si guarisce mai dal male oscuro e per l’autore, represso sin da bambino nella possibilità di esprimere il suo mondo irrazionale, di scrittura, sesso e vitalità, dunque individuando nel padre repressivo la causa del suo malessere, il male oscuro è indipendente; questa sorda angoscia, questo contenitore di emozioni senza nome, è l’ombra nuova, tra gli uomini, con cui fare i conti.

Il richiamo a Dio e alla religione sono costanti. Berto ha sostenuto il Regime Fascista, è stato militare. E, in questa scelta patriottica, l’educazione rigida, in cui il dovere è necessità, salta all’occhio. Berto è patriottico, d’accordo. Ma in lui vi è, come fu da ragazzino con suo padre, il bisogno di ricevere ordini. Di Dio egli crede tutto e niente. Cerca Dio. Con Dio e con altre figure religiose un continuo dialogo, amorevole e puro, straborda nel suo flusso gigantesco e ipnotizzante.

La sofferenza del padre, nei rimasugli di vita post-operatoria, appare preponderante. Si fa metafora dell’urlo specchiatosi a quello del figlio, che rimane però strozzato, movimento interiore dell’esplodere sotterraneo della nevrosi. Il padre vivo è impalpabile, nei suoi lamenti atroci; egli diventa per il narratore un’attesa della morte. Una vittoria. Una sconfitta. Comunque qualcosa con cui fare i conti. Male oscuro che è anche male estremo, quello del padre che si aggrappa con gli occhi al primario, come fosse un cieco nel buio che sente un respiro amico. Il dolore che si tramuta in morte, netta, incontrovertibile, ma anche insegnamento di continuità dell’esperienza. Perché la speranza di un morente, devastato da dolori inimmaginabili, è vita se si pensa alla speranza ultima, che sa di supplica, in un dialogo tra uomo e uomo, tra uomo e Dio. Così come questo romanzo, disinnescato da una struttura narrativa classica e dunque folle nel tentativo del protagonista di espropiarsi dell’anima riottosa e tormentata, questa recensione vuole esserne omaggio, nel ritmo e nello stile straripante, accarezzando quella follia, impadronendosene e rendendola voce narrativa.

Dunque in questo flusso di coscienza, che è il flusso di Zeno Cosini, di Giuseppe Berto, ma anche del sottoscritto, andremo ad analizzare quello che è il nocciolo del romanzo, che poi sfocerà in nevrosi e in possente angoscia. Il protagonista non vede morire il padre. Non c’è, ha preso un treno mentre il padre, agonizzante, sfiorava con uno sguardo assente tutti i presenti al suo capezzale, tra rantoli soffusi e acri odori corporali che ricordano un inferno. Il figlio, Berto, non ci sarà, e questa sarà l’esplosione del suo malessere. Nasce dal padre. Nasce dal rapporto con il padre. Nasce da quell’inaudito che è la morte e dall’incomunicabilità padre-figlio nella vita. L’incontro con Marianna, di diciotto anni più piccola, e gli svaghi dell’amore e del sesso non basteranno a placare questo piede nell’abisso. Sarà necessario il tentativo, anche questo nevrotico, anche questo assillato, trottante nella vorace velocità dei suoi pensieri, di trovare una cura. Questa è l’apice del dramma del protagonista, dove la vita, menomata dalla nevrosi, si fa esperienza insostenibile; dunque la speranza e la vitalità, come fu per il padre in punto di morte, diventano elementi tragici, strazianti, necessari.

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