Fu imbarazzante all’inizio, quando non si conoscevano ancora. La portalettere diceva Salve e Miriam diceva Sto ok anche se lei non lo chiedeva – l’equivalente conversazionale di pasticciare una stretta di mano. Miriam o le strappava di mano le lettere, o non riusciva a prenderle bene e le cadevano dietro al radiatore oppure si sparpagliavano sulle piastrelle del pavimento della cucina. Trovarono il loro giusto ritmo col tempo. Lei diceva Salve per prima, Miriam diceva Arrivederci per ultima. Lei porgeva i fondi delle buste con le loro finestrelle di plastica lucente a faccia in su e Miriam le prendeva per il lato opposto.
La donna camminava con il petto in fuori e le scapole ripiegate nella spina dorsale, come una sdraio in piedi. Era difficile darle un’età. Aveva una testa lanosa di capelli ramati, la cui parte frontale lei stirava in una frangia scomposta. Il resto sbucava fuori dal cappello a cono verde che si schiacciava sulla testa. Più tardi avrebbe detto a Miriam che erano un incubo da lavare. Piangeva di frustrazione quando si sedeva nella doccia per spazzolarli, una volta la settimana.
Mancò a Miriam, quando si ammalò per una settimana. Il suo sostituto era un triste e debole adolescente che si aggirava intorno alla fine del vialetto d’accesso. Quando non vedeva una casella postale, metteva le buste sotto una pietra sul pilastro. La mattina in cui tornò, si avvicinò al finestrino ma non scese dalla macchina. Aveva la testa accasciata sul volante. Miriam uscì e picchiettò sul vetro. La donna sobbalzò come se la avesse sorpresa mentre faceva qualcosa e tirò giù il finestrino.
“Sto ok,” disse, spingendo via le lacrime con i pugni. Miriam era troppo imbarazzata per guardarla negli occhi, così la prese per un braccio e la portò dentro. Estrasse una sedia al tavolo della cucina. La donna ci si sedette come una bambina dopo che si era graffiata un ginocchio.
“Mia madre è morta martedì scorso. Non andavamo d’accordo.” Fece schioccare la lingua. “Non era neanche giovane, aveva ottantacinque anni.”
Miriam si accosciò e aspettò fino a quando la donna fosse riuscita a vederla attraverso le lacrime.
“Era la tua mammina,” disse con fermezza.
“Hmm…Sono una donna stupida.”
“Se lo fossi, non ti avrei fatto entrare in casa mia,” disse Miriam. “Ti avrei passato i fazzolettini dalla finestra e questo sarebbe stato il massimo.”
Lei allora rise, sparando muco dal naso. Miriam le porse un altro fazzolettino. “Sei molto buona,” disse.
“Tè o caffe?”
“Tè, grazie. Niente latte, due cucchiai di zucchero.”
Miriam fece un po’ di trambusto preparando il tè, per permettere al silenzio di scendere. Un’elegante spirale di rame cadde dalla teiera nelle loro tazze di porcellana. Entrambe fecero tintinnare i cucchiaini mescolando lo zucchero. Ricordò a Miriam la campanella che tintinnava durante la consacrazione alla messa.
“Allora mungi le mucche da te?” chiese la donna.
“Ormai sono con me, temo. Ho un fratello a Londra, ma non si è mai occupato della fattoria.”
“Non è per tutti,” disse lei. “Tuo papà è stato fortunato ad averti.”
Fu una sorpresa che Frank Doyle lasciasse la fattoria alla figlia. La maggior parte delle persone pensava che l’avrebbe data al figlio, anche se perfino Miriam ammetteva di essere più uomo lei di quanto fosse mai stato Martin. Quando la loro madre morì all’età di sessantacinque anni, il suo modo di relazionarsi con la sua morte fu di andare in giro annunciando di essere gay a qualunque Tizio, Caio e Sempronio lo ascoltasse. La sorpresa non era l’omosessualità, ma l’esibizionismo che questa comportava. Lui era sempre quello tranquillo che aiutava in casa, che preparava il tè per il papà e per la sorella quando tornavano dal campo. Non lo si sentì fiatare finché la madre morì, e lui improvvisamente iniziò a saltellare in giro tenendo i polsi molli con aria teatrale, costruendosi tutta una nuova personalità intorno al suo mondo privato.
