Aoife Casby – Cosa succede nelle ore di mezzo?

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6 luglio ore 12.17 Liverpool

Preso un nuovo pigiama ieri. Mai indossato. Da anni non ho pigiami. Sapete, è quel genere di cosa che si ha da bambini, quando dormire è importante – veramente uno spreco di soldi; qualsiasi vecchia maglietta è più comoda e col caldo di questo posto non servono, né serve il suo contatto con braccia e gambe. Meglio lenzuola fresche. Non ho pensato a una camicia da notte, anche se immagino che non sia importante se non volete uscire per fumare. Voglio mettermi i vestiti che uso di fuori, tornare all’aeroporto, andare a casa e lavarli tutti quanti; mutandine, quei collant a righe, gonna, il top nero con i fiori bianchi delicati. Mi piace l’idea di riempire la lavatrice. Sì, e magari andare in quel grande negozio di ferramenta su Crescent Hill, a cercare la pittura. Non ci sarebbe niente di male a dipingere una stanza.
Riesco a sentire la mia spina dorsale dispiegarsi pezzo a pezzo quando sto in piedi. Ecco. Proprio in quel modo. Esattamente così. Non voglio sedermi. E la zaffata del fumo da sotto le gole delle altre ragazze quando mi passano vicino e dicono i loro Ciao quasi silenziosi è spiacevole. Ho chiesto all’infermiera Era un maschio o una femmina?, ed era una domanda così reale. Lei ha risposto che era okay con una specie di voce cattiva. È okay. Non so cosa volesse dire.
Il muro è freddo. Bianco, e c’è una specie di intelligenza nel colore del muro, come se respirasse. Dev’essere quello che chiamano satin. Non che io conosca il satin. È una cosa strana, la sensazione che dà un muro, che sarebbe scarmigliato così come il colore con cui è dipinto. Morbido uguale. Non proprio quello che ci si aspetta, il silenzio della pittura su un muro, ma sotto è uguale a tutto il resto: brutto. Con i mattoni e le loro vene e tutti pezzetti di quello spazio vuoto in mezzo, dove vivono i ragni e gli insetti che amano l’oscurità, dove l’isolamento della schiuma spreme soffocamento nello spazio. Gli edifici tengono fuori la natura. Se ci pensate, proprio sotto la pittura del muro, all’interno di quei blocchi, è l’uomo che lotta.
L’edificio è aria.
Preferirei dormire in un campo aperto. Sentire la rugiada sul viso. Guardare negli occhi la notte.
Una volta ho dipinto una stanza nell’appartamento di un condominio. Una nursery per il bambino di qualcun altro.  Una nursery. Ma in effetti era solo una piccolissima camera da letto non più grande di un armadio, così piccola che era impossibile immaginare che qualcuno ci dormisse, perfino un neonato. L’abbiamo dipinta tutta di gialli e di bianco perché gli allora proprietari dell’appartamento non sapevano se sarebbe stato un maschio o una femmina. Alla fine hanno avuto una bambina. L’hanno chiamata Jasmine.
Io chiamerei la mia prima bambina Susannah, se non suonasse troppo vecchio. Dovrebbe somigliare a se stessa per essere Susannah. Il problema è che devi sempre convincere l’uomo a essere d’accordo. Tony non sarebbe mai d’accordo su Susannah.
Cristo, proprio adesso sento che potrei stare accanto a questo muro per sempre. Penso che mi piaccia la sofferenza della sua pelle sul dorso della mia mano. È stranamente tenera; se gli dò uno schiaffo col palmo è troppo simile a pregarlo, come chiedere qualcosa. Molto meglio avere una specie di tocco leggero, così da non sembrare bisognosi. Ascolta, c’è ancora quel suono di acqua che ribolle. Dentro i muri. Calore. E le porte. Ascolta. Non riesco a replicare il suono con la bocca. Sono quelle setole; ti sorprendono con il loro suono bleso e soffocato, e le altre porte con quello strofinio intimo di gomma, una specie di risucchio. Fa pensare a delle vagine.
Ha!
Il sorriso sulla mia faccia lo sento strano. Cerco di figurarmi cosa sentano le altre persone.
Potete chiudere gli occhi e ascoltare l’intero edificio ribollire, sciabordare e sibilare, una specie personale di quiete. È caldo fuori, in natura, al di là delle finestre; e ci sono le mosche estive che ronzano e impollinano. Presumo che questa pittura sia del tipo che si gonfia se esposta al calore. È delicata fino a questo punto. Mi sono fatta una brutta bruciatura il giorno in cui Tony è tornato dalla Francia. Mi fa ancora male, ma il muro è lenitivo lì sopra, sul punto dove c’è il segno rosso.
Non lo sanno, queste ragazze; non sanno della bruciatura o di Tony o di altro. Però posso capire i loro sorrisi. Sembrano abbastanza in vena di chiacchierare ma io non ho voglia di parlare. Non c’è niente da dire – tutte noi con i nostri accenti nei nostri indumenti da notte nel mezzo del giorno. Tutte sussurri e sigarette.
Non mi piace più il fumo, non mi manca. È strano – quando ti manca la mancanza, quasi la cerchi, guardandoti costantemente alle spalle, forse per vederne l’ombra, per vedere se il desiderio fa capolino perché non è ancora morto. C’è un mormorio nel sangue e nelle ossa che ve lo dirà.  Sta aspettando. Le mie mani ci rimangono male quando mi allontano dal muro. Non avverto nient’altro, niente crampi, niente dolore. Niente.