Le cose avrebbero potuto prendere una piega diversa se non fosse stato per il referendum sul matrimonio. Martin ebbe un ruolo importante nella campagna per il Sì presso la parrocchia locale. Passava le giornate cuocendo brownies vegani per gli attivisti e sferruzzando furiosamente sciarpe multicolori. Quelli favorevoli al Sì vennero in casa a fare domande a suo padre. Lo fecero sedere al suo stesso tavolo della cucina con un telefono con videocamera appoggiato vicino alla Bibbia. Frank era troppo a disagio per chieder loro di andarsene, quindi rispose alle loro domande, servendogli il tè da una teiera vestita con uno dei copriteiera arcobaleno di Martin. Dopo che il video fu postato online, Martin se ne andò di casa. Rimase presso amici fino a quando il referendum passò. Poi se ne andò in Inghilterra con una valigia piena di nozioni.
La portalettere si presentò come Julie. Prima che se ne andasse, Miriam le diede una bustina dei suoi garofani rosa da piantare nel suo giardino. Fece un gran trambusto per invasarglielo, ficcando torba in un vaso incrinato di terracotta e avvolgendoglielo in un sacchetto di Tesco. Mise il fagotto fra le braccia della portalettere come se fosse stato un bebè in un sacco per cadaveri.
“Grazie,” disse Julie. Le orecchie di coniglio di plastica ballonzolavano da una parte mentre lei buttava un’occhiata verso la sua nuova pianta che dormiva.
“Ho piantato il mio cespuglio di rose dopo che papà è mancato,” spiegò Miriam. “Tutto quello che gli serve è un po’ di potatura ogni tanto.” Era una bugia. Miriam si prendeva cura delle sue piante come se fossero state degenti nel letto di un hospice. Le solleticava il cuore vedere le rose risvegliarsi dal loro coma, le loro gole soffiare i petali fuori dai boccioli. Erano sopravvissute all’inverno, lo scorso anno. Aveva fatto loro una foto in piena fioritura, i loro petali rosa gelati nella neve.
Julie non parlò più di sua madre dopo quella volta. Miriam non la invitò per il tè di nuovo, ma si agitava per preparare la casa in tempo per l’arrivo della portalettere.
Iniziò a pulire la cucina nello stesso modo in cui certe donne si applicano il trucco. Sistemava la tovaglia a scacchi bianchi e rossi, drappeggiava gli strofinacci freschi gialli sopra il rubinetto del lavandino e sostituiva i fiori sul davanzale con un nuovo bouquet di margherite e primule del giardino. Non ebbe il tempo di fare il pane nero dopo la mungitura, così svuotò un pacchetto di preparato pronto in un paio di teglie unte e le infilò nel forno, seppellendo le prove a fondo nella pattumiera. A Julie non serviva sapere che non erano fatte in casa. Quello che importava era il profumo della cottura che aleggiava fuori dalla finestra aperta, caldo e accogliente.
Iniziarono a fare lunghe chiacchierate alla finestra, appoggiando i gomiti sui lati opposti del davanzale. Julie amava parlare di viaggi. A Miriam faceva venir mal di testa provare a immaginare tutti i posti dove Julie era stata su una mappa – Cambogia, Giappone, Turchia, Iran – quando disse che era stata a Timbuctu Miriam rise, perché credette che stesse scherzando. Quanto lontano puoi viaggiare nel mondo con il salario di una portalettere? Miriam non era mai stata su un aeroplano ma era troppo imbarazzata per dirlo a Julie, e si ritrovò a dire cose come, “Preferisco le città europee. New York e Londra non mi piacerebbero adesso, ma posti come Roma, Budapest, anche Amsterdam… Hanno una specie di fascino sottotono.”
“Hai ragione. È esattamente così,” Julie si illuminò.
Non c’era modo di tornare indietro, dopo questo. Non poteva cambiare versione e dire che non era mai uscita dall’Irlanda, che non sarebbe stato possibile comunque per via della fattoria. Non poteva lasciare le vacche a nessun altro. Aveva paura che se le avesse lasciate, anche se solo per un giorno, gliele avrebbero portate via.
Miriam si inventò una compagna di viaggio sui due piedi, nel caso in cui Julie pensasse di essere la sua unica amica. Si agitò e usò Caroline Kavanagh, una collega ministra dell’Eucaristia a messa, che – per fortuna – era su un altro percorso postale. La Caroline di Miriam era una docente di sociologia all’università di Maynooth, una donna bionda, statuaria, non completamente diversa da Caroline Kavanagh, ma con tratti più morbidi e un naso più bello.
“Andiamo a Praga in gennaio,” Miriam disse prima di potersi fermare.
“Oh mio Dio,” gemette Julie. “Sono così invidiosa. Praga è stupenda. Ci sei mai stata?”
“No,” disse, sincera.
Il viso di Julie si ammorbidì in un sorriso. “Sono davvero eccitata per te.”
Miriam iniziò ad essere agitatissima prima del suo viaggio per Praga.
“Vuoi che dia l’acqua ai tuoi fiori?” chiese Julie.
“Ah no, lo farà Michael.” Michael era il tizio immaginario che si preoccupava della mungitura al posto suo. Avevano l’accordo che Julie avrebbe lasciato la finestra aperta per poter consegnare la posta mentre Miriam era via.
Il giorno prima della prevista partenza di Miriam, Julie si allungò attraverso la finestra e le strinse le spalle. “Porta i miei saluti al Bambino di Praga,” ammiccò. “Sono convinta che sia un baby-travestito, a giudicare dall’aspetto.”
“Poveretto.”
“L’amore viaggia sicuro.”
“Grazie Julie.”
“Pensami quando stai sotto l’Orologio Astronomico.”
“Lo farò.” Miriam chiuse la finestra prima che Julie facesse un altro riferimento che non avrebbe capito.
Se la prese comoda per la settimana, non solo per mantenere un basso profilo. Tutte le mattine, appena sentiva le ruote del furgone far scricchiolare la ghiaia tornando verso il vialetto, andava alla finestra e accarezzava le buste nuove e fredde allineate ordinatamente sul ripiano della finestra. Il modo in cui erano sistemate in mazzetti le faceva sentire come se fosse Natale. Vide Caroline Kavanagh camminare per strada e abbassò la testa nel caso in cui lo potesse riferire a Julie. L’intera situazione era ridicola ma Miriam non poteva farci niente. Le sembrava di essere osservata mentre sbrigava le sue faccende. Per cena, faceva le patate al forno invece che bollirle perché vedere i due tuberi ballare nella pentola uno contro l’altro era troppo deprimente da guardare. Farle al forno era una faccenda più attenuata. Le tolse dalla loro incubatrice e scartò la carta di alluminio per trovare una buccia dura e scura e morbide parti centrali, che mangiò con formaggio fuso e pancetta seduta sulla sedia di suo padre davanti alla televisione.
Aveva pianificato di passare le sue serate leggendo una guida di Praga, ma le sembrava di essere tornata a scuola e di non aver voglia di fare i compiti. Invece, trovò una scatola di documentari naturalistici che Martin aveva preso a suo padre anni prima per Natale, ancora avvolti dal cellophane. Sotto la tv a raccogliere polvere c’era un vecchio videoregistratore. Lo collegò alla corrente e infilò una delle cassette nel suo lettore. Funzionava da sogno.
Un matriarcato di elefanti si muoveva pesantemente attraverso lo schermo. Si erano imbattute nel cadavere di un membro della famiglia. Le loro proboscidi si arricciavano intorno ai resti, abbracciando le ossa. “Gli elefanti femmina fanno gruppo,” sussurrò David Attenborough, mandandole un formicolio dal retro dell’orecchio fino alla spalla. “I maschi sono solitari, ma le femmine hanno un legame forte. Il Gruppo che costituiscono si chiama Memoria.” Miriam mangiò la sua cena a base di patate al forno e cercò di immaginare cosa volesse dire essere parte di una memoria.
Si avventurò fino al negozio di beneficenza in città per comperare un regalo a Julie. Non sapeva esattamente cosa stesse cercando. Pensò che non c’era niente che andasse bene, sarebbe andata da Eurosaver e le avrebbe preso un Toblerone gigante. Il negozio odorava di cose perdute. Due signore sui settanta erano sedute su sgabelli dietro al bancone. Si scambiarono un saluto e le donne tornarono al loro chiacchiericcio. Miriam passò dalle spalle cascanti dei vestiti non voluti appesi alle grucce, per farsi strada nel caos di ornamenti e vasellame nell’angolo – raccoglipolvere, li chiamava suo padre. Pensò che avrebbe potuto trovare un portacandela o un vaso che sembrasse vagamente europeo. Scansionò con gli occhi la selezione di bastoncini di incenso rotti, un paio di scarpe trasandate da comunione, e lo scheletro di una macchina da scrivere. Le ci volle un po’ per riconoscere la bambola con il mantello rosso e la corona. Sembrava un baby-avvocato con la sua parrucca bianca arricciata, che fissava il mondo lì fuori con occhi stanchi come se non lo impressionasse molto ciò che vedeva.