6 luglio 14.49 p.m. Liverpool

Tony è ben lontano da me adesso, ben lontano. Tony. Non è bravo con la pittura. Ci sono crepe negli strati di vernice in tutte le stanze a casa, e tutto intorno gli stipiti delle porte le pennellate sono pasticciate e frastagliate. Tutto quel lavoro, fatto di fretta, come quando applichi pittura da poco, gratuita, e devi farlo veloce, e poi il risultato finale in qualche modo risulta migliore perché è stata applicata rapidamente per nascondere quanto sia da poco (o qualcosa del genere). E invece, piuttosto, pigrizia e poi non c’era abbastanza di ciascun colore per finire una stanza intera. Mancava pittura su tutti i muri. I quadri che aveva appeso aumentavano soltanto il senso di inadeguatezza. È stato sciocco da parte mia suggerire di fare un progetto, specialmente quando non riusciva a capire cosa intendessi. Potrei imparare a farlo, dissi. Potrei fare pratica prima nel bagno, perché forse, sai, non importa moltissimo. Sai, dipingere con gli stracci così da far risultare un look maculato, ma lui si mise a ridere all’idea e credo di aver saputo che l’avrebbe fatto. Non so quanto sarei stata contenta di farlo comunque. Quel genere di cose, imparare a fare una cosa come quella, è sempre come farlo a beneficio di qualcun altro. Ecco la questione.
Non mi mancherà il bagno di questo posto. È così infantile, tutto è gigantesco; enormi lucchetti che devi rigirare e fargli fare un – certamente soddisfacente – clic; grandi maniglie alle porte, ampi spazi sotto le porte, grandi cestini sanitari. Questo mi faceva ridere. Grandezza dappertutto. Non penso che l’infermiera cogliesse l’umorismo. Comiche, le cose che uno nota. Come se fossimo in una fiaba. Tanto meglio che ti si mangi.

Il cielo passivo, disattento fuori dalla finestra alle sue spalle sembra ancora più lontano adesso; l’aria è luminosa, il mondo più leggero, pelando via uno strato perché qualcosa mi dia una bella occhiata. Ho l’idea di essere osservata, e mi accorgo che è lei a farlo. Mi sta osservando. Tutto questo tempo ho pensato che il suo silenzio fosse ignoranza, ma è attenzione. Guardo il mio orologio e il suo quadrante rotto, la sua inutilità.
«Sono quasi le tre» dice lei.
Mi accorgo che sta dicendo parole che pensa che mi possano recare conforto, o almeno avvicinarmici. Voglio chiederle cosa lei capisca di me, ma non so come dirlo.
«Ah sì?» dico. «Allora devo andare».
Guardo l’infermiera con le sue mani da ragno e la sua scrittura senza pretese comporre stupide parole sul modulo.
E vado alla porta e penso di volare a casa.
Ho fame.

6 luglio 16.11 Liverpool

Ben fuori dall’edificio arioso, giù verso la strada ariosa, e la Dottoressa mi ha detto che sarei stata benone, e di non far sesso per una settimana. Lo ha detto senza ricordarsi della mia faccia. Lo so, e penso a quanto sia strano parlare di una cosa tanto intima senza vedere un’espressione. Non so cosa pensare di lei. Quindi la mia vagina è fuori portata per dieci giorni. Nessuno di questi sconosciuti per strada può immaginarlo.
Sembra che siano passati anni da che gente non familiare ti guarda negli occhi. Vorrei che notassero che non sono incinta, ma come fanno? Non mi conoscono. Ci sono cose che vengono al mondo per restare un segreto. Ma, allo stesso tempo, non sarebbe bello? Sì, bello sedersi, versare il tè con i biscotti, o andare perfino in un wine bar, un posto piacevole dove non è che desideri sempre essere da un’altra parte; un posto in cui gli sguardi delle persone non sono annoiati o disperati. Non sarebbe bello essere in un posto del genere e dire «Sì, non sono più incinta», proprio naturalmente, e loro ti farebbero domande, parleremmo, e nessuno fisserebbe il pavimento, o non ci sarebbero quelle occhiate affilate che ti dicono che hai detto troppo. Sarei capace di notare cose come i disegni delicati sulle tazze o il modo elegante in cui cade il materiale di cui sono fatte le tende, o l’aspetto della pelle della mia amica Sandra, perché ha usato un nuovo idratante, da una rivista, e sapremmo tutti chi siamo e perché ci troviamo in quel posto.
Ma le persone non sono fatte per parlare in quel modo. Non riesco a smettere di appoggiare la mano dove c’era il bambino, attraverso il ventre vuoto. Non posso far sesso per un paio di giorni, come se… ne avreste voglia? Quel genere di cosa mi fa venir da piangere se ci penso troppo a lungo. È lassù con i sedili comodi, le tende che si gonfiano al vento e aromi che non sarei in grado di pronunciare.

6 luglio 22.52 Il Pub, Dublino

Tony è seduto storto sullo sgabello del bar e sembra che debba cadere da un momento all’altro. Lei ha mangiato qualcosa in città, nientemeno, dice e guarda verso me e Sandra con quelle sopracciglia sollevate. Volevo farmi un regalo, le dico e lei mi dice che ho stra-ragione, che se non lo faccio io, chi lo farà. Troppo vero, dico, ma senza convinzione. Tony mi prende la mano e il tocco umido delle sue dita nelle mie sa di supplica; mi dice che sono bellissima. Lo so, dico. Lui sussurra qualcosa che Sandra non può sentire, sul fatto di aspettare che lui mi porti a casa, e io gli dico non c’è storia per quello, e non ci sarà, perché recentemente lui si addormenta, da tanto è stremato per il lavoro in cantiere. La stanchezza gli toglie anche quello.
Sandra esce a farsi due tiri di sigaretta. Stasera ci si diverte di più là fuori. Tony beve. L’ultima volta che abbiamo fatto sesso è stata la notte che mi sono bruciata. Uno stupido incidente.  Arriva alla porta scoppiando di energia, tutto compiaciuto del fatto di essere a casa nel nostro appartamento mal pitturato, e mi spaventa a morte con un grande urlo e io cado contro la cucina a gas e appoggio la mano sulla fiamma. Non potresti bruciarti ancora in quella maniera nemmeno se ci provassi, dice più tardi a letto.
C’è un segno sulla pittura in cucina dov’è caduta la padella, un segno che non sarebbe rimasto se la vernice fosse stata migliore. Mi piace guardare quel segno. Com’è fatto mi ricorda un sacco di cose, il passato, il futuro. C’è la scheggiatura di dove la padella ha colpito e ha portato via uno strato di vernice, ed esposto il gesso rosa; c’è la macchia di unto della salsa cremosa della pasta come una crescita irregolare ai piedi del muro. L’intero macello selvaggio è screziato da schizzi dello straccio per pulire in terra. È sull’onda di una voglia sulla pelle, perché ha peso, abbastanza peso per tirar giù il muro da sola.
Dopo che l’abbiamo fatto il giorno della bruciatura, lui mi ha preso la mano bendata sotto le coperte e al buio ha detto, Andrà tutto bene. Ce la caveremo, come se avesse voluto significare qualcosa. Allora sapevo due cose – che sarei rimasta incinta e che quando avessi avuto una bambina, l’avrei chiamata Susannah.