Le donne lo misurarono alla cassa.
“Lo seppellirà in giardino?” chiese una.
“Mi scusi?”
“Se lo seppellisce in giardino, dovrebbe portare bel tempo,” disse l’altra.
“Non penso che potrei mettere sotto terra il poveretto,” disse Miriam. Le donne risero e lei si rilassò. “Veramente ne sto pendendo uno per un’amica, per scherzo. Trova l’iconografia religiosa inquietante.”
Fu solo allora che notò le croci dorate che le due donne indossavano, come se le facessero l’occhiolino fra i colletti delle camiciole di seta.
“Le facciamo un pacchetto regalo?” chiese una di loro, con un sorriso forzato.
“Sembri riposata,” disse Julie, quando finalmente tornò lunedì.
“Mi serve un’altra vacanza,” disse Miriam. Era stata su tutta la notte cercando di mettersi in testa fatti che riguardassero Praga.
“Com’era il tempo?”
“Gelido,” disse. Controllò l’app sul meteo. C’era una nuvola sopra Praga con una didascalia che diceva Possibilità di neve “Però non ha nevicato.”
“E’ un peccato. Sarebbe stata molto pittoresca con la neve,” disse Julie.
“Era comunque bellissima,” replicò, in qualche modo difendendo la sua scelta meteorologica. Porse il pacchetto fuori dalla finestra.
“Ah Gesù, non ce n’era bisogno,” disse Julie.
“Non potevo lasciarlo là.” La guardò scartare il Bambino di Praga dal tessuto dorato in cui le suore lo avevano avvolto.
Julie fece un risolino. “E’ davvero terrificante.”
Ci fu una pausa nella conversazione. Entrambe sorridevano all’altra pensando a cosa dire dopo. Miriam voleva disperatamente raccontarle del suo incontro con le suore.
“Sabato è il mio compleanno,” disse Julie. “Faccio un piccolo raduno a casa. Niente di speciale, ma sei la benvenuta.”
Miriam era senza parole, essendosi preparata solo per una conversazione sul Ponte di Carlo e le vedute dal Castello.
“Ah Gesù,” espirò, “non mancherei per niente al mondo.”
Sabato si occupò della mungitura presto per avere il tempo di sistemarsi meglio che poteva. Versò mezza bottiglia di Radox alla lavanda in una vasca piena di acqua calda. Avrebbe dovuto essere rilassante, ma le fece avere una crisi di starnuti. Dopo essersi asciugata, si spalmò tutto il corpo con la crema idratante e si mise a correre su e giù per il corridoio per farla asciugare più velocemente. Si mise in piedi davanti allo specchio contemplando la sua unica scelta di abbigliamento: un lungo vestito di cotone con un cardigan che copriva i rotolini sulla pancia, collant e delle scarpe consumate con un leggero tacco. Ogni strato di vestiti neri aveva uno stadio di sbiaditura differente, quindi non andavano bene insieme. Raccolse un pallino di lanugine sul retro del cardigan e lisciò le pieghe del vestito. Aveva la testa piena di fitte nervose, ma si aggrappò al pensiero di vedere Julie per tenersi lontana dalle vertigini.
Si sentiva rimpicciolire mentre guidava verso la proprietà dove Julie viveva. Le case erano troppo perfette per essere vere. Sembrava il modellino di un villaggio costruito da un gentiluomo molto serio con un monocolo e una lente di ingrandimento che poteva prendere la sua macchina in qualsiasi momento e riposizionarla in qualsiasi angolo della scena ritenesse che lei fosse adatta. Le auto erano sparpagliate fuori dalle case semi-staccate, e c’erano palloncini rosa e bianchi in fondo al cancello. Non sapeva perché avesse presunto che Julie vivesse da sola. Non aveva mai parlato di alcun convivente.
Miriam sbattè la portiera dell’auto. Pesanti frammenti di musica forte e di risate le atterrarono in testa. Fece un respiro profondo ed esalò le parole “Forza”. I suoi tacchi da gattina grattavano il pavimento. Desiderò di non averle indossate. La porta era gialla e aveva una finestra circolare con vetro sabbiato che pareva neve. Suonò il campanello e aspettò.
Una ragazzina con i capelli rossi aprì la porta e incrociò le gambe in un inchino. “Posso prendere il suo cappotto?” offrì, prima di fare una smorfia vedendo l’abbigliamento di Miriam. “O quella specie di cardigan?”