2 giugno 11.01 Casa

È una giornata suburbana grigia e soffocante. La notte scorsa ho sognato che avevo una bambina e la lasciavo avvolta in una coperta sopra una poltrona, uscivo a fare spese o per andare a un luna park o a fare qualcosa di ugualmente frivolo. Non le avevo nemmeno cambiato il pannolino, e quando mi sono svegliata mi sentivo come se avessi avuto un doposbronza. Quelle due strisce gemelle sullo stick non sono state una sorpresa.
Lui ha quasi finito di dipingere il bagno. Adesso abbiamo quattro stanze quasi finite. Non so che cosa mi aspettassi. Solo vedere la sua schiena curva su quel secchio di seconda mano mi fa venire i conati. Se ne va via, vero? Se ne va via, tutto l’amore, il desiderio. Tutto quel desiderare e sognare, vedendo l’idea di casa di qualcun altro.
Il modo in cui era acciambellato lì mi faceva pensare a un ricordo di cui raccontava sempre, di quando aveva diciannove anni e lui e la sua ragazza di allora fecero saltare il lucchetto e la catena di una bici per andare in città, scelsero una bici assicurata a una ringhiera senza alcun criterio particolare e la legarono di nuovo alla ringhiera di ferro; la bicicletta di un perfetto sconosciuto. Una bici da uomo, e misero la loro catena sotto la sbarra dell’uomo e la riavvolsero, ancora, alla ringhiera. Poi si allontanarono e lanciarono la chiave nel canale; non aspettarono nemmeno di vedere cosa accadde quando il proprietario della bici ritornò.
Ho sempre pensato che fosse strano. Perché farlo, se non si ha intenzione di aspettare? Sembra che non si sarebbero goduti il divertimento. Tony disse che la bici rimase lì per settimane, dopo, disintegrandosi lentamente. C’è qualcosa di patetico in questo. Non ci fosse stato nessuno a tagliare il lucchetto – questo è parte della tristezza, l’impotenza di tutto l’episodio. Tremendo. La bicicletta abbandonata lì e la chiave del lucchetto nell’acqua, e nessuno sapeva perché tutta quella faccenda fosse accaduta. Pensai allora, e penso adesso, che io ne capisco di più di quanto non ne capisca Tony. È come se lui raccontasse quella storia a proposito di un’altra persona, come se fosse di seconda mano. Semplicemente non lui.  Penso che ci fosse una specie di metafisica paterna pre-scientifica, rudimentale, in questa cosa della chiusura della bicicletta – una reazione da cane pavloviano a qualcosa che lui non capiva.
Ma tu resisti.
Ho provato a lavar via in cucina la macchia della salsa della pasta, e ho finito con il candeggiare parti del muro. Non c’era abbastanza pittura per ricominciare e non abbastanza colore per recuperare il danno.

7 luglio 01.47 Casa

Mi viene in mente eccome che sto cercando una casa. Non sono sicura di che cosa significhi esattamente. Casa. Una di quelle parole che suona goffa e calda allo stesso tempo. Dovrebbe evocare un posto a cui tornare, una base, uno spazio riempito di accoglienza e benessere. Casa. Casa. Vasa. Nasa. Pasa. Basa. Masa. Dasa. Rasa. Interessante. Dove vivo? Non lo so più.

Quel pigiama è nuovo, dice poco prima di crollare nel letto. Si sporge e lo tira fuori dal mucchio per terra, e non dice niente della sensazione che gli trasmette. Sì, lo è, dico, e la prossima volta che me ne regalo uno, ne prendo uno veramente costoso, di vera seta o satin, non mezzo cotone. Ha un odore, gli dico. La prossima volta? dice. Hai in mente di aprire un negozio di pigiami? E riesco a sentire il suo sorriso imbarazzato prima che si addormenti. Perlomeno ha smesso di parlare del fatto di avere bambini. Questo renderà l’andarmene più facile. Andrò all’aeroporto senza avere in mente alcuna destinazione. Ma prima andrò al negozio di ferramenta sulla Crescent Hill, prenderò della vernice e finirò una stanza.

Traduzione di Silvia Accorrà

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I racconti brevi e le poesie di Aoife Casby sono stati pubblicati in “The Dublin Review”, “The Stinging Fly”, “Banshee”, 'Noir by Noir-West' (Arlen House), “Ropes”, “The Cúirt Annual”, “Whispers and Shouts”, “West47”, “Criterion”, “The Cork Literary Review”, “Divas anthology” (Arlen House), “The Sunday Tribune”, “Cyphers” e altrove. È stata la vincitrice del “Doolin Short Story Prize 2017” (giudicata da Tramp Press) ed è stata a lungo inserita nell'elenco dei vincitori del “Seán Ó Faoláin Short Story Award” e del “Fish Short Story Prize”. Ha ricevuto borse di studio letterarie dall'Irish Arts Council e dal Galway County Council. Sta completando un dottorato di ricerca presso la Goldsmith's University, Londra.

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