“No grazie,” sorrise Miriam. La ragazzina sembrò così delusa che aveva voglia di tornare alla macchina e cercare un cappotto da darle. Una donna stava in piedi alle spalle della ragazzina supervisionandone i modi. Aveva enormi occhi marroni da mucca. Un ventaglio di ciglia era appollaiato su ciascuna delle palpebre. Miriam la fissò per un momento di troppo.
Julie giunse scivolando dal corridoio lungo il pavimento di legno, con un sorriso troppo grande per la sua faccia.
“Miriam, sei venuta.” Si avvicinò per baciarle la guancia, posandole una mano sulla spalla. Una ciocca di capelli solleticò il collo di Miriam. Quando si allontanarono, Julie mise un braccio intorno alla vita della donna con gli occhi da mucca. “Questa è mia moglie, Martha.”
“Ho sentito tanto parlare di te,” disse Martha.
Julie si chino e mise le mani sui fianchi della ragazzina. “E questa è nostra figlia, Ellie.”
Ellie indicò Miriam. “Tu sei lavoro!”
Miriam la fissò mentre Julie e Martha risero.
“Tutte le volte che Ellie mi chiede dove vado la mattina, dico che vado a casa della mia amica Miriam,” spiegò Julie. “Solo recentemente ha realizzato che andare da te significa andare al lavoro.”
“Non lo sapevo,” disse Miriam.
“Com’è stato il tuo viaggio a Praga?” chiese Martha.
“Freddo.”
Martha rise. “Noi Andiamo a sciare la settimana prossima.”
“Basta,” Julie le diede di gomito.
“Cosa?”
“Era una sorpresa di compleanno,” disse Julie.
“Sarà bellissimo. La neve era stupenda a Praga.”
“A Praga?” disse Julie. “Pensavo che avessi detto che non aveva nevicato.”
“Infatti no,” disse troppo rapidamente, “ma lo sentivo nell’aria – la possibilità di neve.”
Julie ridacchiò nel goffo silenzio. “La possibilità di neve. Sei una donna tosta, Miriam.”
La guidò in cucina, dov’era esposto il buffet. Una donna in gilet stava in piedi dietro ai vassoi di un argento accecante, scodellando una palude di curry di pollo sui piatti degli ospiti che avevano formato una fila ammirativa.
“Ti prego non essere timida,” disse Julie, finalmente guardandola bene. “Sono così contenta che tu sia venuta.” Mise la mano sulla sua spalla e si allontanò per salutare i nuovi arrivati che avevano usurpato la posizione di Miriam sulla porta.
“Vorrebbe qualcosa da bere?” Ellie le tirava la manica. Miriam sorrise e scosse la testa. La ragazzina capì che sarebbe diventata noiosa e la lasciò da sola.
Aspettò in coda in attesa di un cibo che sapeva che non avrebbe mangiato. C’era abbastanza gente perché lei sgattaiolasse via dieci minuti più tardi senza essere vista.
Cercò di capirci qualcosa guidando verso casa. Era la prima volta che aveva visto Julie indossare gioielli. Una fascia di semplice oro, come avrebbe indossato un uomo, le circondava il dito. Sua moglie sapeva di tutte quelle mattine che lei passava a porgere la posta a Miriam a mani nude?
“Stupida, stupida donna,” sussurrò, una mano sul volante, l’altra a cacciar via le lacrime dal viso.
Non appena tornò a casa, andò a controllare una delle vacche. Una parte di lei voleva assicurarsi che non se ne fossero andate quando lei non c’era. La maniglia di metallo del cancello era del tipo di gelo che bruciava al contatto. Il clangore della sua apertura tintinnò nel silenzio. L’erba alta mormorava contro le sue scarpe. Era nato un vitello. La vacca e il suo piccolo avevano sentito Miriam prima di vederla uscire dalla manica della notte e arrivare sul pavimento davanti a loro, come un trucco di magia.
“Coraggio, su,” disse, sollevando il vitello sulle gambe instabili. La separazione era stata casuale. Quando era più giovane li costringeva a dire un addio definitivo, spingendo la madre verso il vitello come una bambinetta che giocava alle bambole. Qualunque cosa facesse, non avrebbero avuto memoria l’uno dell’altra. Il vitello si diresse ondeggiando via da sua madre verso la sua gabbia nel capanno. Miriam andò a letto e sognò di suo padre.